L'articolo di Sergio Boschiero
pubblicato su "Storia in rete"
novembre/dicembre 2011
Lo scorso settembre il Consiglio
Comunale di Pontelandolfo, caratteristico paese del beneventano con poco più di
2.000 abitanti, si è attribuito lo status di “città martire”, nel ricordo della
dura rappresaglia dell’Esercito Italiano, seguita all’eccidio di 44 giovani
militari impegnati nella guerra al brigantaggio. Già il 14 agosto, per la
commemorazione ufficiale del 150° anniversario della rappresaglia, il Comune ha
avuto la partecipazione di Giuliano Amato in veste di Presidente del Comitato
dei Garanti per i 150 anni dell'Unità d'Italia e di rappresentante del
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Amato, a nome della Repubblica
Italiana, ha chiesto ufficialmente scusa alla piccola comunità per i fatti del
1861. Ma cosa avvenne davvero 150 anni fa e perché si è voluto un atto pubblico
riparatore?
Il paese si chiamava e si chiama
Pontelandolfo, nell’alto Sannio, in provincia di Benevento. Nel 1861 era punto
di ritrovo di briganti. Il 7 agosto 1861, celebrandosi a Pontelandolfo la Festa
di San Donato, Protettore locale, il paese si risvegliò con il suono delle
campane di tutte le chiese e la processione divenne per i briganti, accorsi a
centinaia, l’attesa occasione per mimetizzarsi fra i fedeli e scatenare
l’insurrezione contro lo Stato e le ancor giovani Istituzioni unitarie. I
Briganti assalirono gli uffici municipali, la polizia e depredarono le botteghe.
Riuscirono così ad annientarela presenza dello Stato e ad impadronirsi del
paese. Anche due comuni limitrofi insorsero: Casalduni e Campolettere. Doveroso
da parte delle Istituzioni dover intervenire e, alla guida del Luogotenente
Luigi Augusto Bracci, vennero mandati 40 Bersaglieri del 36° Reggimento e 4 Carabinieri
per ristabilire l’ordine nella zona. I soldati italiani giunsero l’11 agosto 1861
a Pontelandolfo e non trovarono, come ci si poteva aspettare, un paese
assediato dai briganti ma un villaggio schierato coi briganti che - aizzato
anche dal clero locale – accolse i militari attaccandoli. Isoldati dovettero
ritirarsi a scopo difensivo nella torre medievale, simbolo di Pontelandolfo e
unica testimonianza architettonica del castello edificato nel XIV secolo e
distrutto da un terremoto nel giugno del 1688. Non riuscendo a sostenere la
situazione decisero di ripiegare verso la limitrofa Casalduni, zona a torto
ritenuta sicura. Questa scelta fu la loro condanna. Nello spostamento vennero
attaccati dai briganti. Gli abitanti di Casalduni aspettavano imboscati
l’arrivo dei militari e, forti per quantità, ci misero poco ad ottenere la loro
resa e ad arrestarli. Poi ebbe inizio il massacro.
