Sul sito di Re Umberto II l'ultimo aggiornamento del 2016.
Una breve intervista del 1948.
www.reumberto.it
A tutti i visitatori i più cordiali auguri di Buon Natale!

NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.
venerdì 23 dicembre 2016
mercoledì 21 dicembre 2016
Monarchia Sociale e Comunità Nazionale
Mozione della corrente di Sinistra Sociale al II Congresso Nazionale
del
Partito Nazionale Monarchico
IL II CONGRESSO NAZIONALE DEL PARTITO NAZIONALE MONARCHICO
AFFERMA

2) che in tale gravissima situazione economico-sociale, come
nelle speculazioni propagandistiche e demagogiche cui essa offre facilissime e
numerosissime occasioni, è da ricercarsi la prima e principalissima causa del
progressivo dilatarsi dell'elettorato social-comunista, onde il problema dei
progressi del Comunismo in Italia è problema che non può risolversi se non
dopo, o almeno contemporaneamente, a quello posto dal prepotere capitalistico e
dalla necessità di infrenarlo, ed a risolvere il problema del Comunismo non
tanto possono valere restrizioni delle libertà democratiche e misure di polizia
- che anzi lo esasperano - quanto può e deve valere una direzione della Cosa
Pubblica che sia sollecita a risolvere i problemi economici e sociali pendenti,
ed a risolverli in spirito di solidarietà nazionale e di giustizia sociale,
pronta ad attuare le necessarie riforme di struttura così in alcuni settori
dell'amministrazione statale come nell'apparato produttivo della Nazione e
nelle leggi che lo regolano, ed aperta ad un leale operante colloquio con tutte
le categorie produttrici e lavoratrici, senza pregiudiziali classiste e
possibilmente al di fuori di qualsiasi interposizione di partiti politici e dei
loro particolaristici interessi;
3) che il PNM - fedele interprete delle tradizioni nazionali
e sociali della Monarchia risorgimentale di Casa Savoia, e geloso custode degli
interessi perenni e degli auspici futuri dell'Istituto Monarchico, i quali non
possono essere legati né a transeunti situazioni istituzionali né agli
interessi di classi e di forze economico sociali che già una volta lo
tradirono, e che non rispondono al comune interesse della Nazione - deve rivendicare
a se stesso, coraggiosamente ed energicamente, l'iniziativa politica e
legislativa di quella riconversione della vita economico-sociale della Comunità
nazionale italiana che risponde insieme alla obiettiva situazione di fatto - e
ad una urgenza di giustizia sociale e di solidarietà nazionale, e che può
tuttora venire effettuata, nella collaborazione di tutte le forze sanamente operanti,
su fondamenta nazionali, cristiane e popolari.
E PERTANTO AFFIDA AGLI ORGANI CHE IL CONGRESSO ELEGGERA' ALLA
RESPONSABILITA' DI GUIDARE IL PARTITO ED Al SUOI GRUPPI PARLAMENTARI IL PRECISO
MANDATO DI ATTUARE IL COMPITO COSI’RIVENDICATO Al. PNM IN NOME DELLA NAZIONE E
DELLA CAUSA, ASSUMENDO, CON LE CONSEGUENTI POSIZIONI POLITICHE E PARLAMENTARI,
UNA LINEA SOCIALE ED ECONOMICA LA QUALE CONDUCA:
Alla attuazione di una politica sociale decisa e realistica
che senza tergiversazioni né infingimenti, predisponga i mezzi ed i sistemi
necessari per effettuare una più equa ripartizione proporzionale del reddito (patrimoniale,
di lavoro, professionale) secondo funzioni, capacità e rendimento, attribuendo
così a ciascun partecipante alla Comunità nazionale la quota attribuibile a
seconda della sua funzione o posizione sociale di proprietario, di tecnico, di
professionista, di lavoratore, di indigente, di invalido, di vecchio, e così
che tale quota ,sia per ciascuno - e per ciascun nucleo familiare, non mai inferiore al minimo vitale necessario.
RIFORMA FISCALE
Pertanto:
A) Nella strutturazione del sistema fiscale occorre invertire
l'attuale situazione di preminenza tra imposte indirette e le dirette,
riservando il maggior gettito fiscale alla imposizione diretta, che colpisca i
redditi in scala progressiva, senza pero intaccare né il capitale da cui il
reddito deriva, né quelle quote di reddito delle quali si possa dimostrare l’utilizzazione
diretta in nuovi investimenti produttivi ed in una espansione
delle occasioni di lavoro. Nel
nuovo ordinamento della imposizione diretta occorre altresì riformare, oltre ai
metodi di accertamento che devono essere sempre ispirati alla lealtà tra
contribuente e Fisco, ed alle aliquote che devono essere realisticamente non
confiscatrici, la attuale proporzione, iniquamente squilibrata, tra l'imposizione
che colpisce i redditi dell'agricoltura - esosamente chiamati a sopportare un
- carico confiscatore - e quella che dovrebbe colpire i redditi degli affari
finanziari ed i redditi industriali, conservando, anche a questo scopo, la
nominatività dei titoli azionari. Nella riduzione della imposizione indiretta,
occorre (provvedendo a concedere un'altra area fiscale ai Comuni ed a
concederne una alle Provincie per l'assolvimento dei loro compiti) avere soprattutto
di mira la riduzione delle imposte di consumo, e l'abolizione di quelle tra
esse che gravano sui consumi popolari più diffusi insieme che su prodotti
fondamentali della nostra economia agricola o artigiana. Gli stessi problemi si
pongono per l’IGE.
