di Aldo A. Mola
Settantatré anni dopo, molti aspetti centrali della
“resa senza condizioni” del settembre 1943 rimangono avvolti nel mistero: il
generale americano Einsehower anticipò intenzionalmente l'annuncio
dell'“armistizio” dal 12 (o 15?) al pomeriggio dell'8 settembre o gli italiani
(a cominciare dal generale Castellano, firmatario della resa a Cassibile del
giorno 3 precedente) avevano frainteso? Tra il governo Badoglio e il
maresciallo Albert Kesselring vi fu davvero il “patto scellerato” (ne scrive
Riccardo Rossotto in un libretto edito da Mattioli 1885), che consentì a
governo e Famiglia Reale di uscire da Roma per la via Tiburtina, appositamente
lasciata libera dai tedeschi, in direzione di Pescara, per arrivare via mare in
Puglia? Il pegno di quell' accordo fu il “patto sottobanco” (lo afferma
Vincenzo Di Michele in L'ultimo segreto di Mussolini, ed. Il Cerchio),
cioè la liberazione di Mussolini al Gran Sasso lo stesso giorno nel quale
Vittorio Emanuele III chiamò a raccolta gli italiani per il Secondo
Risorgimento?
Silenzi o reticenze dei protagonisti e carenza di
fonti documentarie proprio sui suoi snodi principali alimentano il sospetto che
la drammatica svolta sia stata dominata da intrighi inconfessabili. Lo
statunitense Peter Tompkins, agente dell'Office of Strategic Service (poi CIA),
asserisce (senza prove) che tutto fu pattuito tra il generale Vittorio Ambrosio
e Kesselring, perché erano “entrambi affiliati alla massoneria”. Fiabe. Il
ministro della Guerra, Antonio Sorice, il genero del re, Giorgio Carlo Calvi di
Bergolo, e Mario Badoglio, figlio del Maresciallo, sarebbero stati fisicamente
“garanti” della resa dei militari italiani acquartierati in Roma e dintorni,
mentre il generale Fernando Soleti, venne traslato da Roma al Gran Sasso per
assicurare l'incolumità del duce, trasferito in Germania per capitanarvi la futura
Repubblica sociale italiana: operazione fatta propria da Otto Skorzeny (l'ex SS
finito collaboratore del Mossad israeliano, secondo “rivelazioni” non
suffragate da documenti).
La ridda di ipotesi, spesso fantasiose, di illazioni
e di ricostruzioni del tutto campate in aria (già Gaetano Salvemini ripeteva
che il popolo, eterno credulone, più gliele si contan grosse più ci crede) non
mutano l’essenza degli accadimenti dell'estate 1943. La “resa senza
condizioni”, ribadita il 29 settembre con l'armistizio lungo di Malta, mise
fine alla piena sovranità nazionale dell'Italia, faticosamente costruita con le
guerre per l'indipendenza del 1848-1866 e con la tenacia della diplomazia
sabauda. Quella resa, va ammesso, fu mortificante; però scongiurò la debellatio
dello Stato e sancì il riconoscimento della Corona e del governo quali
interlocutori dei vincitori: gli anglo-americani. L'Italia cadde, ma sul fianco
meno doloroso, a differenza della sorte toccata all'Europa orientale,
abbandonata al dominio dell'URSS di Stalin col cinismo poi confessato da
Winston Churchill.
Gli USA non avevano un “progetto Italia” chiaro per
il dopoguerra: avversavano la monarchia ma non gli italiani. La Gran Bretagna,
invece, intendeva cancellare per sempre l'Italia dal novero delle grandi
potenze, rango riconosciutole con l'amaro in bocca dai Trattati postbellici del
1919-1920, costatici l'enorme tributo di vite e risorse nella Grande Guerra. Il
punto nodale sul quale occorre riflettere è la sequenza di errori dei partiti
democratici, liberali, antifascisti e di quelli anti-istituzionali (comunisti,
socialisti e il cattolico Partito
popolare), che dal 1924, con la sciagurata scelta dell'“Aventino”, sguarnirono
la monarchia, poi faticosamente arginata dal re con la diarchia Corona-partito unico.
