CAPITOLO
VIII
LA
CADUTA DEL FASCISMO
Dal
dicembre 1942 gli italiani non credevano più nella vittoria - I combattenti
parteggiavano moralmente pei loro nemici - Guerra nazionale, ma più guerra
civile. Bisognava uscire dalla lotta - Ambrosio, nuovo Capo di Stato Maggiore
Generale - La decisione del Sovrano – La lotta clandestina - Mussolini di
fronte ad Hitler al convegno di Feltre - Il 25 luglio - Governo politico o
governo militare? - I tedeschi scendono in forze in: Italia.
Se Mussolini ha creduto fino all'aprile 1945
nelle armi segrete di Hitler, gli italiani nella loro generalità perderono ogni
speranza in un esito felice della guerra alla fine del 1942. Assai spesso, nei
venti anni del regime, ci siamo domandati se Mussolini come uomo rappresentativo
di un momento della nostra storia, cumulasse i pregi e i difetti dell'italiano
medio, o fosse invece il suo contrario, il suo nemico, l'anti italiano. Alcune
volte egli dava l'illusione di essere un italiano tradizionale, un italiano
tipo; ma il più delle volte appariva totalmente estraneo alla nostra civiltà e
alla nostra natura. Comunque, dopo l'autunno del 1942 egli rimase solo a
pensare ad una possibile vittoria. Il primo febbraio del 1943, quando il
generale Ambrosio succedette a Cavallero nella carica di Capo di Stato Maggiore
Generale, egli pose come prima condizione a Mussolini quella « di puntare i
piedi contro i tedeschi ». Le truppe germaniche scendevano ormai nella Penisola
come in territorio occupato. Si installavano in abitazioni e in uffici senza
dipendere dalle autorità italiane. Il nostro Stato Maggiore dovette a un dato
momento diramare una circolare a tutti i Comandi perché segnalassero gli uffici
o comandi germanici di cui essi avevano cognizione. Le forze tedesche non
obbedivano ai Comandi italiani della zona, né li informavano dei loro
spostamenti, dell'aumento o diminuzione della loro forza: facevano uso delle
ferrovie, del telegrafo e di ogni altro mezzo di comunicazione come di cosa
propria. Parlavano spesso del territorio italiano come di territorio occupato.
Con questo contegno essi avevano ridestato da tempo, nello spirito degli
italiani, i fantasmi della secolare lotta contro il tedesco invasore. Si
aggiungano i casi di abbandono delle nostre truppe sul campo di battaglia, dopo
averle private dei loro automezzi, in Africa e in Russia, e si comprenderà
quale fosse nel 1943 lo stato d'animo generale in Italia verso i camerati
dell'Asse.
A tutto ciò si aggiunga ancora la vaga
sensazione che gli italiani ebbero sin dall'inizio del conflitto, di trovarsi
dinnanzi a una guerra diversa dalle altre: una guerra che i fascisti chiamavano
appunto rivoluzionaria perché conteneva nei suoi fini i presupposti di una
verità, la loro verità, da affermare, e i non fascisti chiamavano guerra
ideologica, guerra religiosa: e cioè guerra di un sistema di principi, contro
un altro sistema di principi, di una concezione morale dell'uomo e della sua
vita, della nazione e del suo sviluppo, contro un'altra concezione morale
dell'uomo e della nazione. Avvenne allora a ciascuno, mentre combatteva oltre
le frontiere, in Africa o in Grecia, per le ragioni tradizionali di ogni guerra
e cioè per la difesa o l'acquisto di territori, di ritrovarsi milite di
quest'altra guerra più profonda e più vera: la guerra universale di religione
che si andava ovunque combattendo. Nel sentire i fatti di Polonia o di Austria
o di Cecoslovacchia o di Ucraina i combattenti italiani, dapprima non
credettero, poi dubitarono, poi convinti da mille testimonianze e, infine,
nella campagna di Russia divenuti essi stessi testimoni esterrefatti di quegli
inauditi delitti, si accorsero di aver mutato intimamente il fronte morale, il
fronte ideologico nella lunga e terribile battaglia. Essi sentivano che,
vincendo, avrebbero forse acquistato territori, ma perduto per sempre, con la
sconfitta della civiltà universale, la stessa civiltà della loro nazione, il
carattere della loro terra e del loro mare, la loro stessa natura. Perdendo
avrebbero almeno conservato quel carattere e quella civiltà. Questo fu il
dramma del soldato e del cittadino italiano. Esso è stato espresso in modo
inimitabile da Benedetto Croce nel suo discorso di Bari del gennaio 1944.
« A poco a poco la luce si fece in noi:
cominciammo a udire intorno a noi il giudizio che la presente guerra non era
una guerra tra popoli, ma una guerra civile; e più esattamente ancora, che non
era una semplice guerra di interessi portici ed economici, ma una guerra di
religione; e per la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci, ci rassegnammo
al penoso distacco dalla brama di una vittoria italiana. Un legame, dunque, si
è stretto tra noi e le potenze alleate, un legame diverso o superiore a quello
dei trattati politici, degli armistizi ti delle rese, perché è una promessa di
carattere morale o religioso, da noi religiosamente accolta ».
