Due millenni di guerre, amicizia, passioni
e rivalse
L'affinità italo-germanica
Quando il braidese Giovanni Piumati insegnava
italiano a Guglielmo II
Tra Otto e Novecento le relazioni amichevoli
tra il Regno d'Italia e l'Impero di Germania raggiunsero l'apice: scambi
economici e soprattutto fitto dialogo culturale, con riflessi anche sulle Forze
Armate, particolarmente quando Capo di stato maggiore dell'esercito fu Alberto
Pollio (Caserta, 1852-Torino, 1914). Filosofi, letterati e artisti italiani
erano di casa nelle Università germaniche e a loro volta i sommi studiosi
tedeschi si facevano un punto d'onore di dialogare con Giosue Carducci,
Benedetto Croce e Giovanni Gentile, traduttore di Kant. Anche i piemontesi
fecero la loro parte. Fra i molti, Giovanni Piumati (Bra, 1850-Viù, 1915),
docente di letteratura italiana a Colonia e a Bonn, tenne lezioni di italiano
al futuro imperatore Guglielmo II, che, grato e ammirato, lo volle precettore
dei figli. Iniziato massone nella prestigiosa loggia “Rienzi” di Roma, Piumati
curò l'edizione del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci su mandato dei Lincei
e introdusse nella loggia “Cavour” di Torino il concittadino Beniamino Manzone,
pioniere della storia del Risorgimento. L'Italia di allora non confondeva
Berlino con Vienna: l'irredentismo era una partita aperta esclusivamente con
Vienna. Alla Germania, invece, l'Italia doveva Venezia e, indirettamente, Roma,
ove Raffaele Cadorna aveva fatto irruzione il 20 settembre 1870, dopo la
sconfitta di Napoleone III a Sédan e la proclamazione della Terza Repubblica a
Parigi.
Ma in passato l'immagine della “Germania” non
era stato così lineare nella cultura “patriottica” italiana.
Da Cesare
al Kaiser
“Sta Federico imperatore in Como...”. È l'incipit
della “Canzone di Legnano” scritta dall'insuperabile Giosue Carducci nel 1876 e
limata sino al 1879. Il “maestro e Vate della Terza Italia” omise che erano i
comaschi prima e più che Barbarossa a volere la distruzione di Milano. Già nel 1872 aveva fatto ammenda anticipata dei
suoi successivi e un po' scolastici entusiasmi per il “Carroccio”. In “Su i
campi di Marengo” aveva inneggiato alla vittoria sulla “lega lombarda”
dell'“imperator romano/ Del divo Giulio erede, e successor di Traiano”. Sentiti
“gli squilli/ de le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po/ in cospetto a
l'aquila gli animi ed i vessilli/ d'Italia s'inchinarono e Cesare passò”. Era
l'Imperatore. Originariamente duca di Svevia, pacificatore della lunga diatriba
tra guelfi e ghibellini, Federico I Staufen, Barbarossa, era il Kaiser, la
reincarnazione dell'Imperatore romano. Con la pace di Costanza (1183) egli
infine pattuì il modus vivendi tra Sacro romano impero e Comuni.
Deposta la veronica di mazziniano e sempre ammiratore di Garibaldi (“Italia e
Vittorio Emanuele”), storico e politico ancor più che poeta, Carducci insegnò
che il legame tra Italia e Germania non nasce da capricci. È nella storia. È il
fulcro dell'Europa. Ma non è l'“asse Roma-Berlino”, errata formula in uso
ottant'anni addietro. Nell' epoca evocata da Carducci , l'attuale capitale
della Germania era un villaggio insignificante. L'Imperatore, invece, era
insegna sacra della grande storia d'Europa, sintesi tra quanto rimaneva della
Romanità e la cristianità d'Occidente.
L'equivoca formula Roma-Berlino. Gli
Ottoni e la Renovatio Imperii Romanorum
Roma è l'Italia, Berlino è solo una (e
recente) delle tante città importanti dell'arcipelago tedesco, capitale della
marca di Brandeburgo dal 1451 (quando in Italia svettavano Milano, Venezia,
Firenze, Napoli, Palermo...) e del regno di Prussia dal 1701, che anticipò di
un decennio quello dei Savoia re di Sicilia e poi di Sardegna. La Germania non
è la borussica Berlino: è il desiderio millenario dei tedeschi di essere
anch'essi Romani. A tutto vantaggio dell'Italia.