domenica 18 dicembre 2016
Torino: in mostra 'Le Meraviglie di Casa Savoia'
Fino al 2 aprile, una mostra espone il patrimonio artistico di Carlo Emanuele I
La storia di questa mostra parte da
molto lontano, e precisamente dal 1580, quando al trono dei duchi di Savoia
salì Carlo Emanuele I detto "Il Grande", figlio di Emanuele Filiberto
di Savoia e di Margherita di Valois, figlia di Francesco I re di Francia.
Questi, una volta salito al trono, nel proseguire l'opera riformatrice avviata
dal padre, trasferì la capitale del regno sabaudo da Chambéry a Torino,
contribuendo a rendere questa città punto focale dello sviluppo artistico e
culturale italiano.
Carlo Emanuele I si dimostrò da
subito un regnante appassionato, un lettore vorace, un mecenate e un collezionista
spasmodico di opere d'Arte e di scienza. In oltre cinquant'anni di regno
trasformò il volto di Torino, rendendola una città in grado di competere per
corte e sfarzo con le altre capitali dei principati europei, e finanziando
pittori, scultori, letterati, scienziati e alchimisti.
Per valorizzare questo lascito,
raro e unico, i Musei Reali, il MIBACT, la Compagnia di San Paolo e la Consulta
per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino e altri enti
cittadini hanno deciso di riunire per la prima volta opere provenienti da vari
musei - nazionali e non - al fine di mostrare le meraviglie di
quest'eccezionale collezione.
Allestita fino al 2 aprile alla
Galleria Sabauda e alla Biblioteca Reale, la mostra espone dipinti, acquerelli,
statue, ritratti, armi antiche, libri e curiosità che lasciano lo spettatore
affascinato e colpito dalla finezza e dalla chiara selezione e gusto artistico
e di passione che traspare dalla ricerca di una continuità stilistica e
storiografica.
Curata da Annamaria Bava, Anna
Pagella, con la collaborazione di Giovanni Saccani e Gabriella Pantò, "Le
Meraviglie di Casa Savoia" è una mostra che in sé contiene alcuni elementi
eccezionali e rari, come una curatela intelligente, una selezione di opere mai
riunite in un solo corpus, corredata da un fitto calendario di visite e
approfondimenti che mostra un lato della città sabauda ancora poco conosciuto o
ignorato.
sabato 17 dicembre 2016
UN FRANCOBOLLO PER FRANCESCO GIUSEPPE
di Domenico Giglio, presidente del Circolo Rex
Il
turismo oggi è, quasi
ovunque, un elemento non
trascurabile di “entrate”
per cui bisogna
sfruttare le occasione che la storia o l’attualità ci propongono.
Ora per l’Austria, il 2016 è
il centenario della
morte dell’Imperatore Francesco Giuseppe, mancato il 21
novembre 1916, dopo 68
anni di regno. Perciò
a Vienna sono
state aperte quattro mostre, in
luoghi legati alla
figura dell’imperatore, cominciando
dallo splendido palazzo di Schonbrunn, con il suo parco e l’aereo porticato della “gloriette”, dove Francesco Giuseppe aveva vissuto,
in una
semplice cameretta, dopo essere
rimasto vedovo, e lavorato, ad
una modesta scrivania, fino all’ultimo giorno della
sua lunga vita, da
“primo” impiegato dell’ Impero, e dove, purtroppo, per lui, per
la sua Casata, e
per l’Europa tutta, aveva
firmato il 28
luglio 1914, la sciagurata
dichiarazione di guerra
alla Serbia. Grandi motivi
di celebrazione non
vi sarebbero stati, ma
l’attrattiva data dalla figura
ben nota di
questo vecchio signore,
ancora alto, anche se
leggermente incurvato, snello,
elegante nelle vecchie colorate divise dell’esercito asburgico, hanno appunto dato
motivo a queste mostre che
hanno rafforzato il
ruolo turistico di
Vienna, già ricca di
attrazione dal Ring sul
quale si affacciano
i grandi e maestosi
palazzi del Parlamento , l’ Opera, il Rathaus, i
Musei, alla Hofburg, poi alle grandi
Chiese, al “Belvedere”, il palazzo del Principe
Eugenio di Savoia, una
delle più belle
ed eleganti residenze
principesche dell’Europa ed
infine al suo Danubio, che nella
memoria collettiva, è sempre “blu”.