Quel grande maestro di libertà e di
italianità proseguiva affermando la sua certezza che questa volta non si
sarebbe ripetuto l'errore che le potenze vincitrici commisero quando, dopo aver
eccitato le popolazioni italiane a scuotere il dominio napoleonico, non
mantennero le promesse e « il più temperato e meditativo dei nostri poeti “il
Manzoni-" dové rimproverarli: “0 stranieri, sul vostro stendardo - sta
l'obbrobrio di un giuro tradito!”.
Si apponeva giustamente il Croce quando
pensava che non si sarebbe ripetuto l'errore dell'età della Restaurazione? A
tutt'oggi non possiamo giudicare; né lo potremo fino a quando la grande guerra
di religione non sarà cessata e vinta insieme a quella già felicemente conclusa
contro le armate tedesche e giapponesi. P- avvenuto, infatti, che uno dei
grandi federati della lotta per la libertà, si è svelato come il capostipite
della famiglia dei to talitari e dei cultori dello Stato, pei quali l'individuo
non esiste. I metodi di pace e di lotta della Russia e dei suoi paesi vassalli
non si differenziano da quelli germanici: lo stesso prepotere della polizia, lo
stesso impiego della tortura, gli stessi campi di concentramento, le stesse
deportazioni in massa. All'odio razziale si sostituisce l'odio di classe. La
borghesia delle professioni e dell'intelligenza viene individuata, enucleata e,
a poco a poco, i suoi membri vengono arrestati e allontanati per sempre per una
destinazione ignota: le famiglie dissolte, impoverite, precipitano, senza
rimedio nel proletariato indifferenziato. Attorno a questi popoli si crea la
barriera del silenzio, la più adatta alla tetra esperienza che fu possibile
sulla massa indifferenziata russa tra il 1917 e il 1921. Essi entrano nella
tormenta della grande rivoluzione, la rivoluzione per antonomasia, quella di
cui fascismo e nazismo, specialmente il primo - non furono che i tiepidi
surrogati "occidentali nella lotta dello Stato contro l'individualismo liberale
(1).
Ma torniamo al dramma italiano tra il gennaio
e il 1945 Gli italiani volevano porre fine alla guerra, ma per giungere a tanto
bisognava rovesciare Mussolini. Questi non era un Presidente del Consiglio che
si potesse far dimettere con un voto del Parlamento. La convinzione che la
guerra era perduta aveva penetrato ormai tutti gli ambienti, aveva guadagnato
tutte le intelligenze. Il momento germanico era passato: quella possente
macchina bellica era stata a un punto dal conquistare il mondo, ma ormai essa
aveva compiuto il massimo sforzo e su tutti i fronti era costretta a
indietreggiare. Gli Stati Uniti, la
Russia , l'Inghilterra e i suoi Dominions erano invece assai
lontani dall'aver compiuto il loro massimo sforzo. I tedeschi avevano già
perduto la guerra marittima, la guerra aerea e la gara di produzione
industriale e di ricerca scientifica. Non tutti i dati che determinavano questa
diffusa convinzione erano accertati, alcuni potevano variare da un momento
all'altro, ma ormai la convinzione dell'inferiorità tedesca era divenuta
generale ed essa non poteva essere modificata che da qualche straordinario e
nuovo avvenimento.
(1) Vedi sul settimanale L'Opinione (17
settembre 1945) il testo di un appello lanciato al mondo dal Club Federale
dell'Europa Centrale residente a Londra, ancora una volta fatta asilo di
libertà:
«Albanesi, Bianco-Ruteni, Bulgari, Cechi, Croati,
Estoni, Greci, Lettoni, LItuani, Polacchi, Serbi, Slovacclii, Sloveni, Romeni,
Ucraini, Ungheresi. Il corso della storia e particolarmente gli eventi della
seconda guerra mondiale stanno a dimostrare sino a qual punto questi popoli
siano uniti da un comune destino.
Oppressi dai sistemi totalitari
nazionalsocialista, fascista e sovietico, si trovano nella necessità di una
comune difesa della loro indipendenza.
Le affinità della vita interna dei nostri
popoli deriva da un analogo sviluppo culturale e dalla analogia delle loro
strutture sociali.
L'attaccamento alla cultura occidentale,
profonde tradizioni e sentimenti religiosi o ordinamenti giuridici democraticamente
instaurati costituiscono le caratteristiche essenziali della nostra affinità.
Nella struttura sociale dei nostri popoli
l'elemento rurale ha conservato la preponderanza, potenziando il suo contributo
alla vita nazionale di pari passo con il progressivo sviluppo della campagna e
del contadino libero cittadino.
