NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 29 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, V parte


Al 1923, Vittorio Emanuele aveva contato tutti gli uomini politici ch'erano stati al Governo, lui regnante, erano 365, di cui 190 sottosegretari. Li aveva osservati tutti, cavandone idee generali. Era rimasto colpito dalla loro quasi generalizzata mancanza di naturalezza. La spiegava con l'influenza esterna: «il vasto palazzo, quei lacchè scarlatti e gallonati, quelle scalee maestose, quei tappeti profondi, quelle grandi piante, quei saloni tutti pitture, arazzi, specchi e lumi e quell'aria ambiente di silenzio di serenità di maestà. Non appena si è alla presenza dei Personaggio, la preoccupazione di mostrarsi all'altezza del momento, l'ansia di dire tutto nel tempo ristretto e l'intima disposizione di trovare nelle parole del grande uomo un senso meraviglioso e nascosto, il desiderio di compiacerlo esagerando quello eh'egli dice, tolgono all'interlocutore parte del senso accennato, amplificando. 'Non appena detta una cosa spiritata l'interlocutore ride troppo, non appena accenna una notizia triste l'interlocutore mostra un dolore infinito. I due non si svelano come sono; quello che è sopra, preoccupato di non dire di più di un certo punto, quello di sotto spinto ad allargare il numero e l'estensione di ciò che sente e a farmi capire che è in tutto degno della grande fiducia». (Ma questo tratto di psicologia, il Re può averlo anche pensato e detto come indiretta critica all'osannante mandi che montava, senza limiti di altezza e di fragore, verso la Dittatura e il dittatore. Son parole del 1923).

Egli non ebbe amicizia per gli uomini dei suoi governi: non ne ebbe per

Giolitti, per Orlando o per Mussolini e questo spiegava con un altro aneddoto. «In Russia, il principe Dolgorucki essendo colonnello della Guardia Imperiale, avendo ucciso in duello un altro ufficiale, fu retrocesso a sergente. Lo mandarono nel Caucaso e si distinse alla presa di Schamyl, talmente, che lo rinominarono colonnello. Fu addetto al comando del reggimento di cui era stato sergente, ma con grande stupore dovette osservare che tutti i sergenti di quel suo reggimento chiedevano di essere trasferiti. E che egli da sergente sapeva troppo le magagne commesse dai sottufficiali. Si trovava in condizioni specialissime per conoscere colpe che altrimenti avrebbe ignorate. Dovette promettere di dimenticare quello che sapeva e gli ci volle del bello e del buono per rassicurare i suoi dipendenti».

 

Il Re non voleva avere «troppi legami da spezzare»: lo si vide in due grandi occasioni, quando congedò Cadorna e quando dimise Mussolini.

 

Altra massima aurea del mestiere di Re, Vittorio Emanuele III praticò conservando una calma gelida in circostanze eccezionali. A Caporetto fu il solo a non perdere la testa e a Brindisi, malgrado la povertà e la squallida decadenza della sua sovranità, ristretta al piccolo territorio non ancora invaso e che, poi, presto fu invaso, fu il solo come a Peschiera a tener testa agli stranieri vittoriosi e punitori. Di quel che allora il Re fece non s'è ancora scritto con documentata ampiezza, anche perché dei Re si preferisce non vedere la disgrazia. Anche a Brindisi, come durante la guerra fortunata, egli si svegliava alle 4 del mattino e partiva alla volta di qualche caserma, villaggio o sconosciuta chiesa normanna o rovina romanica o chiostro barocco o selciato famoso o tomba rinomata o prezioso affresco. Visitava, spiegava le particolarità, i riferimenti, le sovrapposizioni di stile — lui che sapeva tutto — agli aiutanti che sapevano molto poco. Erano frigide mattinate, come quelle del Carso, del Friuli, del Trentino, della Carnia. Presso a poco disponeva della medesima automobile, della stessa frugale colazione da consumare in campagna, degli autisti, dei generali, degli aiutanti. Gli mancavano i soldati, dispersi in Europa, perduti in Russia e nei campi di concentramento tedeschi, sbandati sugli Appennini.

 

Assistette l'Il novembre del '43 ad una rivista di truppe in partenza per il Monte Lungo, sul fronte di Cassino, all'aeroporto di Brindisi spazzato dal libeccio; gli colava il naso e se l'asciugava continuamente in un fazzolettone di ordinanza della Marina di tela dura e inamidata, lottava con le pieghe, mentre con l'altra mano salutava, col gesto meccanico quasi nato con lui.

 

Quelle truppe raccogliticce, in uniformi spaiate, appartenenti ad armi dissimili, avanzavano su colonne disordinate e sghembe, malgrado le urla degli ufficiali.

 

Molti di quei soldati si erano arruolati nell'esercito del Re per passare al di là alla prima occasione, per ritornare presso la famiglia nel troncone settentrionale dell'Italia spezzata in due. Nessun altro avrebbe resistito a quello sfacelo e agli errori propri e altrui, come Vittorio Emanuele. Egli era convinto però che non esistessero disastri irreparabili e che l'ultimo dovere di un Sovrano fosse quello di non farsi mai scoraggiare dal momento presente come ultimo e definitivo. Un Re incarna il principio di continuità e per obbedirvi egli il Re di Vittorio Veneto era rimasto Re a Brindisi. Gli ci volle, certo, una gran forza a non morire.


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