NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 23 settembre 2019

No Germania, No Impero


Due millenni di guerre, amicizia, passioni e  rivalse

L'affinità italo-germanica


di Aldo A. Mola


Quando il braidese Giovanni Piumati insegnava italiano a Guglielmo II
Tra Otto e Novecento le relazioni amichevoli tra il Regno d'Italia e l'Impero di Germania raggiunsero l'apice: scambi economici e soprattutto fitto dialogo culturale, con riflessi anche sulle Forze Armate, particolarmente quando Capo di stato maggiore dell'esercito fu Alberto Pollio (Caserta, 1852-Torino, 1914). Filosofi, letterati e artisti italiani erano di casa nelle Università germaniche e a loro volta i sommi studiosi tedeschi si facevano un punto d'onore di dialogare con Giosue Carducci, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, traduttore di Kant. Anche i piemontesi fecero la loro parte. Fra i molti, Giovanni Piumati (Bra, 1850-Viù, 1915), docente di letteratura italiana a Colonia e a Bonn, tenne lezioni di italiano al futuro imperatore Guglielmo II, che, grato e ammirato, lo volle precettore dei figli. Iniziato massone nella prestigiosa loggia “Rienzi” di Roma, Piumati curò l'edizione del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci su mandato dei Lincei e introdusse nella loggia “Cavour” di Torino il concittadino Beniamino Manzone, pioniere della storia del Risorgimento. L'Italia di allora non confondeva Berlino con Vienna: l'irredentismo era una partita aperta esclusivamente con Vienna. Alla Germania, invece, l'Italia doveva Venezia e, indirettamente, Roma, ove Raffaele Cadorna aveva fatto irruzione il 20 settembre 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III a Sédan e la proclamazione della Terza Repubblica a Parigi.
Ma in passato l'immagine della “Germania” non era stato così lineare nella cultura “patriottica” italiana. 
Da Cesare  al Kaiser
“Sta Federico imperatore in Como...”. È l'incipit della “Canzone di Legnano” scritta dall'insuperabile Giosue Carducci nel 1876 e limata sino al 1879. Il “maestro e Vate della Terza Italia” omise che erano i comaschi prima e più che Barbarossa a volere la distruzione di Milano. Già  nel 1872 aveva fatto ammenda anticipata dei suoi successivi e un po' scolastici entusiasmi per il “Carroccio”. In “Su i campi di Marengo” aveva inneggiato alla vittoria sulla “lega lombarda” dell'“imperator romano/ Del divo Giulio erede, e successor di Traiano”. Sentiti “gli squilli/ de le trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po/ in cospetto a l'aquila gli animi ed i vessilli/ d'Italia s'inchinarono e Cesare passò”. Era l'Imperatore. Originariamente duca di Svevia, pacificatore della lunga diatriba tra guelfi e ghibellini, Federico I Staufen, Barbarossa, era il Kaiser, la reincarnazione dell'Imperatore romano. Con la pace di Costanza (1183) egli infine pattuì il modus vivendi tra Sacro romano impero e Comuni. Deposta la veronica di mazziniano e sempre ammiratore di Garibaldi (“Italia e Vittorio Emanuele”), storico e politico ancor più che poeta, Carducci insegnò che il legame tra Italia e Germania non nasce da capricci. È nella storia. È il fulcro dell'Europa. Ma non è l'“asse Roma-Berlino”, errata formula in uso ottant'anni addietro. Nell' epoca evocata da Carducci , l'attuale capitale della Germania era un villaggio insignificante. L'Imperatore, invece, era insegna sacra della grande storia d'Europa, sintesi tra quanto rimaneva della Romanità e la cristianità d'Occidente. 

