NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 2 settembre 2019

Io difendo la Monarchia - Cap VIII - 1


CAPITOLO VIII

LA CADUTA DEL FASCISMO

Dal dicembre 1942 gli italiani non credevano più nella vittoria - I combattenti parteggiavano moralmente pei loro nemici - Guerra nazionale, ma più guerra civile. Bisognava uscire dalla lotta - Ambrosio, nuovo Capo di Stato Maggiore Generale - La decisione del Sovrano – La lotta clandestina - Mussolini di fronte ad Hitler al convegno di Feltre - Il 25 luglio - Governo politico o governo militare? - I tedeschi scendono in forze in: Italia.

Se Mussolini ha creduto fino all'aprile 1945 nelle armi segrete di Hitler, gli italiani nella loro generalità perderono ogni speranza in un esito felice della guerra alla fine del 1942. Assai spesso, nei venti anni del regime, ci siamo domandati se Mussolini come uomo rappresentativo di un momento della nostra storia, cumulasse i pregi e i difetti dell'italiano medio, o fosse invece il suo contrario, il suo nemico, l'anti italiano. Alcune volte egli dava l'illusione di essere un italiano tradizionale, un italiano tipo; ma il più delle volte appariva totalmente estraneo alla nostra civiltà e alla nostra natura. Comunque, dopo l'autunno del 1942 egli rimase solo a pensare ad una possibile vittoria. Il primo febbraio del 1943, quando il generale Ambrosio succedette a Cavallero nella carica di Capo di Stato Maggiore Generale, egli pose come prima condizione a Mussolini quella « di puntare i piedi contro i tedeschi ». Le truppe germaniche scendevano ormai nella Penisola come in territorio occupato. Si installavano in abitazioni e in uffici senza dipendere dalle autorità italiane. Il nostro Stato Maggiore dovette a un dato momento diramare una circolare a tutti i Comandi perché segnalassero gli uffici o comandi germanici di cui essi avevano cognizione. Le forze tedesche non obbedivano ai Comandi italiani della zona, né li informavano dei loro spostamenti, dell'aumento o diminuzione della loro forza: facevano uso delle ferrovie, del telegrafo e di ogni altro mezzo di comunicazione come di cosa propria. Parlavano spesso del territorio italiano come di territorio occupato. Con questo contegno essi avevano ridestato da tempo, nello spirito degli italiani, i fantasmi della secolare lotta contro il tedesco invasore. Si aggiungano i casi di abbandono delle nostre truppe sul campo di battaglia, dopo averle private dei loro automezzi, in Africa e in Russia, e si comprenderà quale fosse nel 1943 lo stato d'animo generale in Italia verso i camerati dell'Asse.

A tutto ciò si aggiunga ancora la vaga sensazione che gli italiani ebbero sin dall'inizio del conflitto, di trovarsi dinnanzi a una guerra diversa dalle altre: una guerra che i fascisti chiamavano appunto rivoluzionaria perché conteneva nei suoi fini i presupposti di una verità, la loro verità, da affermare, e i non fascisti chiamavano guerra ideologica, guerra religiosa: e cioè guerra di un sistema di principi, contro un altro sistema di principi, di una concezione morale dell'uomo e della sua vita, della nazione e del suo sviluppo, contro un'altra concezione morale dell'uomo e della nazione. Avvenne allora a ciascuno, mentre combatteva oltre le frontiere, in Africa o in Grecia, per le ragioni tradizionali di ogni guerra e cioè per la difesa o l'acquisto di territori, di ritrovarsi milite di quest'altra guerra più profonda e più vera: la guerra universale di religione che si andava ovunque combattendo. Nel sentire i fatti di Polonia o di Austria o di Cecoslovacchia o di Ucraina i combattenti italiani, dapprima non credettero, poi dubitarono, poi convinti da mille testimonianze e, infine, nella campagna di Russia divenuti essi stessi testimoni esterrefatti di quegli inauditi delitti, si accorsero di aver mutato intimamente il fronte morale, il fronte ideologico nella lunga e terribile battaglia. Essi sentivano che, vincendo, avrebbero forse acquistato territori, ma perduto per sempre, con la sconfitta della civiltà universale, la stessa civiltà della loro nazione, il carattere della loro terra e del loro mare, la loro stessa natura. Perdendo avrebbero almeno conservato quel carattere e quella civiltà. Questo fu il dramma del soldato e del cittadino italiano. Esso è stato espresso in modo inimitabile da Benedetto Croce nel suo discorso di Bari del gennaio 1944.