Furono Giulio Cesare e Augusto a “cercare” la
Germania. Lo sterminio delle legioni comandate da Varo nella selva di
Teutoburgo lasciò il segno. Ci riprovò Domiziano nei decenni seguenti, sino a
occupare i Campi Decumati, che pochi ricordano. Lì l'Impero romano si fermò e
si trincerò, come fece col vallo Adriano fra Britannia e Caledonia e altre
difese verso un “nord” che andava arginato con muraglie complete di torri
armate. Bastavano truppe scelte anziché costosissime legioni stanziali. Il
pericolo per l'Impero romano non arrivava dalla futura Inghilterra né dalla
Germania ma da est: Goti, Quadi, Marcomanni e via continuando sino ai Vandali.
Il visigoto Alarico, che non aveva nulla a che fare con i teutoni della
Germania propriamente detta, penetrò in Italia come un coltello nel burro.
Sconfitto da Stilicone a Pollenzo (oggi Cherasco, sul Tanaro, nel Cuneese) e a
Verona, nel 410 saccheggiò Roma. Un colpo al cuore non solo dei pagani ma anche
dei cristiani. Poi fu la volta di Attila, “re” degli unni, fermato da Enzo con
le armi e da papa Leone Magno con lo Spirito. Neppure lui era “tedesco”. Come
lo era solo per vago ceppo etnico il goto Genserico, che dall'“Africa” assalì
Roma e la devastò una seconda volta nel 455. Infine vennero gli Eruli di
Odoacre, che depose Romolo Augustolo. I tedeschi hanno costituito la continuità
della Germania. Gli altri popoli erratici nominalmente germanici, ignari di
agricoltura, artigianato e di costruzione di
città, sono stati sommersi dalle sabbie del tempo. Quanti tunisini si
considerano discendenti di Genserico?
Quanti spagnoli si sentono visigoti o vandali?
Il ventre molle è là, sulle Alpi Orientali,
non sulla linea dalle Marittime al Brennero e all'Isonzo. Da quel fronte
dilagarono gli Ostrogoti di Teodorico, i Longobardi di Alboino... Da lì
passarono anche Avari (ne scrisse Paolo Diacono in pagine che ancor oggi fanno
rabbrividire), Magiari, Slavi e via continuando, mentre il Mezzogiorno era
preda di “saraceni”, la Sicilia dominio arabo e gli abitanti della Sardegna
lasciavano le indifendibili coste per arroccarsi tra i sassi, nuragici nei
millenni.
Dopo il saccheggio di Montecassino e di
Ostia, Roma si chiuse nelle Mura Leonine, un cerchio modestissimo rispetto alle
maestose Aureliane: dà la misura di come si fosse ridotta la Caput Mundi. I
Bizantini avevano fermato gli Ostrogoti con la guerra logorante capitanata da
Narsete e Belisario: un rullo compressore sulla popolazione che ne fece le
spese. L'Italia meridionale venne ridotta a macerie desolanti. Ma Bisanzio
aveva altre priorità: difendere il suo settentrione dalle popolazioni
“barbariche”, spingendole verso ovest. Più ne andavano alla volta di Italia,
Gallia, penisola iberica, meno ne insidiavano il confine settentrionale.
Inoltre la missione di Costantinopoli era ormai fermare l'avanzata degli arabi,
dell'islam, che in mezzo secolo aveva soggiogato l'intera Africa settentrionale
e la Spagna meridionale, aveva fatto irruzione in “Francia” (fu fermata a Poitiers)
e dove arrivava faceva il deserto. Massacri come ancora oggi ne avvengono in
molti paesi lacerati da diverse “osservanze” islamiche e come in Europa accadde nei secoli passati.