Ma oltre alla mostre, per i
filatelici, vi è stata
l’emissione, ad agosto, di un
francobollo da 0,80, recante
l’effigie dell’ Imperatore, e le
semplici date “1830-1916”, il che è
significativo, in quanto l’Austria
è una repubblica
dal 1918 e
ricordare un Sovrano
della Casa degli
Asburgo è un
segno di sensibilità
storica e di
rispetto per il
passato, elementi
fondamentali della nostra
civiltà, che ha secoli
e secoli di vita
e dove, invece, la
cancellazione di parte
della storia, rivela complessi
di inferiorità, termine più
che benevolo per
non usarne altri. Ed
è, sempre filatelicamente ,
da notare come
nel 2014, le
poste austriache, abbiano ricordato , con l’emissione
di un bellissimo
“foglietto”, contenente due francobolli, uno con
l’effigie dell’Arciduca Ereditario,
Francesco Ferdinando, l’altro con
la effigie della
sua consorte “morganatica”, Sofia Chotek, il
loro assassinio a
Serajevo, il 28 giugno
1914, data tragica non
solo perl’imperoaustro-ungarico,
ma per
tutta l’Europa, essendo stata
la scintilla che
fece scoppiare la
Grande Guerra, o Prima
Guerra Mondiale.
I
confronti sono sempre
polemici, ma sono i
fatti che parlano. In
Italia le poste , salvo
nel 2002 la
Regina Elena, non hanno
mai ricordato né nel 1950, cinquantenario, né in
epoche successive, l’assassinio di
un suo Sovrano, Umberto I, né dopo
25 o 30
anni, la morte di
Umberto II, mancato nel
1983, né hanno mai
ricordato la prima
Regina d’Italia, Margherita di
Savoia, dal lontano 1926, data
della sua scomparsa, né
nel cinquantenario, né successivamente, anche quando
due anni fa
diversi circoli,
associazioni e comuni, avevano fatto
ufficiale richiesta al
competente ministero, di un
francobollo per il
novantesimo anniversario del
2016, come pure, quest’anno, ricorrendo
il settantacinquesimo anniversario
della morte in prigionia, a
Nairobi, del Duca Amedeo di
Savoia, malgrado la domanda
motivata, illustrante la nobile
figura di questo
principe, inviata da circoli
ed associazioni combattentistiche e d’arma, le poste non
hanno accolto la richiesta, dell’emissione di
un francobollo commemorativo, preferendo ricordare
altre persone ed
altri temi sui
quali il tacere
è bello .
lunedì 12 dicembre 2016
"Le schede truccate del referendum del '46, mio padre vide tutto"
Parla il figlio del brigadiere testimone dei brogli
Pacchi su pacchi di schede: «Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia». Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull'Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia.
Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni. Era la notte del 4 giugno del 1946, e i risultati del referendum non erano stati ancora annunciati, ma la voce nei palazzi romani già girava: vittoria alla Repubblica, Umberto II si preparava all'esilio di Cascais. Di ombre su quel risultato si è sempre parlato.
Ma ora, a settant'anni di distanza, arriva il ricordo di un testimone oculare dei brogli. Tommaso Beltotto allora aveva venticinque anni, e già alle spalle una vita intensa. Controfirmò la relazione del duca Giovanni Riario Sforza, comandante in capo dei corazzieri reali, con la descrizione minuziosa di quei sacchi nelle cantine del Viminale. E proseguì la sua vita da carabiniere.
Sono passati settant'anni, Beltotto è morto nel 2001. Di quei sacchi non ha più parlato, se non in famiglia. Oggi è suo figlio Gianpiero a raccontare in presa diretta al Giornale l'immagine quasi fotografica del referendum truccato, così come riferita da suo padre. A cosa dovessero servire quei sacchi di schede truccate, Beltotto non lo sapeva, e non lo sappiamo noi oggi: erano già state conteggiate come vere, o dovevano servire in caso di bisogno per ribaltare un risultato sgradito? Di sicuro, erano la prova concreta di un referendum fasullo.
Suo padre si era scandalizzato? «Era un uomo concreto, realista. Semplicemente, quando in televisione o sui giornali qualcuno ipotizzava brogli nel referendum del 1946, sorrideva: c'è poco da ipotizzare, i brogli li ho visti con i miei occhi».
[....]
domenica 11 dicembre 2016
Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia
Elena
Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica
"resistenziale"
Francesco
Perfetti
Sabato
10 dicembre 2016
La
notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della
Divisione di fanteria Acqui, comandati dal Generale Antonio Gandin, nel tardo
pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle
Nazioni Unite.
Fu
accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere
per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione
che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni
sull'atteggiamento da assumere, consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e
resistere all'ultimatum dell'ex alleato, i militari della Acqui furono
impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si
conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della Divisione,
una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno
degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a
Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati,
il numero esatto è controverso, senza alcun processo e in aperta violazione di
ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e
del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento»
italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di
ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga
dove il Generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage
deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è
una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano
regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole
e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a
considerazione umana e a trattamento cavalleresco».
Elena
Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio,
il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle
vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al
tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari
italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una
«memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo,
che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio
dell'indagine, un punto fermo nella storiografia.
La
«mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso
pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del
1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi poi, celebrarono l'episodio
come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come
osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare
momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto
di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul
piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando
che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel
momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la Divisione
Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana».
