NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 18 aprile 2022

Capitolo II. Il fiume e il pastore

di Emilio  Del Bel Belluz


Nel 1920  avevo sedici anni, ero appena rimasto orfano di entrambi i genitori, il mio nome era Vittorio, anche se tutti mi chiamavano Vito. Rimasto solo andai a vivere in una casa di legno, ereditata da uno zio, lungo il fiume Livenza. Era di una semplicità davvero unica, fatta di tronchi, a cui avevo successivamente apportato delle migliorie. Le sue molte finestre  mi permettevano di vedere il fiume come dagli oblò di una nave, il sole che sorgeva al mattino con la sua luce dorata e tramontava lasciando filtrare i suoi ultimi raggi rossastri tra la ricca vegetazione cresciuta sulla sua sponda.  In quella casa avevo la possibilità di godere di una solitudine assoluta, privo di qualsiasi obbligo,  ed avere come unico padrone il fiume che scandiva  la mia vita. Nella casa durante l’inverno mi concedevo delle lunghe letture che mi  rasserenavano e costruivo con esse la mia conoscenza. Il fiume era sempre il mio maestro e io dovevo essere umile nei suoi confronti come uno scolaro che impara le sue lezioni. Gli alberi che avevo piantato vicino alla mia casa, costituivano una grande ricchezza, si trattava delle piante da frutto che in primavera si arricchivano di fiori di colori diversi, tanto da sembrare la tavolozza di un pittore.  Oltre che una gioia per gli occhi, erano una fonte di ottimi frutti che mi permettevano di preparare delle buone marmellate che condividevo con i miei vicini. Coltivavo, inoltre,  la passione per la pesca perché mi permetteva di trascorrere parecchie ore in solitudine,  a stretto contatto con la natura che era diventata un tutt’uno con me stesso. Spesso salivo sulla mia barca e solcavo le acque del mio amico fiume che mi aspettava in qualsiasi momento del giorno. Aveva sempre colori diversi  e mi piaceva osservarlo  mentre fluiva lento o quando era ingrossato, quasi rabbioso, ma non per questo lo amavo di meno. La pace e la quiete che mi dava il fiume non era paragonabile a nessun’ altra cosa. Ero capace, talvolta, quando il sonno non mi rapiva, ad alzarmi per raggiungere la sua sponda e sedermi per sentire il lieve fiato delle sue acque, i guizzi dei pesci, finché non venivo sopraffatto da una pace interiore.  Vi erano  delle notti in cui il fiume faceva paura, quando usciva dal suo letto e quasi arrivava a  lambire le case che lo costeggiavano. In quei momenti tutti pregavano Iddio che venisse a placare la sua furia e a farlo rientrare nel suo alveo.  Le nostre suppliche, fortunatamente, molto spesso, venivano esaudite, così la paura cessava e il fiume ritornava ad essere amico e fratello. A volte mi piaceva parlare con il Livenza, e pregarlo nei momenti in cui avevo bisogno di pescare dei pesci  per venderli perché avevo necessità di racimolare dei soldi che mi servivano per condurre una vita dignitosa. Ricevevo molto spesso la visita di Genoveffa, un signora avanti con gli anni, amica della mia famiglia, che mi trattava, essendo rimasto solo, come un figlio. Aveva, pure, cura della mia roba da vestire, e mi rammendava i vestiti sdruciti che dovevo far durare a lungo. Provvedeva anche alla pulizia delle mie due stanze. La donna era stata moglie  di un pescatore, il marito era morto durante la Grande Guerra e non aveva figli. Ogni tanto mi portava qualche manicaretto da lei preparato, o addirittura veniva in casa a cucinare.  Tra l’altro, avendo avuto un marito pescatore, sapeva molto bene come aggiustare le reti. La sua presenza addolciva la mia solitudine e in qualche modo sconfiggeva la sua. Genoveffa mi aveva sempre detto che starsene sola in casa la intristiva e il farmi visita l’aiutava a trascorrere meglio il tempo.  La buona  Genoveffa aveva una grande fede, e non mancava mai di andare alla Santa Messa del mattino e mi spingeva a frequentare la casa del Signore, cosa che incominciai a fare anch’io nei giorni festivi. Il nostro rapporto era diventato filiale e l’affetto era reciproco.  Alla mattina partivo da casa prima che il sole sorgesse e la volta celeste brillava ancora di stelle. Ero accompagnato da una capretta lungo il percorso per arrivare al fiume. Al ritorno mi faceva mille feste come se fossi una persona cara. Questa capretta mi era stata donata da un pastore come ricompensa per del pesce che gli avevo dato e  l’ospitalità che gli avevo offerto. Quando si trovava a passare nei miei paraggi con il suo gregge, lo ospitavo a cena.  L’uomo apprezzava molto il pesce cucinato da  Genoveffa, un piatto raro per lui, abituato a del pane raffermo e a del cibo in scatola.  L’uomo aveva una grande passione per il vino, e qualche volta eccedeva con il buon nettare, che lo faceva addormentare di sasso, ma era ,al tempo stesso, tranquillo perché sapeva che alla sorveglianza del gregge avrebbero provveduto i suoi fedeli cani. Nei suoi racconti mi parlava spesso delle persone che aveva incontrato nei tanti  paesi che aveva incrociato e di quelle che lo avevano fatto arrabbiare, come certi padroni di terre, che non gli permettevano di passare sui loro campi. Ma c’erano pure gli amici che rivedeva ogni anno e che aspettavano il suo arrivo come un grande evento da festeggiare assieme nell’osteria del paese, bevendo del vino . Si faceva preparare anche una pentola di pastasciutta che, però, doveva consumare sorvegliando il suo gregge. Al pastore gli piacevano le chiesette che  incontrava nel suo cammino, si fermava volentieri a discorrere con il sacrestano che di solito non mancava mai di riferirgli le novità dell’anno trascorso. La cosa che lo metteva in imbarazzo erano i suoi vestiti che puzzavano di pecora e quell’odore non era facile cancellarlo. Per quanto si lavasse i vestiti con l’aiuto di qualche persona amica, questi non profumavano mai di pulito.  La sua vita non era facile, a casa, in montagna ,aveva una moglie e dei figli che lo aspettavano, e lo amavano. La famiglia gli mancava, e spesso, mangiando con i suoi cani in riva al fiume, la nostalgia era talmente forte che ogni tanto aveva maledetto la vita che faceva. Il Leopardi, un poeta molto famoso, aveva cantato la vita dei pastori, e questa notizia letteraria gliela aveva detta il parroco di un paese e, pertanto, si sentiva fiero che qualcuno si fosse ricordato di loro.


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