Neppure Carlo Magno poté eliminarne la
minaccia mortale. Annientò spietatamente Avari e Sassoni e si spinse a Roma per
la sua incoronazione: Sacro romano imperatore. Senza Roma non c'era Corona
imperiale. Ma il suo impero andò in frantumi e nell'Italia centro-meridionale
il caos rimase più o meno qual era. Un secolo e mezzo dopo (centocinquant'anni
voglion dire almeno cinque generazioni dell'epoca) furono Ottone I di Sassonia
e i suoi immediati successori (figlio e nipote) a ridare splendore all'Impero,
comunemente detto “Germanico”. Nel frattempo gli Ungari erano arrivati in Lombardia,
i Saraceni avevano incendiato Torino, le coste erano di chi ci arrivava.
Berengario del Friuli, Ugo di Provenza, Berengario d'Ivrea avevano alzato le
insegne di “re d'Italia”. Ma fu appunto Ottone I a farsi incoronare Sacro
Romano Imperatore e ad affrontare il vero pegno: la liberazione del Mezzogiorno
d'Italia dagli islamici, quali ne fossero i referenti “politici”, d'Oltremare e
d'entro terra, collusi. Il progetto aveva un'unica soluzione: il patto di ferro
con Bisanzio, il fronte comune della cristianità. Nel 966 Ottone I fece
incoronare suo figlio “collega nell'impero” (come avveniva nei migliori tempi
della Romanità) e gli ottenne in sposa la bizantina Teofano (972). Era il sogno
di un nuovo corso per lo spazio euro-mediterraneo: l'unità contro gli
assedianti. Ottone II si espose in prima persona. Nella battaglia navale di
Capo Cotrone (Rossano, in Calabria) venne sconfitto (982). Si salvò a nuoto.
Morì tre anni dopo mentre preparava una nuova offensiva per liberare il
Mezzogiorno dagli islamici e un'altra per respingere gli Slavi sul confine
orientale. Il figlio, Ottone III (980-1002), su impulso del suo maestro,
Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), annunciò la Renovatio Imperii
Romanorom, incardinata sul primato della Città Eterna. Con tutto il
rispetto che si deve loro, tra i vari pretendenti “locali”, precedenti e
successivi, alla corona d'Italia (è il caso del meritorio Arduino d'Ivrea, una
tantum episcopicida), l'unico a pensare e a parlare in termini
autenticamente universali, “romani”, fu proprio il sassone-bizantino Ottone III
di Sassonia.
Gli Staufen: impero italo-germanico
“fronte Sud”.
Ci volle un altro secolo e mezzo prima che le
insegne dell'Impero tornassero a guidare l'”idea” di Roma. Dopo le logoranti
dispute sull’investitura dei vescovi-conti (chiusa con il concordato di Worms
nel 1122 a vantaggio di “Piero” (come nell'Ottocento scrivevano Antonio
Fusinato e Carducci), oggettivamente alternativo a Cesare). Avvenne con
Federico I di Svevia (1152-1190). L'imperatore in Italia ha goduto di pessima
fama, per la sua lunga lotta contro i comuni, sette secoli dopo assunta quale
alba del Risorgimento e della lotta per l'indipendenza nazionale. La
“propaganda” capovolse la storia. Vi concorsero Massimo d'Azeglio, quando
ancora si dedicava alla pittura e alla narrativa, e l'abate di Montecassino,
Luigi Tosti, primo “storico” della Lega Lombarda. La realtà è del tutto
diversa. All'epoca di Federico Barbarossa da mezzo secolo erano iniziate le
crociate, la conquista della Terra Santa, poco gradita a Bisanzio. “Oltremare”
l'Europa occidentale mostrò tutti i suoi limiti. I re di Francia, Inghilterra e
altri insigni “capitani” (Corrado di Monferrato) mirarono al proprio interesse.
