di Aldo A. Mola
E così, alla faccia di Karl Marx, grazie a
una leggina senza oneri per lo Stato, in Italia trionfa il Partito dei
Capitalisti. Non è quello di George Soros, l'ebreo ungherese naturalizzato
statunitense che manipola immense fortune e soggioga governi come fosse
Spectre. Non è neppure la allegra brigata che inventa la nuova libra, spaccia
bitcoin, sogna di stampare nottetempo carta moneta più o meno fasulla e magari
i “mini-bot”, sdrucita sottoveste degli antichi “pagherò”. Questi sono tardivi
imitatori del frammassone settecentesco Giuseppe Balsamo. Noto come Alessandro
conte di Cagliostro, dai muri umidi il “mago” grattava il bicarbonato per
propiziare la digestione dei suoi “clienti” e incitava i gonzi a soffiare in
canne attorno al pentolone nel quale il piombo sarebbe divenuto oro. Balsamo
finì nel caveau di San Leo su ordine di papa Pio VI e vi morì dopo anni di
bastonate e di urla strazianti.
Quei fantasiosi venturieri erano solo
dilettanti rispetto a quanto ora accade in Italia. Oggi vi trionfano i
Capitalisti veri. È nato il nuovo PCI. Libero dalle macerie del suo omonimo
(quello di Togliatti, Longo, Secchia...) è il “Partito delle Capitali
d'Italia”, un neo-comunismo che va dalla Puglia alle Alpi, brucia incensi a
vere e presunte città “già capitali” e mette tutti d'accordo riducendo la
storia a timballo di maccheroni con contorno di fricassea. Ognuno ci aggiunge i
condimenti e le spezie che meglio crede.
La storia non si stabilisce per legge
Alle 12.30 del 26 giugno 2019, un mercoledì
(giorno sacro a Mercurio, dio delle birbe), la Commissione affari
costituzionali della Camera ha fuso il piombo di cinque proposte di legge
propugnate da Elvira Savino (Forza Italia), Piero De Luca (Partito democratico)
e tre “Pentastelline” (Anna Bilotti, Fabiana Dadone e Anna Macina) nell'oro di
un bozzetto di legge, col soccorso dei deputati piddini toscani che vi han
fatto inserire all'ultimo momento Firenze, curiosamente dimenticata dalle
proposte originarie. All'unanimità (che non manca mai quando si tratta di
bazzecole) la Commissione ha approvato il testo base di prossima approvazione.
A Brindisi, Firenze e Salerno (citate dalla leggina in ordine alfabetico
anziché cronologico) conferisce il titolo di “città già capitale d'Italia”.
Esse potranno fregiarsene nei propri gonfaloni (già zeppi di emblemi, scritte,
motti...). Per bontà della pentastellata Dadone l'articolo 2 della leggiuzza
riconosce a Torino, come premio di consolazione, il rango di “città prima
capitale d'Italia” (sarebbe bene correggere in “prima città capitale
d'Italia”). Ma non sottilizziamo.
Qualcuno ha fatto dell'ironia sulla proposta liquidandola
come “leggina”; ma non è giusto. Come ognuno vede, ormai anche le “grandi” sono
un coacervo di leggine. Ogni legge è un “omnibus”. Si veda quella sulla
“Crescita”. Per coerenza, infatti, codesta mega-legge, poiché bisogna rinvigorire l'Italia sfiduciata e
sempre più moscia, contiene anche facilitazioni fiscali a favore dell'apertura
di pornoshop nei comuni con meno di 20.000 abitanti. Così anche i “villani”
potranno “crescere” (senza moltiplicarsi).
La leggetta sulle “città già capitali” dà motivo
per qualche considerazione sommaria sulla “percezione” odierna della storia,
dentro e fuori il Parlamento. È come la temperatura atmosferica. Non fedeltà ai
fatti ma “narrazione”, anzi mera
“invenzione”. Ma le fantasie non hanno e non possono pretendere di avere valore
legale. Questo è un punto niente affatto secondario in un Paese che
sciaguratamente ha introdotto una legge punitiva del “negazionismo”, di
opinabili “verità ufficiali”, che per gli storici semplicemente non esistono
perché di mestiere indagano in cerca della verità documentata. Ebbene, sapendo
di rischiare grosso, diciamo subito chiaro e forte che Brindisi e Salerno non
sono mai state capitali d'Italia. Nessuna norma può imporre di ammetterlo:
tanto meno questa aspirante leggina, storiograficamente infondata.