Perciò i Paesi dell'Intermarium
centro-europeo, legati dalla stessa situazione geografica, dal loro passato
storico, dalla comune civiltà e struttura sociale, minacciati dagl'imperialismi
che li circondano, dovrebbero giungere ad una sola logica soluzione: la
creazione di una unità politica per la loro comune difesa e per il loro
sviluppo.
Nel momento attuale, allorché, dopo la
chiusura formale delle ostilità in Europa, è intervenuta anche la fine della
guerra in Asia, numerosi popoli nel mondo manifestano la propria gola: ad essa
non partecipano, non possono partecipare i popoli dell'Europa centro-orientale.
Sottoposti all'occupazione sovietica, privati
dell'indipendenza e dei più elementari diritti della persona umana, essi
sentono più fortemente che mai, nel cosidetto "Giorno della Vittoria",
la cupa tragicità del momento. La fine della guerra porta con sé il più
assoluto disprezzo di quel principii, in nome dei quali fu brandita la spada.
La lotta nacque dalla resistenza contro l’imposizione
dell’altrui volontà al popoli liberi, dalla resistenza contro l'imperialismo
rapace, dalla resistenza contro il principio del predominio di una "razza
eletta" su quelle "inferiori". La Carta Atlantica e simili dichiarazioni
proclamavano che il Diritto doveva prevalere sulla forza, che la Giustizia ed il rispetto
della altrui Libertà sarebbero state il fondamento di un nuovo ordine mondiale,
che il libero sviluppo dei deboli sarebbe stato tutelato di forti.
Ed ecco che la guerra si chiude con una piena
affermazione di propotenza, con il riconoscimento del frutto delle conquiste e
delle annessioni come un giusto premio per i potenti, con la formulazione di
una nuova gerarchia di supremazia tra popoli in nome della forza.
Ma un tale stato di cose, fondato
esclusivamente sulla forza, non può consolidarsi nel xx secolo.
Milioni di uomini nelI'Intermarium, ansiosi
di una piena e duratura libertà nazionale, uomini appartenenti sia a popoli che
non potettero raggiungere l'indipendenza nella precedente guerra mondiale sia a
popoli che hanno attualmente perduta l'indipendenza, non vogliono essere
schiavi, e non lo saranno.
Le tendenze Imperialiste, che vogliono
fondare l'ordine mondiale su di una ripartizione di sfere d'influenza, sono non
soltanto immorali, ma anche irreali. Imperocché non è vero che sia già morto
uno dei più grandi Ideali dell'Umanità, la pienezza della vita nazionale dei
popoli. Esso non si può cancellare dall'animo dei popoli né si può sostituire
esclusivamente con un Ideale di benessere individuale e di massimi consumi,
come pretenderebbero di farci credere gli esponenti del capitalismo statale, o
privato.
E pertanto la difesa del diritto delle nostre
Nazioni all'indipendenza, la ricerca di soluzioni giuste e pratiche per il
regolamento dei reciproci rapporti tra i nostri popoli, la difesa degli
elementari diritti deIl'uomo, sono i nostri scopi.
A fondamento della nostra attività assumiamo
il patrimonio storico del diritto europeo, il suo principio della libertà dei
popoli, il suo rispetto per il diritto di autodecisione dei Popoli.
Per la vita interna dei nostri popoli
crediamo indispensabile lo sviluppo della democrazia, ma contestiamo tuttavia il
diritto al nome di democrazia a qualunque ordinamento politico che non sta
fondato sul rispetto della libertà. Il che appunto si verifica nella
costruzione dei nuovi concetti "di vera democrazia” o di " democrazia
progressiva” che non sono stati creati che al solo fine di aprire la via alla
dittatura di un solo partito ed alla instaurazIone dell'onnipotenza sovietica.
Il totalitarismo orientale, che minaccia ora
l'Europa, ha già sottratto ad una vita libera e normale tutta una serie di
popoli, cosi come pure ha sottratto al più elevati concetti ed alle più elevate
parole il loro senso proprio, sano ed onesto.
Siamo convinti dei ritorno del buon senso dei
popoli; crediamo nella rinascita degli ideali umanistici nella cultura,
crediamo nelle forze creatrici delle nostre Nazioni dell'Intermarium: è questo
il fondamento incrollabile della nostra speranza e della nostra perseveranza
nella lotta.
In nome del Club FederaIe: MIHA KREK,
presidente; JULIUSZ PONZATOWSKI, vice-presidente; CIRIL ZEBOT, segr. gen. ».
Analisi interessante che condivido e faccio mia.
RispondiEliminaBravi.
Analisi interessante che condivido e faccio mia.
RispondiEliminaBravi.
Testo di valore storico e filosofico, riscoperta di fatti reali sui quali è stato calato l'oblio repubblicano.
RispondiEliminaCondivido e faccio mio. Bravi.