NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 4 marzo 2017

Vita eroica di Amedeo di Savoia - prima parte

Commemorazione tenuta a Firenze - dalla Medaglia d’Oro, Prof. Raffaele Paolucci  il 1° marzo 1953, nella ricorrenza dell’XI anniversario della morte dell’Augusto Principe Sabaudo.

Opuscolo donato dall'Ingegnere Giglio, Presidente del Circolo Rex


Compiranno poi domani undici anni da quel giorno triste nel quale a Nairobi, in prigionia, su un piccolo lettino di ferro di un misero ospedale, mentre tante nuvole nere si addensavano sul cielo della Patria lontana, esalò il Suo ultimo respiro Amedeo di Savoia Duca di Aosta.
Gli amici Fiorentini della Unione Monarchica Italiana hanno voluto, in tale anniversario, che io rievochi la figura leggendaria dell’Eroe; pur essendo piena e dura la mia giornata, ho accettato, subito, e con animo profondamente grato, perché parlare di Lui vuol dire elevarsi fino a Lui, staccarsi sia pure per un attimo solo dalla bassura nella quale siamo piombati, ritrovarsi vecchi ed onorati soldati di questa Patria umiliata, ed illuderci ancora che non invano credemmo, non invano sperammo, non invano versammo, in Suo nome, sangue e sudore.
E nulla importa, nulla importa se qualcuno che mai ci comprese e mai ci comprenderà, ci chiamerà spregiando, nostalgici.
Sì, abbiamo la nostalgia della bellezza, della poesia, della fedeltà, siamo i nostalgici dell’onore e della virtù militare, senza di che non esistono grandezze di popoli; ed in questa bassura nella quale siamo costretti a vivere e ci sentiamo di essere, siamo, e vogliamo rimanere, i superstiti di un grande mondo perduto, aneliamo alle alture da cui siamo discesi, e cui abbiamo fede di ritornare, e ritorneremo.
E perciò parliamo di Lui.
Amedeo di Savoia nacque il 21 ottobre 1898 nel palazzo della Cisterna, a Torino. Ed in quella casa rimase per sette anni fino a quando il Padre, Emanuele Filiberto, non fu trasferito a Napoli, al comando di quel Corpo di Armata.
Quegli anni della prima fanciullezza non erano stati lieti per il piccolo principe, che certo non era lieto l’ambiente familiare quando Egli nacque.
Da due anni appena si era infatti svolta la tragedia di Adua, e la gazzarra antinazionale già si adunava nella piazza allorché Egli cominciava i primi passi; e Suo Zio, il buon Re Umberto I era stato assassinato quando Egli cominciava a balbettare le prime parole.
Iniziava allora in Italia lo strano e ben doloroso fenomeno per il quale, a somiglianza di un solo altro paese, la Francia, la istanza sociale e la necessità materiale delle folle sembrava dovessero essere inscindibili da una furibonda, iconoclasta volontà distruggitrice delle tradizioni patrie e della virtù militare.
A Napoli l’ambiente era più sereno: quella Reggia di Capodimonte era più sorridente con il suo magnifico parco, il cielo era più mite, l'anima popolare meno intristita dalla propaganda dei negatori.
In quell'ambiente crebbero Amedeo ed il Suo fratellino minore, Aimone, sopraggiunto dopo di Lui, e quel vasto palazzo e quel parco senza fine videro disfrenarsi le loro fanciullezze.
Fu un ragazzo terribile Amedeo, di quelli le cui ragazzate lasciano il cuore sospeso.
Bleriot aveva attraversato la Manica, Chavez aveva sorvolato le Alpi, l’aviazione, con l’opera ed il sacrificio dei pionieri, faceva le sue prime, asperrime prove, ed Amedeo aveva una voglia pazza di volare.
Volle volare, ma macchine non ne aveva; trovò due vecchi ombrelli in un solaio ne irrobustì le stecche con spago e filo di ferro, ed ecco i nostri due argonauti lanciarsi con questi ombrelli aperti, attaccati al manico, dal primo ma pur altissimo piano della Reggia. Videro dal basso, col cuore sospeso, discendere precipitosamente i due ragazzi e fu un accorrere di gente: non si erano fatti quasi niente in quel volo precipitoso di otto metri, solo qualche ammaccatura. «Volare mi piace» annunciò serissimo Amedeo, strizzando un occhio alla gente accorsa ansiosa e trepidante a raccattare i due argonauti.
