NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 16 febbraio 2016

Il pittore istriano e il bambino

 di Emilio Del Bel Belluz  

“Non bisogna più tradire chi ha conosciuto l’inganno: le anime ferite sanno sorridere anche a chi le calpesta. E chi strappa il fiore non si accorge quasi mai che la radice piange sotto terra”   (Nino Salvaneschi ).  

Il 10 febbraio, giorno dedicato al ricordo delle foibe e dell’esodo,  è stato ricordato con meno enfasi di come si è celebrato il giorno della memoria. La televisione, per questa data così importante e triste, non ha trasmesso quei messaggi pronunciati da attori e altre personalità  per ricordare agli italiani, che oltre settanta anni fa, altri italiani a migliaia vennero infoibati dagli slavi  comunisti. La loro unica colpa era quella di essere italiani veri. La cosa ancora più triste è che, quando arrivarono in Italia, vennero accolti dai comunisti con ogni tipo di vessazione. 
Perché non ricordiamo anche il trattamento disumano  riservato a questi nostri connazionali?  Potrei dilungarmi a scrivere su questo biblico esodo di trecentomila persone, un esodo che lo ripeto non incontrò il cameratismo degli italiani verso dei connazionali che perdettero ogni cosa. Oltre ai lutti, dovettero anche patire, per non aver i corpi dei loro cari,  essendo stati infoibati in quelle voragini su cui fu buttato del cemento oltre all’indifferenza dei propri fratelli italiani. 
Sono pochi quelli che riuscirono a raggiungere l’Italia con qualche bene. Per anni e anni sul dramma del popolo infoibato si calò un silenzio scandaloso che continua a durare, eccetto rare eccezioni, come il partito di Giorgio Almirante. Questo silenzio era motivato dalla necessità di non accusare Tito del male che fece. 
4Sui giornali nazionali, eccetto in questi ultimi anni,  il silenzio sulle foibe fu totale. Ricordo che conobbi alcuni esuli istriani al mio paese natio, quasi per caso. Quando abitavo a Motta di Livenza, in un appartamento vicino al mio, viveva una coppia di anziani. Io, che allora avevo solo 10 anni.  li ricordo come se fosse oggi. Era una coppia che non aveva avuto figli, lui era un uomo dai capelli canuti, una persona  dagli atteggiamenti signorili. Si chiamava Antonio Sissan, sua moglie, una persona molto dolce, si chiamava  Ada.  I due si volevano un bene immenso, li vedevo dalla  mia finestra quando uscivano e mi salutavano con un cenno della mano. 
Ogni giorno venivano a trovarci ed immancabilmente ci donavano un dolcetto istriano molto buono. La loro visita quotidiana mi rendeva felice. Quando passeggiavano si tenevano la mano, come due fidanzati al loro primo appuntamento. Antonio si appoggiava al suo bastone. Durante la sua vita era stato un capitano di marina, aveva girato il mondo così pure durante la Grande Guerra era stato capitano su una nave da guerra. Una volta, una persona mi raccontò di un capitano, che dopo essere andato in pensione, si recava ogni giorno ad osservare il fiume. Il suo rapporto quotidiano con l’acqua non poteva in nessun modo mancare. Anche Antonio, il vecchio istriano, si metteva  ad osservare l’acqua limpida della Livenza. 
Vicino alla sua casa, sul ramo morto della Livenza, vi era una barca ormeggiata e lui spesso si sedeva sopra per ammirare il fiume. Osservava le acque che con una certa difficoltà cercavano di raggiungere il grande fiume. Lo vedevo dalla mia finestra, che spesso parlava con il proprietario della barca, specialmente nei caldi pomeriggi d’estate. Antonio seppur vecchio, non dimostrava la sua età. Ogni tanto mi capitava di fare per loro delle piccole commissioni. Quando arrivavo mi aspettava nel suo studio. Vestiva di bianco con un pennello in una mano e la tavolozza di colori sull’altra, intento a dipingere un quadro.  Le sue opere erano rappresentate dai paesaggi della sua cara Istria, in cui predominava quasi sempre il mare, che andava ad infrangersi sulle rocce. In quei momenti erano i ricordi che gli passavano accanto, specialmente in quei casi in cui dipingeva i luoghi dove aveva vissuto. Quei posti che lui aveva dovuto lasciare senza poter fare nulla. Le case del suo paese, la chiesa dove si recava a messa, il cimitero dove i suoi cari erano stati sepolti. 

Quando dipingeva, la nostalgia per i luoghi che aveva dovuto abbandonare era così grande, che qualche lacrima rigava il suo volto . Era un valido pittore, anche secondo il giudizio di un mio amico istriano, professore di lettere ed intenditore di pittura, che ci ha abbandonati alcuni anni fa. Il caro Antonio Sissan ci donò alcuni dei suoi quadri che abbiamo molto apprezzato, la semplicità della sua pittura  era nata dai ricordi della sua terra. Da bambino l’unico cosa che sapevo era che questa famiglia dovette fuggire dall’Istria. Solo successivamente, compresi a fondo il loro dramma che è ben rappresentato dalla canzone di Sergio Endrigo che dice :” Vorrei essere come un albero che sa dove nasce e dove muore”. Un albero che conosce la sua sorte, che è stato accarezzato dal sole  e dal vento, che ha con le sue radici amato la sua terra. Ogni essere umano anche se ha dovuto abbandonare la sua terra d’origine non si è mai staccato dalle sue radici, dal luogo che lo ha visto nascere e crescere. 

Non ho una grande conoscenza  dell’Istria, ma ho avuto occasione di visitare qualche luogo con il mio amico professore. Lo ho accompagnato al paese dove viveva, sono stato con lui al cimitero dove riposavano i suoi cari. Nei suoi occhi vi leggevo una profonda malinconia  quando percorreva le stesse strade che lo avevano visto correre da bambino e rivedeva quel mare che tanto gli era mancato. E il mio pensiero, in quegli istanti,  si rivolgeva al mio amico pittore e al dramma che anche lui aveva vissuto abbandonando la sua terra natia. In un freddo giorno d’inverno,  il professore mi condusse alla chiesa dei francescani a Capodistria e lì trovammo un vecchi frate che non era fuggito dall’Istria, ma era rimasto come un soldato di guardia alla sua chiesa. Con il vecchio frate vi erano dei confratelli e riconobbe il professore. Si ricordava di quando ragazzino veniva accompagnato dalla madre alla santa messa. 
La stanza del vecchio frate era piccola con una finestra e un letto. In una  mensola vi stavano dei libri ed altri erano sparsi sul tavolo. Questo frate aveva sfidato i soldati di Tito,  era stato pronto a morire per difendere quella chiesa e il Cristo. Prima di andar via il frate, volle a tutti i costi, che bevessimo della grappa e poi ci abbracciò. Prima di lasciare Capodistria, mentre il mio professore pregava sulla tomba di famiglia, io sostavo davanti alla tomba dello scrittore Quarantotti Gambini, uno dei massimi  romanzieri italiani, purtroppo oggi dimenticato.     


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