Carlo Alberto Re di Cipro e Gerusalemme...
Andiamo per ordine.
Lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da
Carlo Alberto di Savoia non fece parola della capitale del Regno di Sardegna.
Parafrasando il motto latino secondo il quale ciò che è chiaro non richiede
interpretazioni, non v'era motivo di scriverlo. Era Torino da quando il duca
Emanuele Filiberto, che vi fece ingresso solenne il 7 febbraio 1563, la preferì
a Chambéry, perno della Savoia: una scelta che, piaccia o meno e senza
esagerazione, segnò il destino della dinastia, del Piemonte e dell'Italia. La
Costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948, che in quanto ha di limpido e
chiaro ricalca lo Statuto Albertino, ignorò la questione. I costituenti
discussero sui confini delle Regioni e sui loro capoluoghi, ma nulla dissero né
di quelli nazionali (sul fronte orientale erano ancora in discussione e non
dipendevano dall'Italia ma da accordi tra le Grandi potenze e la Jugoslavia,
che figurava tra i vincitori mentre essa era tra i vinti) né della sua
capitale. Per tutti era sottinteso che fosse Roma: perciò non era il caso di
scriverlo. L'articolo 12 descrisse la bandiera della Repubblica (“tricolore
italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”)
per differenziarla dalla precedente, adottata da Carlo Alberto il 23 marzo
1848, recante lo scudo sabaudo nella banda bianca. Su altro (dall'inno
“nazionale” all'emblema statuale, poi disegnato da Paolo Paschetto, valdese e
non massone) la Costituente si rimise al legislatore.
Anche in Repubblica gli italiani vissero
felici e tacitamente contenti di avere capitale Roma, poi marchiata “ladrona”
dal predecessore di chi all'epoca chiedeva la secessione della Padania e oggi
vorrebbe strapparla a una maggioranza che pare nata “a sua insaputa” e comunque
si mostra inetta. Sennonché il 7 ottobre 2001 fu varata la sciagurata riforma
del Titolo V della Carta. Nella nuova redazione essa recita che “la Repubblica
è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato (…) Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello
Stato disciplina il suo ordinamento”. “Roma capitale” fu tra le insegne alzate
da Gianni Alemanno che, all'epoca sindaco, nel 2010 ne celebrò i 140 anni nella
Protomoteca del Campidoglio, partecipi Giuliano Amato e monsignor Angelo
Ravasi, non ancora cardinale. Forse sognava il 150°, che cadrà il 20 settembre
2020. L'iniziativa si perse per strada. Gli atti del convegno non furono mai
pubblicati e Alemanno ha altri grattacapi.
Nel 2011, su impulso del presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, fu solennemente celebrato il 150°
dell'“unificazione nazionale”. In realtà (nella storia, non meno che nel
diritto, la forma è sostanza) il 17 marzo 1861 venne pubblicata nella “Gazzetta
Ufficiale” la legge in forza della quale, a maggioranza, il 14 precedente il
Parlamento aveva sancito che Vittorio Emanuele II (di Savoia) assumesse il
titolo di Re d'Italia. Il Parlamento non lo “proclamò”. Riconobbe quanto era nei
fatti, avallati dai plebisciti confermativi delle annessioni votate da
assemblee e/o da poteri provvisori. Lo si legge nel robusto volume curato da
Gian Savino Pene Vidari “I plebisciti del 1860 e il governo sabaudo”
(Ed.Deputazione subalpina di storia patria).
Per Re Vittorio il nuovo titolo era un
“anche”. Sovrano per grazia di Dio continuò infatti a proclamarsi Re di
Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca di Savoia, Principe di Carignano, di
Piemonte, Oneglia, Poirino, Trino, Vicario perpetuo del Sacro romano impero
(che non esisteva più), duca di Genova, del Monferrato, del Chiablese, del
Genevese, di Piacenza, marchese di Susa, Ceva, Oristano, conte di Nizza, Tenda,
Asti, Alessandria, Novara, Tortona, Ginevra, Alto signore di Monaco, conte
dell'impero francese (quello di Napoleone I), Nobil Uomo patrizio Veneto,
patrizio di Ferrara e via risalendo e continuando. A Torino i Re ebbero
Palazzo, consiglio della corona, poi consiglio dei ministri, Camera e Senato.