L'equivoca formula Roma-Berlino. Gli Ottoni e la Renovatio Imperii Romanorum
Roma è l'Italia, Berlino è solo una (e recente) delle tante città importanti dell'arcipelago tedesco, capitale della marca di Brandeburgo dal 1451 (quando in Italia svettavano Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo...) e del regno di Prussia dal 1701, che anticipò di un decennio quello dei Savoia re di Sicilia e poi di Sardegna. La Germania non è la borussica Berlino: è il desiderio millenario dei tedeschi di essere anch'essi Romani. A tutto vantaggio dell'Italia.
Furono Giulio Cesare e Augusto a “cercare” la Germania. Lo sterminio delle legioni comandate da Varo nella selva di Teutoburgo lasciò il segno. Ci riprovò Domiziano nei decenni seguenti, sino a occupare i Campi Decumati, che pochi ricordano. Lì l'Impero romano si fermò e si trincerò, come fece col vallo Adriano fra Britannia e Caledonia e altre difese verso un “nord” che andava arginato con muraglie complete di torri armate. Bastavano truppe scelte anziché costosissime legioni stanziali. Il pericolo per l'Impero romano non arrivava dalla futura Inghilterra né dalla Germania ma da est: Goti, Quadi, Marcomanni e via continuando sino ai Vandali. Il visigoto Alarico, che non aveva nulla a che fare con i teutoni della Germania propriamente detta, penetrò in Italia come un coltello nel burro. Sconfitto da Stilicone a Pollenzo (oggi Cherasco, sul Tanaro, nel Cuneese) e a Verona, nel 410 saccheggiò Roma. Un colpo al cuore non solo dei pagani ma anche dei cristiani. Poi fu la volta di Attila, “re” degli unni, fermato da Enzo con le armi e da papa Leone Magno con lo Spirito. Neppure lui era “tedesco”. Come lo era solo per vago ceppo etnico il goto Genserico, che dall'“Africa” assalì Roma e la devastò una seconda volta nel 455. Infine vennero gli Eruli di Odoacre, che depose Romolo Augustolo. I tedeschi hanno costituito la continuità della Germania. Gli altri popoli erratici nominalmente germanici, ignari di agricoltura, artigianato e di costruzione di  città, sono stati sommersi dalle sabbie del tempo. Quanti tunisini si considerano discendenti di Genserico?  Quanti spagnoli si sentono visigoti o vandali?  
Il ventre molle è là, sulle Alpi Orientali, non sulla linea dalle Marittime al Brennero e all'Isonzo. Da quel fronte dilagarono gli Ostrogoti di Teodorico, i Longobardi di Alboino... Da lì passarono anche Avari (ne scrisse Paolo Diacono in pagine che ancor oggi fanno rabbrividire), Magiari, Slavi e via continuando, mentre il Mezzogiorno era preda di “saraceni”, la Sicilia dominio arabo e gli abitanti della Sardegna lasciavano le indifendibili coste per arroccarsi tra i sassi, nuragici nei millenni.
Dopo il saccheggio di Montecassino e di Ostia, Roma si chiuse nelle Mura Leonine, un cerchio modestissimo rispetto alle maestose Aureliane: dà la misura di come si fosse ridotta la Caput Mundi. I Bizantini avevano fermato gli Ostrogoti con la guerra logorante capitanata da Narsete e Belisario: un rullo compressore sulla popolazione che ne fece le spese. L'Italia meridionale venne ridotta a macerie desolanti. Ma Bisanzio aveva altre priorità: difendere il suo settentrione dalle popolazioni “barbariche”, spingendole verso ovest. Più ne andavano alla volta di Italia, Gallia, penisola iberica, meno ne insidiavano il confine settentrionale. Inoltre la missione di Costantinopoli era ormai fermare l'avanzata degli arabi, dell'islam, che in mezzo secolo aveva soggiogato l'intera Africa settentrionale e la Spagna meridionale, aveva fatto irruzione in “Francia” (fu fermata a Poitiers) e dove arrivava faceva il deserto. Massacri come ancora oggi ne avvengono in molti paesi lacerati da diverse “osservanze” islamiche e  come in Europa accadde nei secoli passati.