Soltanto un bersagliere riuscì a
fuggire. Gli altri 39 soldati, i 4 Carabinieri e il Luogotenente Bracci vennero
letteralmente fatti a brandelli con una ferocia inaudita. Rendendosi conto
della reale situazione in cui versavano le zone sulle rive del Cerreto, il 13
agosto giunsero a Pontelandolfo e Casalduni - guidati dal Colonnello Pier
Eleonoro Negri - 400 bersaglieri commilitoni dei militari massacrati due giorni
prima. Lo scenario fu agghiacciante: esposti alle finestre delle case e addirittura
nelle chiese vi erano i sanguinanti ricordi a testimonianza dell’eccidio
perpetrato ai danni dell’Esercito Italiano. Non si trovarono i cadaveri dei
soldati ma solo brandelli di essi. Il Tenente Bracci, agonizzante, venne
assassinato da una donna che ne sfondò la testa a colpi di pietra per poi essere
staccata. Il macabro trofeo era nella chiesa di Pontelandolfo, infilzato su una
croce, orribile ex-voto sanfedista. Era troppo. Dopo la fucilazione di alcuni
briganti, venne presa la drastica decisione di dare alle fiamme i due paesi. Il
14 Agosto 1861 tutta l’Irpinia guardò gli altissimi fumi dell’incendio di
Pontelandolfo e di Casalduni, i due antichi paesi del Sannio diventati rifugio,malgrado
i tanti onesti, dei briganti filo-borbonici e anti unitari. Era la dura
rappresaglia dell’Esercito italiano di fronte al massacro di quasi cinquanta
giovani soldati della nuova Italia, catturati a tradimento. C’erano fra loro
Carabinieri e Bersaglieri che difesero la bandiera fino all’ultimo. Il Massacro
dei nostri militari avvenne a Casalduni ma i soldati fuggivano da Pontelandolfo.
Vi fu correità.
Scrive Carlo Alianello, autore di
libri “reazionari” come L’Alfiere, L’eredità della Priora, I Soldati del Re -
tutti caratterizzati da un avvincente stile letterario e pieni di passione
borbonica – ne “La Conquista del Sud” (Milano, Rusconi, 1972): “il 7 Agosto
1861, a Pontelandolfo, per opera dell’arciprete Epifanio De Gregorio e dei
reazionari locali, si fecero le solite cerimonie. Si alzò la bandiera
bianco-gigliata dei Borbone, si bruciò in piazza la bandiera sarda (quella
tricolore sabauda ndr) e il prete cantò il Te Deum, per festeggiare l’auspicato
ritorno di Francesco II di cui si espose il ritratto.” E’ attendibile in questo
caso la prosa di Alianello? Non c’è alcun dubbio, nessuno l’ha contestata.
Ma nelle cronache dell’insanguinato
1861 un altro scrittore presentò con un verismo asciutto gli avvenimenti che
visse da vicino nella qualità di inviato speciale al seguito dell’Esercito
italiano nella guerra contro il Brigantaggio. Questo scrittore è Marc Monnier e
la sua opera più nota fu “Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle
provincie napoletane dai tempi di Fra’ Diavolo fino ai giorni nostri” (Firenze,
G. Barbera editore - 1862). Marc Monnier era nato a Firenze nel 1829, studiò a
Napoli, a Parigi, a Berlino, a Ginevra, dove insegnò lettere straniere e
divenne rettore della locale prestigiosa università. Fu amante dell’Italia e di
Napoli. Ha goduto della fama di essere sempre stato obiettivo nei suoi
rapporti. Scrive Maria Grazia Greco, Autrice di una documentata recente pubblicazione
intitolata “Il ruolo e la funzione dell’Esercito nella lotta al brigantaggio
(1860 1868)”, prefazione di Aldo Alessandro Mola, nella collana curata
dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito: “questo studio
sistematico del brigantaggio rappresenta forse quanto di più obiettivo e fedele
si possa trovare sulla essenza di questo fenomeno”. Ci troviamo di fronte ad
una vera e propria dichiarazione di attendibilità del Monnier.
Dal capitolo VII, pagg. 96-97-98,
questi gli argomenti trattati da Marco Monnier (op.cit.): La luogotenenza del
Generale Cialdini – La reazione repressa – il brigantaggio diminuisce – storia
di cannibali – Pontelandolfo e Casalduni – loro delitto e loro castighi.
[…] Il 7 agosto i briganti chiamati
da cinque canonici e da un arciprete invasero Pontelandolfo, comune sulla
destra del Cerreto, nelle montagne. Accolti con gridi di gioia, al ritorno da
unaprocessione, saccheggiarono l’ufficio municipale, la polizia, il corpo di
guardia, le botteghe, il precettore Filippo Lombardi, settuagenario, fu
strappato dalle loro mani da sua moglie: entrarono di viva forza in casa del
percettore Michelangelo Perugino, e dopo averlo ucciso, mutilato, spogliato, bruciarono
la casa di lui e gettarono il cadavere nudo nelle fiamme. Ma questo non è
nulla; tremila mascalzoni costituirono il governo: due villaggi vicini,
Casalduni e Campolettere, insorsero.