Torino era il centro dell'amministrazione dello Stato, ma il Re era il Potere
ovunque egli fosse poiché era il capo supremo dello Stato, così come oggi lo è
il Presidente della Repubblica, che rappresenta dell'unità nazionale in
qualunque luogo egli si trovi.
Camillo
Cavour e Giuseppe Regnoli: il “voto” per
Roma capitale
A porre il nodo della capitale d'Italia fu
Camillo Cavour a conclusione dell'interpellanza del deputato bolognese Rodolfo
Audinot sulla “questione romana”. Tra i suoi passaggi forti spiccò
l'invocazione: “Noi dobbiamo rivendicare i diritti su Roma capitale naturale
d'Italia” (per “naturale” intendeva storica,“ovvia” e quindi “connaturata”),
“simbolo della nazionalità riconosciuto da tutti”. Il 27 marzo 1861 il
dibattito si concluse con l'approvazione del “voto” proposto da Carlo
Boncompagni di Mombello, emendato dal bolognese Giuseppe Regnoli, massone e
futuro membro della loggia “Propaganda”, come Giosue Carducci, Aurelio Saffi e
altri padri della patria: “La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero,
confidando che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del pontefice
e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia
l'applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione
nazionale, sia congiunta all'Italia, passa all'ordine del giorno”. Il “voto”
non era una “legge”, ma una speranza. Affinché divenisse realtà occorrevano tre
condizioni: l'assenso del papa, della Francia e degli italiani. Come nulla
fosse. Ne occorreva soprattutto una quarta, fondamentale ma solitamente
ignorata. Il neonato Regno d'Italia tale era per asserzione della VIII^ Camera
del Regno di Sardegna, che si tramutò in I^ Legislatura del nuovo Stato.
Sennonché, con buona pace dei sovranisti
digiuni di diritto e di storia, agli Stati per esistere davvero non basta
auto-proclamarsi. Occorre il placet della Comunità internazionale. All'epoca
(1859-1860) questa era il Concerto delle Grandi Potenze che aveva fissato i
suoi pilastri portanti (legittimità e tradizione) nel Congresso di Vienna del
1815, ribadito nei suoi canoni fondamentali da quello di Parigi del 1856.
Vairano Catena capitale d'Italia?
Nel 1861 il regno d'Italia fu riconosciuto da
Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti e Grecia e basta. Altri Stati (all'epoca
tutti imperi o monarchie) continuavano a riconoscere il regno delle Due Sicilie
e la sovranità del Papa su Legazioni Umbria e Marche. L'Italia, insomma faticò
a salire la china. Fu ammessa per la prima volta in una conferenza diplomatica
internazionale a Londra solo nel 1867, grazie all'abilità di Isacco Artom,
l'ebreo caro a Cavour. Quei precedenti vanno ricordati al nascente Partito
Capitalista d'Italia. Se proprio si volesse cercare una “capitale”
pre-unitaria, essa andrebbe individuata in Napoli, ove (lo ha ricordato Nico
Perrone in saggi su Liborio Romano e sull'ammiraglio Persano) si svolsero le
trame concluse con l'incontro di Teano, altra possibile “capitale”, perché lì,
appunto, il 26 ottobre 1860 Giuseppe Garibaldi salutò “Re d'Italia” Vittorio
Emanuele giuntovi al suono della Marcia Reale, come ricordò Giuseppe Cesare
Abba nell'emozionante conclusione di “Da Quarto al Volturno”. Aggiungiamo che
dal 1982 l'allora sindaco di Vairano Patenora spese passione e quattrini per
certificare che l'incontro decisivo per la storia d'Italia non avvenne affatto
a Teano ma nel suo comune, anzi a Vairano Catena. Sognava un futuro turistico,
ma poi (come si diceva a Parigi nel 1968) dopo Marx venne Aprile, il
giornalista-narratore che accusa i conquistatori venuti dal Nord di aver
fondato un loro PCI, il Partito dei Carnefici d'Italia: i piemontesi buzzurri,
canaglie, piombati dai crinali alpini, dal litorale ligure e dal famelico
Bergamasco per devastare il Mezzogiorno, un Paradiso terrestre che a suo dire
se la passava benissimo (come oggi, del resto, con due meridionali su tre al
vertice del governo: Conte e Di Maio). I fatti sono stati ora rimessi in ordine
da Giancristiano Desiderio nel succoso saggio “Pontelandolfo 1861. Tutta
un'altra storia” (Ed. Rubbettino, candidato al Premio Acqui Storia).
