NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 13 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, III parte

 


Edoardo VII elegante, parlatore e «colto per sentito dire»; Felix Faure «che diceva di aver vinto i tedeschi nel '7O alla testa dei pompieri di Le Havre»; Francesco Giuseppe: «un ometto tutto timido che parlava con molta calma e modestia» ; Nicola II «brav'uomo debolissimo di carattere»; l'Imperatrice Alessandra Feodorowna con la quale si intrattenne a discutere come un capitano di fanteria della differenza tra una compagnia russa di 18o uomini e una tedesca di 150 e il suo migliore impiego tattico. Egli ammirava quell'Imperatrice prima che si «mettesse a credere ai miracoli; perché quando uno crede ai miracoli non ha certo la testa a posto».

Quest'Europa evidentemente invecchiata, vivente sul «balance of powers» e la solidarietà dei Troni non gli riusciva simpatica. In un certo senso la sua natura romantica in questo continente ancora fermamente basato sul «diritto divino» lo spingeva dalla parte dei rivoluzionari.

Le sue simpatie, ricambiate, per Turati e Bissolati sono notorie, la sua risposta al Gianturco, che eccedendo in zelo punitivo per la uccisione di Re Umberto, proponeva una reazione più energica non è altrettanto nota: «Allora, - egli disse al Ministro che proponeva la sospensione dei poteri delle due Camere - sarò io stesso a guidare un battaglione per occupare Palazzo Madama».

La lunga collaborazione col più rivoluzionario dei suoi ministri, il Giolitti, è altrettanto nota, sebbene si sia voluto fare d quest'incontro un antagonismo, e di Giolitti il più fedele dei servitori della monarchia costituzionale, un repubblicano in palamidone.

Non è vero che egli non credesse a niente, fosse uno scettico al di là d'ogni fede, un ateo incapace di palpiti e di commozioni, egli credeva prima di tutto nell'Italia e negli italiani: senza retorica, in base ad una valutazione obiettiva e, per questo punto, rimandiamo alle parole dette a Peschiera per scagionare il Soldato, l'umile proletario trincerista, dell'accusa che lo, gravava.

Credeva nelle loro virtù numerose e grandi, sapeva che non sempre essi erano diretti bene; sbagli, anche grandi e pericolosi se ne commettevano ma — come ebbe a dire —«non mai per tradimento o per bassezza di passioni». Il suo, nel complesso, gli appariva un popolo superiore. D'altra parte rimeditando la storia della sua piccola Casa, diventata a mano a mano, traverso i secoli e le audacie, una delle più importanti dinastie regnanti nel mondo, gli pareva giusto e logico attribuire agli italiani e all'Italia un destino di «crescenza», non foss'altro perché nel poco spazio e sulla magra terra della Penisola questo popolo viveva assai poveramente.

Non fosse, stato un romantico non avrebbe «tentato» la via delle guerre: la sola offerta alle Nazioni che non trovano nel loro suolo materie prime da ,trasformare ed esportare. Egli disse anche il perché delle guerre combattute, malgrado che personalmente amasse la pace e la tranquillità degli studi.

La guerra di Libia la iniziò perché là opinione pubblica la voleva e la contingenza internazionale (come si vedrà più oltre) non offriva altra scelta. A determinarlo intervenne una causa «debole» ma potente: il ministro degli esteri di San Giuliano, parente di Hassuna pascià di Tripoli, per via di un suo nonno che avendo ucciso un rivale durante la rivoluzione siciliana del '48 era fuggito a Tripoli e qui aveva sposato la figliuola di un Caramanli, garantiva  il successo assoluto dell'Impresa alla quale Giolitti riluttante in principio si decise.