Quattro giorni appresso, l’11
agosto, 40 soldati italiani e quattro carabinieri furono inviati a Pontelandolfo
per arrestare i briganti nella loro fuga. Non ebbero la pazienza di attendere,
volleroattaccarli. Tutto Pontelandolfo fu sotto le armi. L’Ufficiale italiano
(Luigi Augusto Bracci, Luogotenente del 36°) e i suoi quarantadue uomini furono
assaliti e dovettero rifugiarsi in una torre.
Dopo una vigorosa resistenza,
ripiegarono sopra Casalduni […] Per via furono stretti e attaccati ai fianchi
dalla gente di Pontelandolfo, poi arrestati da quelli di Casalduni, che eransi
imboscati per attenderli. Circondati allora, sopraffatti dal numero, furono
scannati tutti, eccetto un solo che ebbe il
tempo di gettarsi in una siepe e narrò poi questa orribile storia. Non
fu una carneficina, ma un eccidio. I contadini erano 100 contro uno e volevano
tutti il loro pezzo di carne. – non invento nulla, anzi cerco di attenuare. La
mattina giunge il Colonnello Negri cogli italiani: chiesero dei loro compagni;
fu loro risposto che avevano cessato di vivere: domandarono i loro cadaveri:
non furono trovati: essi stessi li cercarono e sorpresero membra tagliate,
brani sanguinosi, trofei orribili appesi alle case ed esposti alla luce del
sole. Appresero che avevano impiegato otto ore a dare morte a poco a poco al
tenente ferito soltanto nel combattimento. Allora bruciarono i due villaggi.
“Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni” tale fu il dispaccio del
colonnello Negri.”
Ancora sulla strage dei soldati da
"Storia dei fatti di Pontelandolfo" del già sindaco di Pontelandolfo Ferdinando
Melchiorre Pulzella (Edizioni Sannite, Morcone - 2004): “Il sindaco filo
borbonico di Casalduni Luigi Orsini, che provvedeva i briganti di tutto quanto
avessero bisogno, pagò alcuni di essi per far sorvegliare i soldati fatti
prigionieri. E quando il Capo Brigante Angelo Pica si rivolse a lui per chiedere cosa bisognasse fare dei
prigionieri, rispose di fucilarli. Così quei poveri soldati caddero sotto colpi
di fucile, di scure, di zappe e di pietre.”
La cronache di Monnier e di
Melchiorre Pulzella trovano l’autorevole riscontro nei verbali del Regio
Esercito, conservati dallo Stato Maggiore della Difesa. Il Capo dell’Ufficio
Storico, Colonnello Antonino Zarcone, nella presentazione del libro di Maria
Grazia Greco (op. cit.) scrive: “Fu una vera e propria guerra che venne
condotta dai briganti, che spesso animarono anche gli animi e le armi della
popolazione civile, contro i militari “rei” di essere servitori dello stato e
di aver aggravato la già difficile situazione economica delle regioni del
meridione. Nonostante gli errori e gli innegabili eccessi di violenza, subiti
e, purtroppo, talvolta anche commessi, con le inevitabili, conseguenti
polemiche sociali e politiche, ancora attuali, questa dolorosa pagina della storia
del Regno d’Italia non deve e non può essere negata o dimenticata ma va
approfondita e discussa sulla base di documentazione scientifica ed ufficiale”.