Gli “stati” sorti dalle crociate ebbero piedi di argilla. Anche gli Ordini
religioso-cavallereschi, dai Gerosolimitani ai Templari stessi, non ebbero un
vero progetto unitario. Gli unici a “pensare in grande” rimasero Federico I e
suo nipote, Federico II di Svevia, sepolto nella cattedrale di Palermo: sintesi
della forza militare dei Normanni, della Germania e della Romanità. L'Impero
era anzitutto l'Italia. E fu in Italia che si consumarono le battaglie
decisive: la sconfitta di Re Enzo, catturato e imprigionato a vita, di
Manfredi, morto in battaglia, e di Corradino di Svevia, decapitato su ordine
del francese Carlo d'Angiò. Il nuovo re di Napoli era forse un difensore
dell'idea di Italia? Federico II Staufen, che indossando la dalmatica ascoltava
messa sfogliando il Corano, e i suoi discendenti erano forse “tedeschi” o
uomini “universali”? Va aggiunto che, coperti sul fianco dall'attivismo
mediterraneo di Federico II, i cristiani di Spagna poterono accelerare la
riconquista.
Dante Alighieri per Arrigo VII di Lussemburgo
L'idea di Sacro Romano Impero sopravvisse alla
catastrofe della Casa di Svevia. Ne scrisse Dante Alighieri, che sperò nella
“missione” dello sfortunato Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 2021 quale “Dante”
verrà narrato? Come osservò Carducci quando rifiutò la “cattedra dantesca”
propostagli da Francesco Crispi e da Adriano Lemmi, gran maestro del Grande
Oriente d'Italia, Alighieri pensava in “medievale”: Impero e Papato. Duecento
anni dopo, al termine delle catastrofiche guerre franco-ispaniche per
l'egemonia sull'Europa, l'Italia finì sotto dominio germanico per interposta
Spagna, da Carlo V d'Asburgo e suoi successori, sino a Filippo V di Borbone.
Preda della riforma scatenata da Martin Lutero, degli evangelici seguaci di
Calvino e di altri turbamenti psico-sociali con paramenti religiosi dottrinari (anabattisti,
ecc.), la Germania uscì di scena. La Guerra dei Trent'anni la polverizzò. In
Italia nessuno se ne occupò più. Imperatore lontano (e irrilevante), briglie
sciolte. A riportare i germanofoni in Italia furono le Guerre di Successione
del Settecento. Torino fu salvata da Eugenio di Savoia, che non giunse da solo
contro le truppe francesi ma con corpi di élite dell'Impero. Nel 1714 Lombardia
e regno di Napoli passarono a Vienna. Dopo vari cambi di dinastie, all'epoca
usuali, i Borbone ebbero il Mezzogiorno e Parma-Piacenza. Vienna dominò Milano,
il Granducato di Toscana e Modena. Venezia ormai sprofondava nell'ozio. Mentre
Parigi proteggeva i “lumi”anticlericali e libertini lo Stato pontificio aveva
nei cattolici Asburgo l'unico vero baluardo. Maria Teresa d'Asburgo ancora oggi
è venerata quale sovrana più illuminata di Voltaire. Suo marito, il pacatissimo
Francesco Stefano di Lorena, pur massone, altrettanto.
La Rivoluzione del 1789 e la successiva età
franco-napoleonica sconvolsero i punti cardinali. In riposta agli equilibri imposti dal Congresso
di Vienna (1815) e dalla Santa Alleanza i “patrioti” italiani furono naturaliter
antiasburgici, da Federico Confalonieri, iniziato massone dal fratello del re
d'Inghilterra, a Silvio Pellico. Nacque confusione tra Vienna e la Germania, a
sua volta divisa tra “grande” e “piccola”. Presto dimenticato il capolavoro di
Madame de Stael, De l'Allemagne, la letteratura risorgimentale fu
compattamente antitedesca, per l'arbitraria identificazione tra lingua, nazione
e potere politico (e “sangue” o “razza”, come al tempo di diceva). Nel
famoso “Sant'Ambrogio” Giuseppe Giusti
inneggiò ai croati, “Povera gente! Lontana da' suoi,/ in un paese che qui le
vuol male”. Non prevedeva affatto che l'Impero d'Austria (non più Sacro e
Romano) era l'unico freno contro gli appetiti atavici di popoli che, appena
l'avessero potuto, avrebbero fatto di più e di peggio a danni degli altri, a
cominciare dagli slavi, del nord e del sud.
