NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 11 settembre 2016

SETTEMBRE 1943 L'ITALIA PERSE LA GUERRA MA SALVÒ LO STATO

di Aldo A. Mola

 
Settantatré anni dopo, molti aspetti centrali della “resa senza condizioni” del settembre 1943 rimangono avvolti nel mistero: il generale americano Einsehower anticipò intenzionalmente l'annuncio dell'“armistizio” dal 12 (o 15?) al pomeriggio dell'8 settembre o gli italiani (a cominciare dal generale Castellano, firmatario della resa a Cassibile del giorno 3 precedente) avevano frainteso? Tra il governo Badoglio e il maresciallo Albert Kesselring vi fu davvero il “patto scellerato” (ne scrive Riccardo Rossotto in un libretto edito da Mattioli 1885), che consentì a governo e Famiglia Reale di uscire da Roma per la via Tiburtina, appositamente lasciata libera dai tedeschi, in direzione di Pescara, per arrivare via mare in Puglia? Il pegno di quell' accordo fu il “patto sottobanco” (lo afferma Vincenzo Di Michele in L'ultimo segreto di Mussolini, ed. Il Cerchio), cioè la liberazione di Mussolini al Gran Sasso lo stesso giorno nel quale Vittorio Emanuele III chiamò a raccolta gli italiani per il Secondo Risorgimento?

Silenzi o reticenze dei protagonisti e carenza di fonti documentarie proprio sui suoi snodi principali alimentano il sospetto che la drammatica svolta sia stata dominata da intrighi inconfessabili. Lo statunitense Peter Tompkins, agente dell'Office of Strategic Service (poi CIA), asserisce (senza prove) che tutto fu pattuito tra il generale Vittorio Ambrosio e Kesselring, perché erano “entrambi affiliati alla massoneria”. Fiabe. Il ministro della Guerra, Antonio Sorice, il genero del re, Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, e Mario Badoglio, figlio del Maresciallo, sarebbero stati fisicamente “garanti” della resa dei militari italiani acquartierati in Roma e dintorni, mentre il generale Fernando Soleti, venne traslato da Roma al Gran Sasso per assicurare l'incolumità del duce, trasferito in Germania per capitanarvi la futura Repubblica sociale italiana: operazione fatta propria da Otto Skorzeny (l'ex SS finito collaboratore del Mossad israeliano, secondo “rivelazioni” non suffragate da documenti).

La ridda di ipotesi, spesso fantasiose, di illazioni e di ricostruzioni del tutto campate in aria (già Gaetano Salvemini ripeteva che il popolo, eterno credulone, più gliele si contan grosse più ci crede) non mutano l’essenza degli accadimenti dell'estate 1943. La “resa senza condizioni”, ribadita il 29 settembre con l'armistizio lungo di Malta, mise fine alla piena sovranità nazionale dell'Italia, faticosamente costruita con le guerre per l'indipendenza del 1848-1866 e con la tenacia della diplomazia sabauda. Quella resa, va ammesso, fu mortificante; però scongiurò la debellatio dello Stato e sancì il riconoscimento della Corona e del governo quali interlocutori dei vincitori: gli anglo-americani. L'Italia cadde, ma sul fianco meno doloroso, a differenza della sorte toccata all'Europa orientale, abbandonata al dominio dell'URSS di Stalin col cinismo poi confessato da Winston Churchill.