Sempre in tema di ragazzate terribili eccone un’altra, di cui fece le spese il Colonnello Montasini, aiutante di campo del Padre. Questi era un bravo colonnello di artiglieria, ed Amedeo, da promesso artigliere, volle rendergli onore.
Vi erano nel parco della reggia alcuni vecchi cannoni di bronzo del ’700 ad avancarica. Amedeo prese la polvere di molte cartucce da fucile, caricò il vecchio cannone, pose una lunga miccia, mise Aimone a far da palo per annunciare l’arrivo del Colonnello e quando questi apparve al cancello ed Egli ebbe il segnale diede fuoco alla miccia. Il vecchio palazzo tremò, il boato si udì per tutta Napoli. Pallido, emozionato il Colonnello accorse.
Questa volta era stata troppo grossa, ed i due colpevoli furono trascinati davanti ai genitori per avere la giusta sanzione. Ma, nel salire la grande scalea, Amedeo diceva al fratello: « Hai inteso che colpo? Io di artiglieria me ne intendo! » .
Questo spirito avventuroso, questo sorridente arditismo spericolante lo accompagnarono per tutta la vita.
Ma una, grossa assai, la fece a Madrid: era un giovinetto, allo e lungo, ed un po’ buffo anche, con quelle gambe interminabili, come un cucciolo cresciuto troppo presto. Si trovavano a Madrid, Egli ed il Fratello accompagnati dall’istitutore, in viaggio di istruzione. Andarono un giorno a vedere una corrida, ed era la prima volta che assisteva ad un simile spettacolo. Era ospite nel palco di una nobile dama; ma quando vide entrare nell’arena i toreros, i picadores, i caballeros nelle loro ricche gualdrappe, e poi sopraggiungere il toro, e ed attorno a questo sballonzare gli uomini in atteggiamenti strani, un riso incontenibile lo dominò, cui faceva eco il fratello. E più si sviluppava l’azione tra l’ansia fervida ed attenta degli spettatori, più Egli rideva, finché la nobile dama non poté contenersi e Gli disse, un po’ brusca «non so in verità, Altezza Reale, cosa ci sia da ridere».
«Ma non trova che ciò è buffo? Non vede come sono buffi quegli uomini che saltellano davanti al toro? Ma che forse è una prodezza quella lì? ».
« Ah sì? E perchè non ci prova Lei » rispose la dama?
Ora Amedeo era punto sul vivo. Provare?
Ecco fatto: due mani sulla balaustra, e con un salto era giù nell’arena.
Il toro era piuttosto vicino, vide il nuovo venuto, prima titubante, poi caricando. Ahimè! Amedeo alzò le gambe e cominciò la Sua corrida tra la gente che urlava, divertita all’inatteso spettacolo, mentre i toreros ed i piccadores guardavano con dispregio quell’intruso, che doveva essere un pazzo.
Con quelle lunghe gambe attraversò di un baleno tutta l’arena, ma il toro stava per atterrarlo, mentre la folla urlava in subbuglio, e la nobile dama stava per svenire, ed Aimone e l’istitutore avevano le mani nei capelli, pallidi, anelanti, tremanti di angoscia e di sgomento. Amedeo si fermò col cuore in gola, il toro gli stava quasi sopra, si voltò, riprese la corsa, riattraversò diagonalmente l'arena in un baleno, arrivò, trafelato sotto la balaustra, spiccò un salto, si ritrovò nel palco, mentre il toro puntava li, dove Egli era un attimo prima.
L’arena fu in tumulto tra applausi ed urla di entusiasmo e lanci di cappelli. I giornali Madrileni ne fecero un gran parlare e dissero chi era il protagonista: il figlio del figlio dell’ex Re di Spagna: i giornali Italiani si imposero il silenzio.
Ce lo ricordava un giorno, dietro mia richiesta, questo episodio, lo stesso Principe Amedeo su un autobus che ci portava lungo il lago di Carezza, in Alto Adige. Insisteva sulla paura tremenda che aveva provato quando il toro stava per infilarlo. Egli era seduto ad una delle ultime poltrone dell’autobus.
Finita la storia ci voltammo a vedere il paesaggio incantevole, ma quando cercammo il Duca, non c’era più! Ma dove era andato? Scomparso? Volatilizzato?

Facemmo fermare la macchina: era fuoriuscito dal finestrino, si era, come uno scoiattolo, arrampicato sul tetto dell’autobus, ed ora se ne stava lassù, disteso, e sorrideva, c strizzava l’occhio come per dire: ve l’ho fatta!

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