La
ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale
documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere
in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio
né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della
pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla
studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i
militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi, non appaiono
affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei
protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del Generale Gandin,
avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come
una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese.
In
realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano moltissimi
che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un
nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento
prestato al Re, guardavano alla Monarchia come alla istituzione che avrebbe
dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che
spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non
vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e
concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della
guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in
proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo
in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo
imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo
imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse
possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato
firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi
tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il
desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della
resistenza ai tedeschi, il Capitano Amos Pampaloni, di convinzioni
antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi
pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con
l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale».
C'era, pure, nei soldati della Divisione Acqui, con molta probabilità, la
convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero
intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò
non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento
delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva
capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un
vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza
italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di
quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi,
si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del Governo Badoglio per gli
ordini impartiti di resistere sia degli Alleati per il loro cinismo.
L'eccidio
di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di
oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più
brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli
italiani. E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato,
spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla
«ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni
ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal
modo, giusto omaggio ai Martiri.
giovedì 8 dicembre 2016
Involontari elogi per la Monarchia de "L'avanti!"
Le considerazioni nebulose di Stella, Roth e la “patria ritrovata”

Quale sia il nesso tra Van der Bellen, il protagonista del romanzo Il busto dell’Imperatore e Francesco Giuseppe I è noto solo al giornalista, che trova chiarezza alle sue considerazioni su Wikipedia per la molteplicità di nomi utilizzati per definire lo statista austro-ungarico. Sembra che egli accetti i giudizi del protagonista, senza tenere presente il percorso esistenziale di Roth, il quale verso il 1925 abbandona la sua fede socialista, difende la monarchia ed esalta la tradizione ruotante intorno ai valori religiosi e patriottici. Le sue scarse simpatie per il socialismo, dettate da una particolare sensibilità verso i più bisognosi, vengono meno durante il suo soggiorno in Russia, dove vi si recherà nel 1926 come inviato del «Frankfurter Zeitung».
[...]
mercoledì 7 dicembre 2016
Referendum, i Monarchici dell'Umi: “Prima elezioni poi nuova costituente”
L’Unione Monarchica Italiana non
ha dubbi: “Subito alle urne”

Lo rende noto l'Umi in un comunicato nel quale
spiega: “Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, per scongiurare un periodo di
forte instabilità, l’Unione Monarchica Italiana auspica che si vada quanto
prima alle elezioni al fine di garantire nuovamente al Paese un governo che
rispecchi la volontà del voto popolare, cosa che non è avvenuta con gli ultimi
tre Esecutivi.
Il Governo di transizione che si
andrà ad insediare dovrà avere come priorità assoluta una legge elettorale che
porti al superamento dell’attuale sistema, dichiarato illegittimo dalla Corte
Costituzionale nel 2013.
L’Italia si è divisa in due di
fronte a delle riforme che tutelavano i partiti e le lobby ed ha capito di
avere la necessità di una vera e seria stagione di cambiamento. Bisogna andare
oltre le briglie dell’attuale Carta costituzionale, ormai appesantita da quasi
sette decenni di storia in cui il Paese è radicalmente cambiato.
Una volta che l’Italia avrà un
Parlamento eletto secondo un sistema legittimo, si indìca un’assemblea
costituente per dare al Paese una nova Costituzione che, tra l’altro, elimini
mostri giuridici equivalenti all’attuale articolo 139. Basta con le limitazioni
della sovranità popolare!
L’U.M.I., che in questa campagna
referendaria si è battuta per la vittoria del NO, esprime la propria
soddisfazione per il pericolo scongiurato con l’entrata in vigore di una
riforma grottesca ma è consapevole che questo pronunciamento popolare debba
essere solo il primo passo di un lungo percorso per risollevare il Paese.
La paura del voto che la classe
politica tradizionale ha da qualche tempo deve essere superata, l’affluenza
alle urne di questo referendum ha dimostrato che gli italiani vogliono e devono
ancora poter dire la loro.
Abbiamo perduto fin troppo tempo,
tergiversando con Governi succubi di interessi extra nazionali, e dobbiamo
uscire dall’impasse nel quale ci siamo
venuti a trovare. Torniamo ad essere orgogliosi non solo della nostra Patria ma
anche delle sue Istituzioni. Questo lo si potrà ottenere soltanto cambiando
radicalmente l’attuale assetto politico. La strada è in salita ma non ci
dobbiamo scoraggiare: la meta finale è il cambio istituzionale. La riscossa
definitiva dell’Italia arriverà soltanto alla luce del sole di una nuova
Monarchia costituzionale. Nel frattempo vigileremo con attenzione”.
GUERRA E GLORIA: PRINCIPE EUGENIO DI SAVOIA
Genio militare, eroismo bellico e nobiltà romantica dipingono solo in parte la straordinaria e notevole biografia di Eugenio di Savoia, salvatore d'Europa e soldato di tre Imperatori.