Neppure Carlo Magno poté eliminarne la minaccia mortale. Annientò spietatamente Avari e Sassoni e si spinse a Roma per la sua incoronazione: Sacro romano imperatore. Senza Roma non c'era Corona imperiale. Ma il suo impero andò in frantumi e nell'Italia centro-meridionale il caos rimase più o meno qual era. Un secolo e mezzo dopo (centocinquant'anni voglion dire almeno cinque generazioni dell'epoca) furono Ottone I di Sassonia e i suoi immediati successori (figlio e nipote) a ridare splendore all'Impero, comunemente detto “Germanico”. Nel frattempo gli Ungari erano arrivati in Lombardia, i Saraceni avevano incendiato Torino, le coste erano di chi ci arrivava. Berengario del Friuli, Ugo di Provenza, Berengario d'Ivrea avevano alzato le insegne di “re d'Italia”. Ma fu appunto Ottone I a farsi incoronare Sacro Romano Imperatore e ad affrontare il vero pegno: la liberazione del Mezzogiorno d'Italia dagli islamici, quali ne fossero i referenti “politici”, d'Oltremare e d'entro terra, collusi. Il progetto aveva un'unica soluzione: il patto di ferro con Bisanzio, il fronte comune della cristianità. Nel 966 Ottone I fece incoronare suo figlio “collega nell'impero” (come avveniva nei migliori tempi della Romanità) e gli ottenne in sposa la bizantina Teofano (972). Era il sogno di un nuovo corso per lo spazio euro-mediterraneo: l'unità contro gli assedianti. Ottone II si espose in prima persona. Nella battaglia navale di Capo Cotrone (Rossano, in Calabria) venne sconfitto (982). Si salvò a nuoto. Morì tre anni dopo mentre preparava una nuova offensiva per liberare il Mezzogiorno dagli islamici e un'altra per respingere gli Slavi sul confine orientale. Il figlio, Ottone III (980-1002), su impulso del suo maestro, Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), annunciò la Renovatio Imperii Romanorom, incardinata sul primato della Città Eterna. Con tutto il rispetto che si deve loro, tra i vari pretendenti “locali”, precedenti e successivi, alla corona d'Italia (è il caso del meritorio Arduino d'Ivrea, una tantum episcopicida), l'unico a pensare e a parlare in termini autenticamente universali, “romani”, fu proprio il sassone-bizantino Ottone III di Sassonia.
Gli Staufen: impero italo-germanico “fronte Sud”.
Ci volle un altro secolo e mezzo prima che le insegne dell'Impero tornassero a guidare l'”idea” di Roma. Dopo le logoranti dispute sull’investitura dei vescovi-conti (chiusa con il concordato di Worms nel 1122 a vantaggio di “Piero” (come nell'Ottocento scrivevano Antonio Fusinato e Carducci), oggettivamente alternativo a Cesare). Avvenne con Federico I di Svevia (1152-1190). L'imperatore in Italia ha goduto di pessima fama, per la sua lunga lotta contro i comuni, sette secoli dopo assunta quale alba del Risorgimento e della lotta per l'indipendenza nazionale. La “propaganda” capovolse la storia. Vi concorsero Massimo d'Azeglio, quando ancora si dedicava alla pittura e alla narrativa, e l'abate di Montecassino, Luigi Tosti, primo “storico” della Lega Lombarda. La realtà è del tutto diversa. All'epoca di Federico Barbarossa da mezzo secolo erano iniziate le crociate, la conquista della Terra Santa, poco gradita a Bisanzio. “Oltremare” l'Europa occidentale mostrò tutti i suoi limiti. I re di Francia, Inghilterra e altri insigni “capitani” (Corrado di Monferrato) mirarono al proprio interesse. Gli “stati” sorti dalle crociate ebbero piedi di argilla. Anche gli Ordini religioso-cavallereschi, dai Gerosolimitani ai Templari stessi, non ebbero un vero progetto unitario. Gli unici a “pensare in grande” rimasero Federico I e suo nipote, Federico II di Svevia, sepolto nella cattedrale di Palermo: sintesi della forza militare dei Normanni, della Germania e della Romanità. L'Impero era anzitutto l'Italia. E fu in Italia che si consumarono le battaglie decisive: la sconfitta di Re Enzo, catturato e imprigionato a vita, di Manfredi, morto in battaglia, e di Corradino di Svevia, decapitato su ordine del francese Carlo d'Angiò. Il nuovo re di Napoli era forse un difensore dell'idea di Italia? Federico II Staufen, che indossando la dalmatica ascoltava messa sfogliando il Corano, e i suoi discendenti erano forse “tedeschi” o uomini “universali”? Va aggiunto che, coperti sul fianco dall'attivismo mediterraneo di Federico II, i cristiani di Spagna poterono accelerare la riconquista.