« A poco a poco la luce si fece in noi: cominciammo a udire intorno a noi il giudizio che la presente guerra non era una guerra tra popoli, ma una guerra civile; e più esattamente ancora, che non era una semplice guerra di interessi portici ed economici, ma una guerra di religione; e per la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo al penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana. Un legame, dunque, si è stretto tra noi e le potenze alleate, un legame diverso o superiore a quello dei trattati politici, degli armistizi ti delle rese, perché è una promessa di carattere morale o religioso, da noi religiosamente accolta ».

Quel grande maestro di libertà e di italianità proseguiva affermando la sua certezza che questa volta non si sarebbe ripetuto l'errore che le potenze vincitrici commisero quando, dopo aver eccitato le popolazioni italiane a scuotere il dominio napoleonico, non mantennero le promesse e « il più temperato e meditativo dei nostri poeti “il Manzoni-" dové rimproverarli: “0 stranieri, sul vostro stendardo - sta l'obbrobrio di un giuro tradito!”.

Si apponeva giustamente il Croce quando pensava che non si sarebbe ripetuto l'errore dell'età della Restaurazione? A tutt'oggi non possiamo giudicare; né lo potremo fino a quando la grande guerra di religione non sarà cessata e vinta insieme a quella già felicemente conclusa contro le armate tedesche e giapponesi. P- avvenuto, infatti, che uno dei grandi federati della lotta per la libertà, si è svelato come il capostipite della famiglia dei to talitari e dei cultori dello Stato, pei quali l'individuo non esiste. I metodi di pace e di lotta della Russia e dei suoi paesi vassalli non si differenziano da quelli germanici: lo stesso prepotere della polizia, lo stesso impiego della tortura, gli stessi campi di concentramento, le stesse deportazioni in massa. All'odio razziale si sostituisce l'odio di classe. La borghesia delle professioni e dell'intelligenza viene individuata, enucleata e, a poco a poco, i suoi membri vengono arrestati e allontanati per sempre per una destinazione ignota: le famiglie dissolte, impoverite, precipitano, senza rimedio nel proletariato indifferenziato. Attorno a questi popoli si crea la barriera del silenzio, la più adatta alla tetra esperienza che fu possibile sulla massa indifferenziata russa tra il 1917 e il 1921. Essi entrano nella tormenta della grande rivoluzione, la rivoluzione per antonomasia, quella di cui fascismo e nazismo, specialmente il primo - non furono che i tiepidi surrogati "occidentali nella lotta dello Stato contro l'individualismo liberale (1).

Ma torniamo al dramma italiano tra il gennaio e il 1945 Gli italiani volevano porre fine alla guerra, ma per giungere a tanto bisognava rovesciare Mussolini. Questi non era un Presidente del Consiglio che si potesse far dimettere con un voto del Parlamento. La convinzione che la guerra era perduta aveva penetrato ormai tutti gli ambienti, aveva guadagnato tutte le intelligenze. Il momento germanico era passato: quella possente macchina bellica era stata a un punto dal conquistare il mondo, ma ormai essa aveva compiuto il massimo sforzo e su tutti i fronti era costretta a indietreggiare. Gli Stati Uniti, la Russia, l'Inghilterra e i suoi Dominions erano invece assai lontani dall'aver compiuto il loro massimo sforzo. I tedeschi avevano già perduto la guerra marittima, la guerra aerea e la gara di produzione industriale e di ricerca scientifica. Non tutti i dati che determinavano questa diffusa convinzione erano accertati, alcuni potevano variare da un momento all'altro, ma ormai la convinzione dell'inferiorità tedesca era divenuta generale ed essa non poteva essere modificata che da qualche straordinario e nuovo avvenimento.

(1) Vedi sul settimanale L'Opinione (17 settembre 1945) il testo di un appello lanciato al mondo dal Club Federale dell'Europa Centrale residente a Londra, ancora una volta fatta asilo di libertà:

«Albanesi, Bianco-Ruteni, Bulgari, Cechi, Croati, Estoni, Greci, Lettoni, LItuani, Polacchi, Serbi, Slovacclii, Sloveni, Romeni, Ucraini, Ungheresi. Il corso della storia e particolarmente gli eventi della seconda guerra mondiale stanno a dimostrare sino a qual punto questi popoli siano uniti da un comune destino.
Oppressi dai sistemi totalitari nazionalsocialista, fascista e sovietico, si trovano nella necessità di una comune difesa della loro indipendenza.
Le affinità della vita interna dei nostri popoli deriva da un analogo sviluppo culturale e dalla analogia delle loro strutture sociali.

L'attaccamento alla cultura occidentale, profonde tradizioni e sentimenti religiosi o ordinamenti giuridici democraticamente instaurati costituiscono le caratteristiche essenziali della nostra affinità.

Nella struttura sociale dei nostri popoli l'elemento rurale ha conservato la preponderanza, potenziando il suo contributo alla vita nazionale di pari passo con il progressivo sviluppo della campagna e del contadino libero cittadino.