Ubi Rex, ivi Lex
Dove era la capitale? A Torino. Ma che cosa è
la capitale di uno Stato? È la residenza nominale del Capo dello Stato, delle
Camere, dei ministeri, di alcune “centrali” dell'esecutivo e
dell'amministrazione. Con la Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864
il governo italiano decise di trasferirla (nei termini anzidetti) da Torino a
Firenze. Il Re continuò a esercitare il suo Potere (la “sanzione e la firma”
dei decreti e delle leggi) ovunque si trovasse, in uno qualunque dei comuni
d'Italia. Era il Capo di una Dinastia che apparteneva al circuito delle
Famiglie Reali d'Europa e si estendeva ancora al Brasile. Era anche Re
d'Italia, ma in una concezione poco percepita da tanti patrioti militanti (come
poi da molti “storici”).
Quando andavano a caccia al camoscio in Valle
Gesso o al cinghiale a San Rossore Vittorio Emanuele II, suo figlio Umberto e
il nipote Vittorio Emanuele III erano Re d'Italia. Non portavano con sé
l'apparenza della capitale (congerie di Camere e di “uffici”), ma la somma di
Auctoritas e di Potestas. Del pari, quando il 9 settembre 1943 lasciarono Roma
per Brindisi, ove giunsero l'11 seguente, Vittorio Emanuele III e il Capo del
governo, Pietro Badoglio, non trasferirono affatto la “capitale”, che
era Roma. Altrettanto vale per il passaggio del Re da Brindisi a Ravello (non
Salerno). Roma rimase Roma, anche per l'altro “Stato”, la Repubblica sociale
italiana, destinata a scomparire dalla storia se non per certi effetti
“amministrativi”. Anzi Vittorio Emanuele III pose come condizione per il
trasferimento dei poteri al figlio Umberto, “luogotenente del Re” (non “del
Regno” come poi venne decretato) che esso avvenisse in Roma: perché quella era
la “sua” città: simbolo dell'unità nazionale conseguita il 20 settembre 1870 e
col plebiscito dell'ottobre seguente, recatogli dal duca Michelangelo Caetani
di Sermoneta (massone nella loggia “Universo”,anche se di famiglia papale).
Quando Sella fece i conti con il PCI e con il
PIF
Accampare che Brindisi e Salerno abbian funto
da “capitali” è dunque privo di fondamento storico. Se poi si volesse andare in
cerca di chi per primo proclamò un Regno d'Italia occorrerebbe risalire nei
secoli, non tanto a Napoleone I (il cui “regno d'Italia” era l'ex Repubblica
italiana, poi in gran parte divenuto Reich lombardo-veneto dell'Impero
d'Austria) ma ad Arduino, l'episcopicida marchese di Ivrea: più di mille anni
fa. Nell'Italia delle Cento Città (ma almeno tre-quattrocento furono fulcro di
qualche piccolo Stato meritevole di memoria (tutti derivanti dal Sacro romano
imperatore), meglio è accontentarsi di tre capitali certificate: Torino,
Firenze e Roma in sequenza cronologica chiara. Fermo restando che Roma
comprende la Città del Vaticano, uno Stato sovrano il cui Monarca, suo vescovo
in successione all'apostolo Pietro, non trasferisce la capitale quando visita
una borgata o una delle tante città italiane. Così come non lo fa il Consiglio
dei ministri dello Stato d'Italia quando, per motivi d'immagine più che di
sostanza, si raduna in questa o quella città (solitamente per conclamati motivi
di ordine pubblico o calamità: comunque sempre per sciagure).
Anziché arzigogolare su mai esistite capitali
transitorie meglio occuparsi di Roma e cercare di farla funzionare. Un
precedente eloquente: Quintino Sella, che più di ogni altro nell'estate 1870
volle “Porta Pia” e l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia, non trasferì
subito il ministero delle Finanze da Firenze a Roma. Lo tenne nella città del
Giglio in attesa che fosse costruito il Palazzone, atto a incutere il senso
della serietà dello Stato. E fu li che ebbe a fianco il giovane Giovanni
Giolitti, lo statista che cercò di raddrizzare le gambe all'Italia. Senza
troppo successo. Fece i conti con il PCI dell'epoca: il Partito dei Camaleonti
d'Italia. E con il PIF, il Partito Italiano dei Pifferai. Suonano e trascinano
verso la catastrofe: prima i topi, poi i bambini.
Aldo A. Mola
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