Dante Alighieri per Arrigo VII di Lussemburgo
L'idea di Sacro Romano Impero sopravvisse alla catastrofe della Casa di Svevia. Ne scrisse Dante Alighieri, che sperò nella “missione” dello sfortunato Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 2021 quale “Dante” verrà narrato? Come osservò Carducci quando rifiutò la “cattedra dantesca” propostagli da Francesco Crispi e da Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Alighieri pensava in “medievale”: Impero e Papato. Duecento anni dopo, al termine delle catastrofiche guerre franco-ispaniche per l'egemonia sull'Europa, l'Italia finì sotto dominio germanico per interposta Spagna, da Carlo V d'Asburgo e suoi successori, sino a Filippo V di Borbone. Preda della riforma scatenata da Martin Lutero, degli evangelici seguaci di Calvino e di altri turbamenti psico-sociali con paramenti religiosi dottrinari (anabattisti, ecc.), la Germania uscì di scena. La Guerra dei Trent'anni la polverizzò. In Italia nessuno se ne occupò più. Imperatore lontano (e irrilevante), briglie sciolte. A riportare i germanofoni in Italia furono le Guerre di Successione del Settecento. Torino fu salvata da Eugenio di Savoia, che non giunse da solo contro le truppe francesi ma con corpi di élite dell'Impero. Nel 1714 Lombardia e regno di Napoli passarono a Vienna. Dopo vari cambi di dinastie, all'epoca usuali, i Borbone ebbero il Mezzogiorno e Parma-Piacenza. Vienna dominò Milano, il Granducato di Toscana e Modena. Venezia ormai sprofondava nell'ozio. Mentre Parigi proteggeva i “lumi”anticlericali e libertini lo Stato pontificio aveva nei cattolici Asburgo l'unico vero baluardo. Maria Teresa d'Asburgo ancora oggi è venerata quale sovrana più illuminata di Voltaire. Suo marito, il pacatissimo Francesco Stefano di Lorena, pur massone, altrettanto.
La Rivoluzione del 1789 e la successiva età franco-napoleonica sconvolsero i punti cardinali. In  riposta agli equilibri imposti dal Congresso di Vienna (1815) e dalla Santa Alleanza i “patrioti” italiani furono naturaliter antiasburgici, da Federico Confalonieri, iniziato massone dal fratello del re d'Inghilterra, a Silvio Pellico. Nacque confusione tra Vienna e la Germania, a sua volta divisa tra “grande” e “piccola”. Presto dimenticato il capolavoro di Madame de Stael, De l'Allemagne, la letteratura risorgimentale fu compattamente antitedesca, per l'arbitraria identificazione tra lingua, nazione e potere politico (e “sangue” o “razza”, come al tempo di diceva). Nel famoso  “Sant'Ambrogio” Giuseppe Giusti inneggiò ai croati, “Povera gente! Lontana da' suoi,/ in un paese che qui le vuol male”. Non prevedeva affatto che l'Impero d'Austria (non più Sacro e Romano) era l'unico freno contro gli appetiti atavici di popoli che, appena l'avessero potuto, avrebbero fatto di più e di peggio a danni degli altri, a cominciare dagli slavi, del nord e del sud.
Superfluo ricordare che l'Italia deve Venezia alla vittoria della Prussia sull'Austria nel 1866, quando purtroppo essa dovette registrare un insuccesso a Custoza e una sconfitta a Lissa. Dopo la vittoria su Napoleone III a Sedan e la proclamazione dell'Impero di Germania nel Salone degli Specchi del Castello di Versailles (gennaio 1871), grati per la neutralità dell'anno precedente i Kaiser visitarono ripetutamente i Re d'Italia a Roma. Anche senza il colpo di mano francese su Tunisi (1881) la linea era chiara. L'aveva anticipata Francesco Crispi in visita a Bismarck nel 1877, mentre maturava l'intesa dei Tre Imperatori (Berlino, Vienna, San Pietroburgo) contro l'anarchia e la repubblicanizzazione” dell'Europa, di impronta francese.
La seconda metà dell'Ottocento fu la stagione d'oro dell'amicizia italo-germanica. Da Oltralpe in Italia giunsero filosofia e scienze, tecnica e filologia... Mommsen e Gregorovius rinnovarono alla radice gli studi di romanistica e medievistica. Carducci imparava il tedesco dal veneziano Emilio Teza. I politici italiani di spicco capirono bene che la Germania era la garanzia contro ogni rivalsa offensiva di Vienna ai danni dell'Italia; e Roma si concesse il lusso di tener le distanze da Parigi, di liberarsi dalla francofilia d'età risorgimentale. Giolitti proseguì nel solco di Crispi. Non si lasciò mai intenerire da Vienna. Ammirò invece la Germania di Bernhard von Bulow, ove il socialismo riformistico prosperava all'ombra dell'industrializzazione e della modernizzazione della vita quotidiana: un modello per l'Italia, ancora così diversificata al suo interno.