Perciò i Paesi dell'Intermarium centro-europeo, legati dalla stessa situazione geografica, dal loro passato storico, dalla comune civiltà e struttura sociale, minacciati dagl'imperialismi che li circondano, dovrebbero giungere ad una sola logica soluzione: la creazione di una unità politica per la loro comune difesa e per il loro sviluppo.

Nel momento attuale, allorché, dopo la chiusura formale delle ostilità in Europa, è intervenuta anche la fine della guerra in Asia, numerosi popoli nel mondo manifestano la propria gola: ad essa non partecipano, non possono partecipare i popoli dell'Europa centro-orientale.

Sottoposti all'occupazione sovietica, privati dell'indipendenza e dei più elementari diritti della persona umana, essi sentono più fortemente che mai, nel cosidetto "Giorno della Vittoria", la cupa tragicità del momento. La fine della guerra porta con sé il più assoluto disprezzo di quel principii, in nome dei quali fu brandita la spada.

La lotta nacque dalla resistenza contro l’imposizione dell’altrui volontà al popoli liberi, dalla resistenza contro l'imperialismo rapace, dalla resistenza contro il principio del predominio di una "razza eletta" su quelle "inferiori". La Carta Atlantica e simili dichiarazioni proclamavano che il Diritto doveva prevalere sulla forza, che la Giustizia ed il rispetto della altrui Libertà sarebbero state il fondamento di un nuovo ordine mondiale, che il libero sviluppo dei deboli sarebbe stato tutelato di forti.

Ed ecco che la guerra si chiude con una piena affermazione di propotenza, con il riconoscimento del frutto delle conquiste e delle annessioni come un giusto premio per i potenti, con la formulazione di una nuova gerarchia di supremazia tra popoli in nome della forza.

Ma un tale stato di cose, fondato esclusivamente sulla forza, non può consolidarsi nel xx secolo.

Milioni di uomini nelI'Intermarium, ansiosi di una piena e duratura libertà nazionale, uomini appartenenti sia a popoli che non potettero raggiungere l'indipendenza nella precedente guerra mondiale sia a popoli che hanno attualmente perduta l'indipendenza, non vogliono essere schiavi, e non lo saranno.

Le tendenze Imperialiste, che vogliono fondare l'ordine mondiale su di una ripartizione di sfere d'influenza, sono non soltanto immorali, ma anche irreali. Imperocché non è vero che sia già morto uno dei più grandi Ideali dell'Umanità, la pienezza della vita nazionale dei popoli. Esso non si può cancellare dall'animo dei popoli né si può sostituire esclusivamente con un Ideale di benessere individuale e di massimi consumi, come pretenderebbero di farci credere gli esponenti del capitalismo statale, o privato.

E pertanto la difesa del diritto delle nostre Nazioni all'indipendenza, la ricerca di soluzioni giuste e pratiche per il regolamento dei reciproci rapporti tra i nostri popoli, la difesa degli elementari diritti deIl'uomo, sono i nostri scopi.

A fondamento della nostra attività assumiamo il patrimonio storico del diritto europeo, il suo principio della libertà dei popoli, il suo rispetto per il diritto di autodecisione dei Popoli.

Per la vita interna dei nostri popoli crediamo indispensabile lo sviluppo della democrazia, ma contestiamo tuttavia il diritto al nome di democrazia a qualunque ordinamento politico che non sta fondato sul rispetto della libertà. Il che appunto si verifica nella costruzione dei nuovi concetti "di vera democrazia” o di " democrazia progressiva” che non sono stati creati che al solo fine di aprire la via alla dittatura di un solo partito ed alla instaurazIone dell'onnipotenza sovietica.

Il totalitarismo orientale, che minaccia ora l'Europa, ha già sottratto ad una vita libera e normale tutta una serie di popoli, cosi come pure ha sottratto al più elevati concetti ed alle più elevate parole il loro senso proprio, sano ed onesto.

Siamo convinti dei ritorno del buon senso dei popoli; crediamo nella rinascita degli ideali umanistici nella cultura, crediamo nelle forze creatrici delle nostre Nazioni dell'Intermarium: è questo il fondamento incrollabile della nostra speranza e della nostra perseveranza nella lotta.

In nome del Club FederaIe: MIHA KREK, presidente; JULIUSZ PONZATOWSKI, vice-presidente; CIRIL ZEBOT, segr. gen. ».

3 commenti:

  1. Analisi interessante che condivido e faccio mia.
    Bravi.

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  2. Analisi interessante che condivido e faccio mia.
    Bravi.

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  3. Testo di valore storico e filosofico, riscoperta di fatti reali sui quali è stato calato l'oblio repubblicano.
    Condivido e faccio mio. Bravi.

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