La terra trema: ventimila uomini dell’esercito imperiale asburgico marciano senza sosta verso Torino, capitale del Ducato di Savoia, guidati dal principe Eugenio, il Prinz Eugen. Corre l’anno 1706 e il Piemonte è occupato dalle truppe franco-spagnole, acerrime nemiche dei Savoia durante la guerra di successione per il trono di Madrid. Intorno alle mura della capitale sabauda, chilometri e chilometri di trincee sono scavati per permettere ai fanti del Re Sole di cingere d’assedio i difensori del ducato. Con un lungo cannocchiale sbirciano la notte dal fortino piemontese sul Monte dei Cappuccini: il palcoscenico della guerra è illuminato dai fuochi delle artiglierie e dagli incendi dentro le mura. Che magnifica e terribile bolgia insonne, un pandemonio! Laggiù, migliaia di soldati si muovono agitati sulle passerelle, lungo i sentieri scavati nella terra, tra i mortai dalle larghe bocche; escono ed entrano come tante formiche frenetiche e terrorizzate dal fuoco in buchi neri che portano alle gallerie sotterranee dove viene combattuta l’ altra battaglia, quella in profondità, quella che non si vede, per le talpe con i pugnali fra i denti che giocano a lanciare granate con la miccia corta, o cortissima. E talvolta infatti, la terra esplode. Ecco, una batteria francese alzarsi dal suolo dalla spinta di un bagliore bianco-giallo-rosso, e vanno in pezzi uomini e cannoni: è il lavoro delle truppe speciali torinesi, i minatori del Duca, che strisciano di sotto, e piazzano grandi botti sotto il culo dei gallispani, con gli omaggi di Sua Maestà Vittorio Amedeo II.
“Charger! … Feu!”
Strillano fino a ferirsi la gola, gli ufficiali di Francia, e i cannoni rispondono ai comandi migliaia di volte, sputando palle pesanti che tentano di aprire brecce sulle possenti mura della Cittadella, ma nulla, la pietra è rosicchiata ma non crolla, e allora le bocche da fuoco vengono alzate di un poco, e si bombarda la città che non si arrende, la città che ha la cinghia stretta e il volto sporco di fuliggine ma non alza la bandiera bianca, fiera. Ispiriamoci alle mirabolanti avventure del barone di Münchausen. Come se una palla di cannone avesse gli occhi, guardiamo la sua prospettiva di viaggio, noi siamo adesso la palla di cannone da 40 libbre (son 18 chili, fanno male se ti prendono in testa ai 300 km/h). Un bombista bretone, mostrato a intermittenza dai bagliori degli scoppi, tozzo e nero di lerciume, ci sceglie da un mucchio di altre, ci accarezza, sogghigna con solo due denti buoni, ci bacia al sapore di vino acido, da suo rito personale.
“Bon voyage, ma petite fille.”
Scivoliamo dentro la canna di ferro, buio, poi udiamo il comando secco feu! gridato roco, e un lampo ci acceca. In orbita, una stella cometa vola sopra il campo di battaglia di Torino e le sue esplosioni nel cuore della notte sabauda, le grida ora sono solo rumori smozzicati, il vento ci avvolge, ci fa girare su noi stessi, ci alziamo in aria, sopra gli uomini che si fanno la pelle a vicenda, oltrepassiamo i bastioni illuminati dalle fiamme, scorgiamo in un pezzetto di attimo i difensori senza sonno che affollano i camminamenti delle mura bucherellate, anche loro instancabili a caricare bombarde e moschetti e a bestemmiare forte sotto i vessilli con l’effige della Consolata, adesso siamo sopra le case della città, sotto di noi il Quadrilatero Romano, Boja Fauss precipitiamo, velocissimi, tra poco impattiamo, Giuda Crin, picchiamo secchi sul campanile di Sant’Agostino, rimbalziamo come flipper, sfondiamo di naso un muro del palazzo nobiliare di signori conti, salutiamo nel salotto con il nostro passaggio velocissimo il signor conte con la gotta, la signora contessa con cane carlino, la vecchia suocera rimbambita di lui, un servo in livrea che rovescia il vassoio con la cioccolata, sfondiamo il ritratto di un parruccone prelato e un’altra parete, roviniamo in strada tra due mercenari svizzeri ubriachi marci che balzano sui muri di lato come gatti sotto una secchiata d’acqua, mannaggia il demonio non è finita, ancora un bel rimbalzo in aria con il fiato strozzato e poi giù nella via Conte Verde, bassofondo e territorio di osterie mal frequentate e bordelli a buon mercato, davanti alla locanda dell’ Inferno interrompiamo una rissa al coltello tra granatieri crucchi e fanti canavesani, c’è ancora tempo per una spallata ad un edificio; la palla di cannone, cioè noi, finisce la sua folle corsa nel catino di una puttana zoppa, che guardiamo sotto le voglie di un sergente sudato e ansimante a cui abbiamo rovinato l’apice del piacere del materasso acquistato con mezzo tallero d’argento, ma Deo Gratias, non abbiamo stecchito nessuno. I giorni 6 e 7 settembre c’è l’ attacco rabbioso degli uomini del Principe Eugenio con violenti assalti di fanteria prussiana e cariche di cavalleria. Sono fiumi umani in piena che travolgono accampamenti e compagnie avversarie. Le baionette affondano nelle pance francesi e le sciabole mozzano teste spagnole, mentre il concerto con moto malvagio dell’ artiglieria fa sentire i suoi tuoni di grancassa e timpani. Fuggono i gallispani, in rotta. Torino è liberata dal cappio dell’ assedio e i suoi eroi, il Duca Vittorio Amedeo II e il Prinz Eugen, con le parrucche delle grandi occasioni, entrano in trionfo da Porta Palazzo, e il Duomo ringrazia il cielo con il solenne inno del Te Deum.