Gli USA non avevano un “progetto Italia” chiaro per il dopoguerra: avversavano la monarchia ma non gli italiani. La Gran Bretagna, invece, intendeva cancellare per sempre l'Italia dal novero delle grandi potenze, rango riconosciutole con l'amaro in bocca dai Trattati postbellici del 1919-1920, costatici l'enorme tributo di vite e risorse nella Grande Guerra. Il punto nodale sul quale occorre riflettere è la sequenza di errori dei partiti democratici, liberali, antifascisti e di quelli anti-istituzionali (comunisti, socialisti e il  cattolico Partito popolare), che dal 1924, con la sciagurata scelta dell'“Aventino”, sguarnirono la monarchia, poi faticosamente arginata dal re con la diarchia Corona-partito unico. Nel 1942-43 Vittorio Emanuele III re ebbe poco tempo e pochissimi mezzi per rimettere il Paese in carreggiata. Dal canto loro governo, Comando supremo e vertici militari si trovarono tra l'incudine dei massicci bombardamenti angloamericani, più intensi  e devastanti proprio dopo l'eliminazione del fascismo, e il martello di una resa necessaria ma inesorabilmente tragica per l'interconnessione tra italiani e tedeschi su tutti i fronti di guerra. Anche dopo il trasferimento a Brindisi, governo e alti comandi sperarono in aiuti che i vincitori si guardarono bene dall'inviare perché facevano la “loro” guerra: già pensavano allo sbarco in Normandia. Per loro l'Italia era e doveva rimanere un campo di battaglia.
Il caso di Cefalonia, di cui si torna a discutere per il nuovo volume di Elena Aga Rossi (punto di arrivo di decenni di saggi, quali L'inganno reciproco) non è che uno dei molti drammatici “casi”. Se ne è parlato ripetutamente al Premio Acqui Storia, ove da anni  è stato  chiarito quanto ora ammesso: le vittime italiane della battaglia e della rappresaglia tedesca nell’isola greca furono tra 1500 e 2000, non 10.000: tanti, troppi, comunque: ma a scatenare la furia germanica, che non aspettava di meglio, fu l'attacco sconsiderato (e in violazione delle direttive del generale Mario Gandin) di chi poi si spacciò per eroe.

Il punto è che sin dal memorandum di Quebec (23 agosto 1943) gli anglo-americani promisero all'Italia uno “sconto” sulle durissime condizioni armistiziali proporzionato al suo concorso nella lotta contro la Germania. L'impegno non mancò e fu anzi eroico (bastino, tra le migliaia, gli esempi del colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo e del generale Giuseppe Perotti, capo del comitato militare del CLN piemontese). Ma la mitigazione  promessa non avvenne. Il Trattato di pace del 1947, infatti, inchiodò l'Italia nella condizione di “vinto”. Va però ricordato che esso fu imposto non alla monarchia ma alla neonata repubblica, poi dedita a un'opera di rimozione della storia (contro la quale subito insorsero liberali autentici come Benedetto Croce, che alla Costituente votò contro il Trattato con un discorso nobilissimo). Ogni anno se ne ha la conferma, perché l'Otto Settembre viene ancora narrato come catastrofe  e “fuga del re”, mentre, al netto di tutti i suoi aspetti negativi, proprio grazie al trasferimento del sovrano e del governo nelle Puglie, libere da vincitori e da ex alleati, lo Stato sopravvisse e iniziò quella che il generale Raffaele Cadorna, inviato a Milano per imbrigliare l'estremismo di certi partigiani, sintetizzò nella formula “la Riscossa”. Un'ultima considerazione s'impone in una visione storica di lungo periodo: l'Italia si riprese perché grazie a Risorgimento e unificazione nazionale, e quindi al ruolo svolto dalla monarchia sabauda di concerto con i veri patrioti come Garibaldi, da quasi un secolo era uno Stato solido, orgoglioso di sé: ben altra cosa dagli staterelli pre-unitari, per secoli succubi di appetiti stranieri.


Aldo A. Mola

1 commento:

  1. Il prof Mola scrive che "le vittime italiane della battaglia e della rappresaglia tedesca nell’isola greca furono tra 1500 e 2000, non 10.000: tanti, troppi, comunque: ma a scatenare la furia germanica, che non aspettava di meglio, fu l'attacco sconsiderato (e in violazione delle direttive del generale 'Antonio'e non Mario (nda) Gandin) di chi poi si spacciò per eroe".
    Mi aspettavo che facesse anche il nome considerando che su tali questione egli fu il Relatore ad Acqui il 30 novembre 2014 nel Convegno avente ad oggetto la presentazione del mio libro 'I CADUTI DI CEFALONIA. FINE DI UN MITO'in cui il sottoscritto CHIARI' DOCUMENTATAMENTE la PROBLEMATICA relativa alle Vittime e l'altra su chi attaccò 'sconsideratamente' i tedeschi il 13/9/43: i capitani Pampaloni e Apollonio che dopo la guerra furono SPACCIATI per Eroi !
    Un cordialme saluto
    avv Massimo Filippini
    orfano del magg Federico fucilato il 25/9/43 a Cefalonia

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