Quanto scritto dal Colonnello Zarcone ben si adatta ai fatti di Pontelandolfo e
Casalduni e, interrogato sui fatti specifici, il Capo dell'Ufficio Storico
dello Stato Maggiore dell'esercito ci ha confermato che leggendo i verbali dei fatti
narrati riguardanti la rappresaglia ci si è attenuti ad una prassi -
indubbiamente cruda e non accettabile ai giorni nostri - che ben rifletteva lo
spaccato dell’epoca. E' tutto nero su bianco, nessun mistero o tentativo di
censura sull'azione dell'Esercito.
Nelle zone meridionali dell’Italia
il brigantaggio può farsi risalire alla dominazione spagnola,seguita alla pace
di Cateau-Cambrésis (1559). Detta pace consentì di stabilire il governo diretto
della Spagna sulla metà della Penisola, compresi i Regni di Napoli e la
Sicilia.
Scrive lo storico Giorgio Spini:
“Soffocatrice nel campo politico, la dominazione spagnola doveva rivelarsi
assolutamente distruttiva dal punto di vista economico”. Spini scrive - sempre
a proposito della Spagna - “nella sua ottusa rapacità militaresca, il governo
spagnolo adoperava i propri domini altro che per spremere sempre nuovo denaro e
per trarre soldati per le sue guerre. I Borbone ereditarono questa situazione e
spesso si accordarono con i briganti, chiudendo un occhio sulle illegalità
commesse”. Nell’estate 1828, regnando Francesco I, nel Cilento esplosero
nuovamente proteste e richieste di una costituzione. Il Parroco del paese di
Bosco (Salerno) era uno dei promotori di queste manifestazioni che si estesero
ai paesi circonvicini. Da Napoli furono inviati ben 8.000 soldati, comandati
dal Maresciallo Francesco Saverio del Carretto. Logicamente gli insorti furono
sgominati ed in parte arrestati. Il 7 luglio il Paese fu interamente dato alle
fiamme e fu sparso del sale sulle rovine. Numerosi gli insorti fucilati, a
cominciare dal Don Antonio De Luca, parroco di Bosco. Altri 27 insorti furono
decapitati e le loro teste esposte nella piazza. Il Paese non fu più
ricostruito, a seguito di un decreto di soppressione del 4 agosto 1828” (H.
Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Martello, Milano 1962).
Nell’agosto del 1861 nostri soldati
erano stati catturati e imprigionati nella torre angioina di Pontelandolfo e,
avvicinandosi due battaglioni di bersaglieri per liberarli, furono ceduti a
Casalduni, sempre zona di brigantaggio, dove furono massacrati e dove il reato
“più leggero” fu il vilipendio dei cadaveri. Mentre Pontelandolfo si è data la
qualifica di “città martire” con un provvedimento avallato il 14 agosto del
2011 dalle scuse del Prof. Giuliano Amato, il Comune di Casalduni non ha mai
espresso una simile intenzione, avendo ben presente che il massacro dei soldati
della nuova Italia ebbe luogo proprio a Casalduni, di fronte a centinaia di
testimoni. Verbali d’epoca alla mano, l’Esercito non ha reputato accoglibile la
richiesta di scuse espressa da Pontelandolfo e non ha mandato nessun suo
rappresentante.
Nell’Italia unita le Forze armate,
soprattutto i corpi di élite come quello dei Bersaglieri, venivano sempre
difesi dalle istituzioni dello Stato. Così facendo l’Italia superò le
gravissime difficoltà incontrate nelle guerre d’indipendenza, trovandosi sempre
in sintonia con le sue Forze Armate.
Alla fine un enigma: Marc Monnier (op.
cit.), ripreso da qualche pubblicazione, lascia nel vago il sottotitolo “casi
di cannibalismo” e scrive esplicitamente “volevano tutti il loro pezzo di
carne”. Si riferisce ai corpi dei nostri soldati? Sui fatti del 1861 gravano
dubbi atroci...
Sergio Boschiero, Segretario Nazionale U.M.I.
[....]
Dal sito dell'UMI:
http://www.monarchia.it/news_file/StoriaInRete_SergioBoschiero_Pontelandolfo.pdf
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