Tu rex gloriae, Christe. / Tu Patris sempiternus es Filius./ Tu, ad liberandum suscepturus hominem, / non horruisti Virginis uterum. / Tu, devicto mortis aculeo, aperuisti credentibus regna caelorum. / Tu ad dexteram Dei sedes, in gloria Patris. / Iudex crederis esse venturus.
Quello appena concluso è lo scontro finale di un lungo assedio durato quasi quattro mesi di primavera-estate d’inizio settecento, 117 giorni per l’esattezza. Non si tratta di un episodio secondario della storia d’ Europa, tutt’altro, a Torino si è combattuta una Stalingrado del XVIII secolo; qua, sotto le sue mura, i sogni continentali ed extra continentali di Luigi XIV s’ infrangono una prima volta, nubi offuscano il Sole, suo nipote Filippo sarà sì Re di Spagna come il nonno aveva desiderato, ma il trono è ben separato da quello francese. Non ci sarà una superpotenza indistruttibile franco-iberica, inoltre inizierà l’ inesorabile declino di quello che un tempo era impero immenso: la Spagna decade e l’ Inghilterra la scalza e domina i mari. Gli Asburgo s’impongono in Mitteleuropa, nasce il regno militare di Prussia, i Savoia, ambiziosi guerrieri in ascesa, sono adesso Re. La battaglia è vinta dai sabaudi per varie ragioni; una di esse è l’ indiscutibile abilità bellica di Eugenio di Savoia, uno dei protagonisti più celebri e in gamba dei campi di battaglia europei a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, periodo di odi dinastici, scontri orientali con i sempre turbolenti turchi e lotte per l’ egemonia sul Vecchio Continente mai in pace.
Eugenio è considerato da molti storici come l’ultimo grande capitano di ventura, un nobile mercenario, un condottiero fedele alla casata degli Asburgo (e generosamente ripagato per i suoi sforzi ) che dalla Vienna imperiale resiste salda alle dolorose spallate degli ottomani da meridione e da Luigi XIV da occidente. Nato nella Parigi del Re Sole, è decisa per lui la carriera religiosa dall’indiscutibile volere dell’ odiato monarca francese, suo tutore. Eugenio, che di gran lunga preferisce la strada delle lame e del sangue ad una vita di Pater Noster e ostie, fugge dalla Francia mascherato da donna per riparare presso la protezione austriaca di Leopoldo d’ Asburgo. Rulli di tamburo da guerra: colonna sonora della biografia del condottiero. Eugenio, Eugen, sale in groppa ad un destriero dei dragoni del Sacro Romano Impero. Battezza l’acciaio della spada con il sangue turco nella battaglia di Vienna contro le schiere di Maometto IV, dove mostra subito la propria concezione dell’ arte bellica: in prima fila a spronare i suoi uomini alla carica e non come altri generali più oziosi che considerano la guerra come una partita a scacchi da condurre tra gli agi della propria tenda. Conquista gradi, guadagna gloria, si procura cicatrici. Pare che quando si getti all’assalto, il suo volto si dipinga di una smorfia feroce ipnotizzata dalla morte e che inciti i suoi con grida e imprecazioni, seguito dai suoi sanguinari cani da caccia lanciati eccitati a fauci spalancate nella grande zuffa. Freddo e risoluto, ama nei momenti di difficoltà in mezzo alla baraonda della lotta sniffare tabacco, di cui le sue narici ne vanno ghiotte. L’armata del Principe è un vero e proprio esercito internazionale, europeo. Tra i ranghi marciano e combattono italiani, tedeschi, spagnoli, svizzeri, francesi, slavi, ungheresi.
A Zenta, in Serbia, nel 1697, con un esercito di mercenari scalcagnato e senza paga, riesce a compiere un’ imboscata colossale. Attacca gli ottomani che, tranquilli e ignari del pericolo di belve in agguato, attraversano a migliaia il fiume Tibisco su ponti di barche. Le truppe del sultano sono in quelle ore così vulnerabili, ed Eugenio ne approfitta, le belve balzano sulla preda. Il nostro Feldmaresciallo li fa a pezzi sulla sabbia, li guarda affogare. È un successo che ha risonanza in tutte le corti, Eugenio di Savoia è un grande condottiero, è nata una stella nella storia militare del continente. La sua capacità strategica detta il corso della storia quando in Baviera, insieme all’ amico inglese Duca di Malborough, nonché antenato di Winston Churchill, affronta i francesi nella vittoriosa battaglia di Blenheim che di fatto blocca l’ avanzata del nemico fino a Vienna. Se la campagna militare franco-bavarese fosse riuscita, sarebbero cambiati inesorabilmente i destini d’ Europa e i suoi assetti di potere.
