“Non bisogna più tradire chi ha conosciuto l’inganno: le
anime ferite sanno sorridere anche a chi le calpesta. E chi strappa il fiore
non si accorge quasi mai che la radice piange sotto terra” (Nino
Salvaneschi ).
Il 10 febbraio, giorno dedicato al ricordo delle foibe
e dell’esodo, è stato ricordato con meno enfasi di come si è
celebrato il giorno della memoria. La televisione, per questa data così
importante e triste, non ha trasmesso quei messaggi pronunciati da attori e
altre personalità per ricordare agli italiani, che oltre settanta
anni fa, altri italiani a migliaia vennero infoibati dagli slavi comunisti.
La loro unica colpa era quella di essere italiani veri. La cosa ancora più
triste è che, quando arrivarono in Italia, vennero accolti dai comunisti con
ogni tipo di vessazione.
Perché non ricordiamo anche il trattamento
disumano riservato a questi nostri connazionali? Potrei
dilungarmi a scrivere su questo biblico esodo di trecentomila persone, un esodo
che lo ripeto non incontrò il cameratismo degli italiani verso dei connazionali
che perdettero ogni cosa. Oltre ai lutti, dovettero anche patire, per non aver
i corpi dei loro cari, essendo stati infoibati in quelle voragini su
cui fu buttato del cemento oltre all’indifferenza dei propri fratelli italiani.
Sono pochi quelli che riuscirono a raggiungere l’Italia con qualche bene. Per
anni e anni sul dramma del popolo infoibato si calò un silenzio scandaloso che
continua a durare, eccetto rare eccezioni, come il partito di Giorgio
Almirante. Questo silenzio era motivato dalla necessità di non accusare Tito
del male che fece.
4Sui giornali nazionali, eccetto in questi ultimi anni, il
silenzio sulle foibe fu totale. Ricordo che conobbi alcuni esuli istriani al
mio paese natio, quasi per caso. Quando abitavo a Motta di Livenza, in un
appartamento vicino al mio, viveva una coppia di anziani. Io, che allora avevo
solo 10 anni. li ricordo come se fosse oggi. Era una coppia che non
aveva avuto figli, lui era un uomo dai capelli canuti, una persona dagli
atteggiamenti signorili. Si chiamava Antonio Sissan, sua moglie, una persona
molto dolce, si chiamava Ada. I due si volevano un bene
immenso, li vedevo dalla mia finestra quando uscivano e mi
salutavano con un cenno della mano.
Ogni giorno venivano a trovarci ed
immancabilmente ci donavano un dolcetto istriano molto buono. La loro visita
quotidiana mi rendeva felice. Quando passeggiavano si tenevano la mano, come
due fidanzati al loro primo appuntamento. Antonio si appoggiava al suo bastone.
Durante la sua vita era stato un capitano di marina, aveva girato il mondo così
pure durante la Grande Guerra era stato capitano su una nave da guerra. Una
volta, una persona mi raccontò di un capitano, che dopo essere andato in
pensione, si recava ogni giorno ad osservare il fiume. Il suo rapporto
quotidiano con l’acqua non poteva in nessun modo mancare. Anche Antonio, il
vecchio istriano, si metteva ad osservare l’acqua limpida della
Livenza.
Vicino alla sua casa, sul ramo morto della Livenza, vi era una barca
ormeggiata e lui spesso si sedeva sopra per ammirare il fiume. Osservava le
acque che con una certa difficoltà cercavano di raggiungere il grande fiume. Lo
vedevo dalla mia finestra, che spesso parlava con il proprietario della barca,
specialmente nei caldi pomeriggi d’estate. Antonio seppur vecchio, non
dimostrava la sua età. Ogni tanto mi capitava di fare per loro delle piccole
commissioni. Quando arrivavo mi aspettava nel suo studio. Vestiva di bianco con
un pennello in una mano e la tavolozza di colori sull’altra, intento a
dipingere un quadro. Le sue opere erano rappresentate dai paesaggi
della sua cara Istria, in cui predominava quasi sempre il mare, che andava ad
infrangersi sulle rocce. In quei momenti erano i ricordi che gli passavano
accanto, specialmente in quei casi in cui dipingeva i luoghi dove aveva
vissuto. Quei posti che lui aveva dovuto lasciare senza poter fare nulla. Le
case del suo paese, la chiesa dove si recava a messa, il cimitero dove i suoi
cari erano stati sepolti.
Quando dipingeva, la nostalgia per i luoghi che aveva
dovuto abbandonare era così grande, che qualche lacrima rigava il suo volto .
Era un valido pittore, anche secondo il giudizio di un mio amico istriano,
professore di lettere ed intenditore di pittura, che ci ha abbandonati alcuni
anni fa. Il caro Antonio Sissan ci donò alcuni dei suoi quadri che abbiamo
molto apprezzato, la semplicità della sua pittura era nata dai
ricordi della sua terra. Da bambino l’unico cosa che sapevo era che questa
famiglia dovette fuggire dall’Istria. Solo successivamente, compresi a fondo il
loro dramma che è ben rappresentato dalla canzone di Sergio Endrigo che dice :”
Vorrei essere come un albero che sa dove nasce e dove muore”. Un albero che
conosce la sua sorte, che è stato accarezzato dal sole e dal vento,
che ha con le sue radici amato la sua terra. Ogni essere umano anche se ha
dovuto abbandonare la sua terra d’origine non si è mai staccato dalle sue
radici, dal luogo che lo ha visto nascere e crescere.
Non ho una grande
conoscenza dell’Istria, ma ho avuto occasione di visitare qualche
luogo con il mio amico professore. Lo ho accompagnato al paese dove viveva,
sono stato con lui al cimitero dove riposavano i suoi cari. Nei suoi occhi vi
leggevo una profonda malinconia quando percorreva le stesse strade
che lo avevano visto correre da bambino e rivedeva quel mare che tanto gli era
mancato. E il mio pensiero, in quegli istanti, si rivolgeva al mio
amico pittore e al dramma che anche lui aveva vissuto abbandonando la sua terra
natia. In un freddo giorno d’inverno, il professore mi condusse alla
chiesa dei francescani a Capodistria e lì trovammo un vecchi frate che non era
fuggito dall’Istria, ma era rimasto come un soldato di guardia alla sua chiesa.
Con il vecchio frate vi erano dei confratelli e riconobbe il professore. Si
ricordava di quando ragazzino veniva accompagnato dalla madre alla santa messa.
La stanza del vecchio frate era piccola con una finestra e un letto. In
una mensola vi stavano dei libri ed altri erano sparsi sul tavolo.
Questo frate aveva sfidato i soldati di Tito, era stato pronto a
morire per difendere quella chiesa e il Cristo. Prima di andar via il frate,
volle a tutti i costi, che bevessimo della grappa e poi ci abbracciò. Prima di
lasciare Capodistria, mentre il mio professore pregava sulla tomba di famiglia,
io sostavo davanti alla tomba dello scrittore Quarantotti Gambini, uno dei
massimi romanzieri italiani, purtroppo oggi dimenticato.
Nessun commento:
Posta un commento