I voltafaccia del Novecento e le loro ripercussioni sul presente
La catastrofe venne con la firma dell'arrangement di Londra del 26 aprile 1915, che impegnò Roma a entrare in guerra entro trenta giorni contro tutti i nemici dell'Intesa. Il governo Salandra-Sonnino aveva qualche fondato argomento per combattere la duplice monarchia asburgica. Non ne aveva alcuno di veramente credibile per dichiarare guerra alla Germania: nessun contenzioso territoriale, economico, né gare nei domini coloniali. Le motivazioni addotte dal governo Boselli nell'agosto 1916, redatte in tre diverse versioni, furono e rimangono sconcertanti per la loro fatuità.
Iniziò così quella nuova “guerra dei trent'anni” che dal 1938 vide Roma sempre più appiattita sulla strategia politico-militare del Terzo Reich germanico di Hitler, rafforzato dall'annessione dell'Austria. Ostile contro la perfida Albione dei cinque pasti al giorno e contro la Francia demo-pluto-massonica e socialista l'Italia di Mussolini finì per allearsi con il “nemico storico” del secolo precedente. Tornò a confondere la parte con il tutto, il nazismo con la Germania millenaria, che era anche civiltà romana, umanesimo, universalità: le coreografie naziste di Norimberga accecarono tanti italiani, che si proposero di imitarle.
Ottant'anni dopo sentimenti e risentimenti continuano a oscurare il giudizio della storiografia. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che l'Italia ha tutto da guadagnare dall'amicizia (sia pure asimmetrica) con la Germania, proprio per sottrarsi all'invadente influenza francese sulla sua economia e per contenere la tracotante ostilità degli Stati sorti dalla disgregazione dell'impero asburgico e della Jugoslavia. Può bilanciarne l'ambizione a dominare l'Adriatico da Trieste alla Grecia solo passando per Berlino, su un piano di confronto franco, che lasci alle spalle la ruggine del recente passato, l'eco di quanti (Luigi Federzoni e un famoso spretato, capofila del razzismo in Italia) un secolo addietro deploravano l'assalto tedesco all'Italia per alimentare l'odio contro il “brutale imperialismo teutonico”.
Meno ancora che nei secoli andati, il possibile “progetto Italia” del Terzo Millennio non può reggere su fantasie propagandistiche e promesse illusorie. Deve avere fondamenta nella cultura, nella capacità produttiva, nella stabilità se non riduzione del debito pubblico. Diversamente è solo retorica.                                                             Aldo A. Mola

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