Terribile è l’ esperienza della carneficina di Malplaquet, o battaglia dei due Re, in Belgio, sempre nello scenario della guerra di successione spagnola. Otto ore di lotta furibonda iniziata in una mattina di nebbia spessa, inquietante. Decine di migliaia di uomini sono in formazione ad aspettare la danza con la morte: danesi, sassoni, francesi, piemontesi, olandesi, inglesi, bavaresi, irlandesi, scozzesi, svizzeri, spagnoli … quante nazionalità! C’è mezza Europa, in mille uniformi, bandiere, marce di guerra. Calma, non si muove una mosca, la quiete prima della tempesta. E d’ improvviso la nebbia grigia è squarciata dal fuoco a volontà dell’ artiglieria. Il campo è caos, si susseguono i bombardamenti, le file di moschetti falciano le formazioni in attacco, gli uomini cadono, i cavalli pure, nel bosco di Sars avvengono cruenti scontri all’ arma bianca, gli squadroni di cavalleria contrattaccano senza badare alle perdite, nei trinceramenti si scannano uno sull’ altro, spade e baionette s’ incrociano tra gli alberi, scorre tantissimo sangue. Infine, nel primo pomeriggio, Malplaquet diventa teatro di un’ immane combattimento tra cavalieri, squadroni su squadroni intervengono uno dietro l’ altro nella mischia di nitriti e sciabole. Da una parte attaccano e ripiegano Carabiniers e Dragoni della Maison du Roi, dall’ altra contrattaccano e si ritirano gli imperiali a cavallo e i cavalieri dell’ Assia-Cassel. Sul campo rimangono circa 30.000 uomini, quel terribile 11 settembre del 1709. La vittoria è di nuovo dalla parte di Eugenio e del suo vecchio camerata John Churchill duca di Marlborough; però a quale prezzo! Le truppe imperiali sono ridotte così male che non riescono a inseguire i francesi perché letteralmente crollano sul terreno, esauste dopo un’ intera giornata di botte da orbi senza tirar fiato. Un generale inglese, tale Lord Orkney, dice su quel giorno maledetto:
“Prego Iddio che questa sia la mia ultima battaglia”.
Battaglia di Belgrado, guerra austro-veneto-turca: mamma li turchi, di nuovo. Eugenio marcia nei Balcani per prendere la piazzaforte di Belgrado, tenuta dalla guarnigione ottomana di Mustafà Pascià. Inizia l’ assedio, ma alle spalle arriva un altro esercito nemico, forte di 150.000 uomini. Si crea una situazione di doppio assedio. Gli austriaci circondano i turchi asserragliati dentro le mura di Belgrado, altri turchi circondano gli austriaci assedianti, in un groviglio di trincee e batterie. Le battaglie si vincono anche con la fortuna, e la buona sorte aiuta Eugenio quell’estate belgradese. Un proietto di mortaio colpisce in pieno la santabarbara della fortezza. È un’ esplosione gigantesca, infernale, mai vista prima. Muoiono 3.000 nemici in un colpo solo, un’ atomica settecentesca. È l’ occasione buona. Allo scoccare della mezzanotte del 16 agosto del 1717, il principe ordina l’ attacco totale, tutti devono partecipare. Gli ottomani non se lo aspettano, di notte non si combattono le battaglie campali, invece Eugenio rompe gli schemi, l’ oscurità gli è musa. Comandante eccezionale, è lì a cavallo a condurre personalmente l’assalto, alla testa dei suoi, senza paura. I giannizzeri, la guardia pretoriana della Sublime Porta, casta guerriera di Costantinopoli, cede, arretra, è in rotta.
Tra una ferita e una carica di cavalleria, il Prinz Eugen trova anche tempo per spendere parte degli immensi bottini accumulati in anni di avventure. È Principe ricchissimo, rispettato, invidiato, odiato. Si fa costruire un lussuosissimo castello a Vienna, il Belvedere, che riempie di opere d’arte e di volumi preziosi, suoi fedeli amici. Mastino della guerra, sicuramente, ma anche uomo di grande cultura. Nel parco vuole pure un ricco giardino zoologico con più di cinquanta specie esotiche tra cui gli amatissimi leoni. Le malelingue dicono di lui che sia omosessuale: anche se fosse sarebbero fatti suoi, comunque sono solo calunnie volte a screditarlo presso la cattolica corona asburgica, che se ne frega di quei mormorii da cicisbeo invidioso, perché ben si rende conto dello straordinario valore di quel comandante imparentato stretto con i signori di Torino. A corte, piccoli uomini e cortigiane arrampicatrici lo denigrano per la sua fama e per l’ alta considerazione che tre Imperatori hanno di lui; i mediocri rosicano mentre gli eroi cavalcano nell’immortalità. Nonostante avesse scherzato con la morte in innumerevoli occasioni, muore in poltrona, addormentandosi per sempre una mattina di aprile del 1737. Gli intitoleranno marce, navi, corazzate, formazioni militari.