L'entrata nella guerra mondiale risaliva a cause assai più profonde. Dall'avvento al trono in poi Re Vittorio si era dedicato alla difficilissima opera di demolire la Triplice. Nella seconda parte di quest'Introduzione il lavorio incessante del Re è seguito da vicino. Egli obbediva con questo alla sua natura romantica, «rivoluzionaria», per così dire; ma anche ad una tradizione della sua casa e lo disse esplicitamente al generale Angelo Gatti nell'anno 1923: «Da secoli i Savoja tentavano l'impresa, nel 1915 si presentava l'occasione opportuna». Inoltre, era convinto che dalla parte dell'Inghilterra e della Russia non si potesse perdere. «Noi ora abbiamo visto come sia la Russia — disse al Gatti — ma allora sembrava un colosso; del resto anche l'Inghilterra benché abbia vinto la guerra,- ha perduto grandezza e importanza. Con tanta roba presa è meno forte di prima. L'areoplano e il sommergibile hanno rovinata la sua potenza; qualche altra Nazione, forse, l'America prenderà il suo posto».

Era un Savoja che misurava la sua sorte. Sapeva come per un Re non fosse mai buon tempo e s'era fatta persino una teoria sulla «relatività storica» dei tempi in cui vive un Re. Son tutti tempestosi o agitati i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di un Regno. Visti dall'esterno possono apparire idilliaci, visti dalle finestre della Reggia cambiano volto. Se si considerano gli anni 1908, 9, 10, 11, mostrano una faccia ridente, florida, pacifica e un'altra percorsa dalle rughe e dalle nuvole di avvenimenti o di avvisaglie gravissime. Tutto il suo regno è agitato dalla lotta sociale, dalle insurrezioni, dagli attentati anarchici. Egli ravvisa per primo il mutare delle condizioni di equilibrio tra capitale e lavoro, accetta (che per un Re era un gran bel sacrificio) il suffragio universale, accetta Giolitti e l'associa al periodo più glorioso del suo Regno.

Vittorio Emanuele non ebbe amici e stimò pochissime persone, tra queste sommamente di San Giuliano, del quale disse a giusto titolo, che se fosse stato vivo e presente a Versaglia la storia d'Italia sarebbe andata per altro verso; e Giolitti. Presso questo Re non era possibile e non fu possibile un «Partito di Corte », i suoi Presidenti del Consiglio, della Camera e del Senato rappresentavano gli strumenti del regno («Io non ho altre orecchie che il Senato e la Camera» disse, più tardi, ai deputati aventiniani Giolitti, lo definì lui stesso «il più fedele servitore di Casa Savoja»; forse avrebbe fatto meglio a indicarlo come il più preciso interprete della sua particolare concezione del Regno. Giolitti aveva servito fedelmente Umberto I e continuò con lui, avendolo consenziente nell'opera piuttosto ardita di dare una base al sentimento e al pensiero democratico del paese, secondo il movimento di idee, iniziatosi attorno ai primi anni del secolo. Al Giolitti, Re Vittorio disse di «concedere al popolo il centoventi per cento, anziché il cento » e si vide nella legislazione sociale di quell'epoca, tra le più ardite d'Europa, cosa volesse dire un Re democratico. Tutto ciò non evitava i grandi scioperi del 1901, ne gli risparmiò la revolverata del muratore d'Alba.

Incerti del mestiere di Re ai quali sarebbe temerario attribuire significati trascendenti il mutare dei rapporti tra Re Vittorio e il suo più intimo collaboratore, Giolitti. Di questi egli vide, però, anche taluni lati criticabili. «Poteva sopportare una somma enorme di lavoro e sotto questo aspetto, egli fece insieme male e bene al Paese. Conservò, infatti, la macchina dello Stato così pesante e ingombrante come l'aveva trovata, per quanto fosse stato l'uomo più adatto a semplificarla e più volte dicesse: Se tutti gli impiegati lavorassero tre ore .al giorno potrebbero essere ridotti della metà. Perché, dunque non obbligò quegli impiegati, tolte onorevoli eccezioni, a lavorare le tre ore? Perché, ed era qui il suo lato debole, in fondo mancava anche lui di coraggio: 'non di coraggio fisico che aveva, ma di coraggio morale. Quel coraggio e quella padronanza egli dimostrò costantemente in Parlamento ma non sempre di fronte alla folla che cercò piuttosto di capire e di accontentare. Quando le cose giungevano a'non poter essere risolte tranquillamente, quasi sempre egli si ritirava per tornare a bonaccia ristabilita. Era per natura e per educazione contrario alla guerra; aveva in fondo la convinzione che gli italiani si mettessero poco volentieri nell'avventura di un conflitto».

  

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