Superfluo ricordare che l'Italia deve Venezia
alla vittoria della Prussia sull'Austria nel 1866, quando purtroppo essa
dovette registrare un insuccesso a Custoza e una sconfitta a Lissa. Dopo la
vittoria su Napoleone III a Sedan e la proclamazione dell'Impero di Germania
nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles (gennaio 1871), grati per
la neutralità dell'anno precedente i Kaiser visitarono ripetutamente i Re
d'Italia a Roma. Anche senza il colpo di mano francese su Tunisi (1881) la
linea era chiara. L'aveva anticipata Francesco Crispi in visita a Bismarck nel
1877, mentre maturava l'intesa dei Tre Imperatori (Berlino, Vienna, San
Pietroburgo) contro l'anarchia e la repubblicanizzazione” dell'Europa, di
impronta francese.
La seconda metà dell'Ottocento fu la stagione
d'oro dell'amicizia italo-germanica. Da Oltralpe in Italia giunsero filosofia e
scienze, tecnica e filologia... Mommsen e Gregorovius rinnovarono alla radice
gli studi di romanistica e medievistica. Carducci imparava il tedesco dal
veneziano Emilio Teza. I politici italiani di spicco capirono bene che la
Germania era la garanzia contro ogni rivalsa offensiva di Vienna ai danni
dell'Italia; e Roma si concesse il lusso di tener le distanze da Parigi, di
liberarsi dalla francofilia d'età risorgimentale. Giolitti proseguì nel solco
di Crispi. Non si lasciò mai intenerire da Vienna. Ammirò invece la Germania di
Bernhard von Bulow, ove il socialismo riformistico prosperava all'ombra
dell'industrializzazione e della modernizzazione della vita quotidiana: un
modello per l'Italia, ancora così diversificata al suo interno.
I voltafaccia del Novecento
e le loro ripercussioni sul presente
La catastrofe venne con la firma dell'arrangement
di Londra del 26 aprile 1915, che impegnò Roma a entrare in guerra entro trenta
giorni contro tutti i nemici dell'Intesa. Il governo Salandra-Sonnino
aveva qualche fondato argomento per combattere la duplice monarchia asburgica.
Non ne aveva alcuno di veramente credibile per dichiarare guerra alla Germania:
nessun contenzioso territoriale, economico, né gare nei domini coloniali. Le
motivazioni addotte dal governo Boselli nell'agosto 1916, redatte in tre
diverse versioni, furono e rimangono sconcertanti per la loro fatuità.
Iniziò così quella nuova “guerra dei
trent'anni” che dal 1938 vide Roma sempre più appiattita sulla strategia
politico-militare del Terzo Reich germanico di Hitler, rafforzato
dall'annessione dell'Austria. Ostile contro la perfida Albione dei cinque pasti
al giorno e contro la Francia demo-pluto-massonica e socialista l'Italia di
Mussolini finì per allearsi con il “nemico storico” del secolo precedente.
Tornò a confondere la parte con il tutto, il nazismo con la Germania
millenaria, che era anche civiltà romana, umanesimo, universalità: le
coreografie naziste di Norimberga accecarono tanti italiani, che si proposero
di imitarle.
Ottant'anni dopo sentimenti e risentimenti
continuano a oscurare il giudizio della storiografia. Eppure non dovrebbe
essere difficile capire che l'Italia ha tutto da guadagnare dall'amicizia (sia
pure asimmetrica) con la Germania, proprio per sottrarsi all'invadente
influenza francese sulla sua economia e per contenere la tracotante ostilità
degli Stati sorti dalla disgregazione dell'impero asburgico e della Jugoslavia.
Può bilanciarne l'ambizione a dominare l'Adriatico da Trieste alla Grecia solo
passando per Berlino, su un piano di confronto franco, che lasci alle spalle la
ruggine del recente passato, l'eco di quanti (Luigi Federzoni e un famoso
spretato, capofila del razzismo in Italia) un secolo addietro deploravano l'assalto
tedesco all'Italia per alimentare l'odio contro il “brutale imperialismo
teutonico”.
Meno ancora che nei secoli andati, il
possibile “progetto Italia” del Terzo Millennio non può reggere su fantasie
propagandistiche e promesse illusorie. Deve avere fondamenta nella cultura,
nella capacità produttiva, nella stabilità se non riduzione del debito
pubblico. Diversamente è solo retorica.
Aldo A. Mola
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