Un giorno Eugenio di Savoia, il salvatore di Torino, così si rivolge alla giovane Maria Teresa, futura Imperatrice d’Austria:
“La pace, mia cara bambina, è meglio di ogni altra cosa al mondo. Tuttavia per difenderla, occorre essere disposti anche a fare la guerra.
martedì 6 dicembre 2016
Lettera (non pubblicata) a Sergio Romano
Caro Ambasciatore,
alla dilagante e sconfortante non conoscenza della grammatica italiana dimostrata ogni giorno da un numero crescente di esponenti politici nazionali si accompagna - evidentemente conseguenza delle stesse cause "scolastiche" - la non conoscenza della storia politica nazionale e internazionale.
Giorni or sono l'On. Meloni, a "Porta a Porta", discutendo dell'attuale proposta di riforma del Senato, non sapeva modalità di composizione e funzioni del Senato del Regno che, dal 1861 al 1946, vide tra i suoi membri, non eletti ma nominati dal Re nell'ambito di 21 categorie, le personalità italiane più illustri della cultura, delle scienze, delle arti, della diplomazia, della magistratura, delle Forze armate, oltre che, ovviamente, della vita politica (ne cito soltanto due: Benedetto Croce e Luigi Einaudi).
Rileggere la lista dei Senatori del Regno di quegli 85 anni di storia italiana è, allo stesso tempo, impressionante e deprimente per il paragone con l'attualità.
Oggi sul "Corriere della Sera", a pag. 6, l'On. Miccichè, esponente di lungo corso della politica, già membro del Governo, fa una affermazione del tutto inventata: secondo lui esisterebbe "un patto scritto" tra i due partiti cristiani tedeschi alleati dal 1949, CDU e CSU, "per cui il cancellierato non andrebbe mai alla CSU".
Tale "patto" non è mai esistito.
Nel 1980 il candidato unitario CDU/CSU alla Cancelleria fu il Primo Ministro bavarese e leader della CSU Franz Josef Strauss che conquistò 226 seggi contro i 218 della SPD del Cancelliere Helmuth Schmidt il quale continuò a governare (fino al 1982) alleato dei Liberali che avevano ottenuto 53 seggi.
Nel 2002, di nuovo, il candidato unitario CDU/CSU alla Cancelleria fu il Primo Ministro bavarese e leader della CSU Edmund Stoiber che ottenne 248 seggi contro i 251 della SPD del Cancelliere Gerhard Schröder il quale continuò a governare con i Verdi che avevano ottenuto 55 seggi.
Ma anche il "Corriere" in quanto a errori non perde colpi: sempre oggi, a pag. 23, nell'articolo sulla cittadina di Solferino, Napoleone III (erronamente scritto III°) viene definito "Re di Francia", roba da matita blu della Maestra di V elementare.
Cordialmente,
Ettore Laugeni
LA MORALE DELLE FAVOLE
A
risultato ufficiale del referendum costituzionale del 4
dicembre, si possono
forse capire certi
atteggiamenti di Renzi, acidi
e intolleranti , verso i
fautori del NO, e
l’infelice frase sulla
“accozzaglia”, quando la lingua
italiana, che pur nacque
nella sua Toscana, ha
altri termini non
offensivi, quale ad esempio “eterogenea”.
Del resto
nei “referendum”, fatalmente si
formano schieramenti eterogenei, ed il
maggiore esempio è
stato dato dal
referendum istituzionale del
2 giugno 1946, per
quanto riguarda lo
schieramento repubblicano,
che vide
insieme “repubblichini”, con gli
intransigenti antifascisti del
Partito d’ Azione, i nostalgici
del Papa Re, che volevano
vendicare la “breccia
di Porta Pia”, insieme
con gli austeri
mazziniani, dalle grandi cravatte, unitamente ai social
comunisti, che di tutto
potevano essere nostalgici, ma non
certo del potere
temporale né dei
“Doveri dell’uomo”, social
comunisti il cui voto è stato, per
la vittoria ufficiale
della repubblica, rappresentando oltre
otto dei dodici milioni raccolti
dalla repubblica, cioè oltre i
due terzi!
Tornando a Renzi, che con
la sua ossessiva
presenza televisiva, non pensava
di essere controproducente, come in realtà è
poi stato, certe favole, con
la loro morale, avrebbero dovuto
consigliargli, fin dall’ inizio ,
invece del suo
“aut aut”, ben altro
atteggiamento o forse la sua mamma non
gli aveva mai
letto ad esempio
la favola di
quella contadinella che
va al mercato, con
in testa un
cestino di uova ( risultato elezioni
europee ), e camminando pensa
che vendendole ad un
buon prezzo, via via avrebbe guadagnato molti soldi e tutti la
avrebbero riverita.
Così facendo si inchinò e le uova caddero spiaccicandosi per
terra ( referendum costituzionale ).
Domenico Giglio
sabato 3 dicembre 2016
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