Nel 1942-43 Vittorio Emanuele III re ebbe poco tempo e pochissimi mezzi per
rimettere il Paese in carreggiata. Dal canto loro governo, Comando supremo e
vertici militari si trovarono tra l'incudine dei massicci bombardamenti
angloamericani, più intensi e devastanti
proprio dopo l'eliminazione del fascismo, e il martello di una resa necessaria
ma inesorabilmente tragica per l'interconnessione tra italiani e tedeschi su
tutti i fronti di guerra. Anche dopo il trasferimento a Brindisi, governo e
alti comandi sperarono in aiuti che i vincitori si guardarono bene dall'inviare
perché facevano la “loro” guerra: già pensavano allo sbarco in Normandia. Per
loro l'Italia era e doveva rimanere un campo di battaglia.
Il caso di Cefalonia, di cui si torna a discutere
per il nuovo volume di Elena Aga Rossi (punto di arrivo di decenni di saggi,
quali L'inganno reciproco) non è che uno dei molti drammatici
“casi”. Se ne è parlato ripetutamente al Premio Acqui Storia, ove da anni è stato
chiarito quanto ora ammesso: le vittime italiane della battaglia e della
rappresaglia tedesca nell’isola greca furono tra 1500 e 2000, non 10.000:
tanti, troppi, comunque: ma a scatenare la furia germanica, che non aspettava
di meglio, fu l'attacco sconsiderato (e in violazione delle direttive del
generale Mario Gandin) di chi poi si spacciò per eroe.
Il punto è che sin dal memorandum di Quebec (23
agosto 1943) gli anglo-americani promisero all'Italia uno “sconto” sulle
durissime condizioni armistiziali proporzionato al suo concorso nella lotta
contro la Germania. L'impegno non mancò e fu anzi eroico (bastino, tra le
migliaia, gli esempi del colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo e del
generale Giuseppe Perotti, capo del comitato militare del CLN piemontese). Ma
la mitigazione promessa non avvenne. Il
Trattato di pace del 1947, infatti, inchiodò l'Italia nella condizione di
“vinto”. Va però ricordato che esso fu imposto non alla monarchia ma alla
neonata repubblica, poi dedita a un'opera di rimozione della storia (contro la
quale subito insorsero liberali autentici come Benedetto Croce, che alla
Costituente votò contro il Trattato con un discorso nobilissimo). Ogni anno se
ne ha la conferma, perché l'Otto Settembre viene ancora narrato come catastrofe e “fuga del re”, mentre, al netto di tutti i
suoi aspetti negativi, proprio grazie al trasferimento del sovrano e del
governo nelle Puglie, libere da vincitori e da ex alleati, lo Stato sopravvisse
e iniziò quella che il generale Raffaele Cadorna, inviato a Milano per
imbrigliare l'estremismo di certi partigiani, sintetizzò nella formula “la
Riscossa”. Un'ultima considerazione s'impone in una visione storica di lungo
periodo: l'Italia si riprese perché grazie a Risorgimento e unificazione
nazionale, e quindi al ruolo svolto dalla monarchia sabauda di concerto con i
veri patrioti come Garibaldi, da quasi un secolo era uno Stato solido,
orgoglioso di sé: ben altra cosa dagli staterelli pre-unitari, per secoli
succubi di appetiti stranieri.
Aldo A. Mola
Il prof Mola scrive che "le vittime italiane della battaglia e della rappresaglia tedesca nell’isola greca furono tra 1500 e 2000, non 10.000: tanti, troppi, comunque: ma a scatenare la furia germanica, che non aspettava di meglio, fu l'attacco sconsiderato (e in violazione delle direttive del generale 'Antonio'e non Mario (nda) Gandin) di chi poi si spacciò per eroe".
RispondiEliminaMi aspettavo che facesse anche il nome considerando che su tali questione egli fu il Relatore ad Acqui il 30 novembre 2014 nel Convegno avente ad oggetto la presentazione del mio libro 'I CADUTI DI CEFALONIA. FINE DI UN MITO'in cui il sottoscritto CHIARI' DOCUMENTATAMENTE la PROBLEMATICA relativa alle Vittime e l'altra su chi attaccò 'sconsideratamente' i tedeschi il 13/9/43: i capitani Pampaloni e Apollonio che dopo la guerra furono SPACCIATI per Eroi !
Un cordialme saluto
avv Massimo Filippini
orfano del magg Federico fucilato il 25/9/43 a Cefalonia