NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 12 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, II parte

 

La sua natura precisa, laconica ed esauriente, come quella delle monete che collezionava, si muto in qualche modo e il pessimismo di cui era ammalato, il segreto romanticismo della sua infanzia solitaria, della sua giovinezza dispersa tra guarnigioni di provincia e visite all'estero in missioni ufficiali si moderò e arrotondò.

Osio che l'obbligava, fanciullo, a montare cavalli difficili (erano cavalli da Corsa non più buoni per ippodromi, ma tuttavia ombrosi, difettosi, nervosi ed estemporanei: abituati a partire di carriera appena venissero repentinamente voltati) gli procurò una contusione ad un ginocchio che gli dolse sempre. Recatosi in viaggio ad Hammerfest, cadde da una scaletta e battetele quel medesimo ginocchio che, per questo, non gli dolse più. La sua vita rassomiglia molto a questo episodio.

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Re Vittorio avrebbe voluto condensare, come Marco Aurelio, in un libro di Massime e Precetti, la sua esperienza e le sue osservazioni sugli uomini e sulle cose. Ritenne di non poterlo fare per mancanza di tempo e perché non sapeva maneggiare la penna. Dotato di una cultura immensa e di una memoria illimitata, il Re non amava le parole. Egli s'era fatta una natura di classificatore: monete, uomini, fatti, ed era capace di trovare i più sottili rapporti tra loro. Ma non sapeva o non voleva " narrare". Per antipatia, ripeto, alla parola o perché scrivendo gli pareva di dire troppo. C'erano persino delle parole che odiava cordialmente. Raccontava lui stesso che da ragazzo nel "Manuale per l'istruzione militare" che gli spiegava un sergente Tane, finito poi colonnello, c'era un participio all'udire il quale gli si allegavano i denti e se ne ricordava sempre quando gli tenevano grossi e vuoti discorsi. Questo participio inserito nella istruzione per l'uso del fucile Wetterley era: “caricantèsi". " Il fucile Wetterley caricantesi dalla culatta..." Non poteva soffrirlo.

Avesse avuta facoltà di scrittore probabilmente la sua intelligenza acuminata, la sua personalità e il suo animo ne avrebbero tratto vantaggio. Probabilmente avrebbe potuto meglio e più largamente difendersi nel periodo buio dopo il '43 e avrebbe opposto, in un mondo caotico di eloquenti disonesti salvatori della patria, sopravvenuti con la catastrofe, una più esplicita e pacata comunicativa. Ma noi non possiamo non soffermarci ammirati dinnanzi agli "aridi" silenzi di Vittorio Emanuele III, specialmente quando la maggioranza dei suoi interlocutori non meritava la sua parola.

Lui parlò a Peschiera e in altre tre o quattro occasioni, queste ultime nella nera sorte e nel triste Regno del Sud, quando si trattò di difendere con la sua piccola figura quella più grande, distante e immemore della disgraziata Italia. Gli bastò.

Non dunque con parole sue o in gran parte sue si scriverà la storia lunga del suo Regno. Ci penseranno gli altri e già l'opera di revisione è iniziata.

Anche gli scrittori più conformisti si attengono, trattando di lui, ad un distanziato e obiettivo rispetto. Noi siamo convinti, d'altra parte, che se avesse potuto scrivere lui stesso la storia della sua vita e del suo regno sarebbe stato assai più netto, nei giudizi e nelle condanne, di molti dei suoi avversari in buona fede. Comunque è buon segno, tanto per la Repubblica che per la Monarchia italiana, che si tenti di penetrare nel profondo significato della sua opera e della sua personalità, Qualche ardita teoria va facendosi strada, qualche modifica sostanziale di giudizi inveterati  ed erronei — giudizi che lo vedono o arido o cinico o solo attento alle fortune dinastiche o avaro e intento ad accumulare per sé e per i suoi — viene introdotta.

Configurando il cammino della idea socialista in Italia, dal 1900 alla marcia su Roma, ebbi occasione di avanzare una ipotesi tutta romantica: che lui, il Re, avesse concepito la rivoluzione delle camicie nere come il solo, concreto modo di inserire finalmente il socialismo nello stato. Documenti e testimonianze ulteriori hanno confermata questa intuizione.

Anche l'esteriore della sua infanzia e della sua giovinezza mostra caratteri romantici: la solitudine tra la severità di Osio e la indifferenza di mons. Anzino, il cappellano di Corte, gli studi pertinaci, le lunghe guarnigioni con pochi o nessun amico, i viaggi di rappresentanza all'estero e le esperienze che egli ne traeva osservando un'Europa fin di secolo, bilanciata tra l'ordine del vecchio Congresso di Vienna e il fermentare delle rivoluzioni e guerre che sarebbero presto cominciate e non sono ancora finite.

Dei contatti con i potenti del tempo Vittorio Emanuele teneva una salda memoria, rammentando tipi e figure di Capi di Stato, quei pochi che da Principe ereditario aveva potuto conoscere e non si scorre senza interesse questo albo sbiadito. Guglielmo II, il sovrano più colto e intelligente del continente, trascinato alla guerra da Bethmann Hollweg e da Moltke; Bismarck, che vide nell"88 alle feste dell'incoronazione a Berlino e gli ricordò con delicatezza tutta tedesca: «Voi italiani siete il popolo delle tre S: nel 1859 con Schierino prendeste la Lombardia; nel 1866 con Sadowa prendeste il Veneto; nel 1870 con Sédan prendeste Roma; nessuna delle tre S venne fatta da voi». Ed egli da allora avvertì la necessità per l'Italia di « ar da sé qualche S».

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