NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 20 luglio 2019

GIOVANNI GIOLITTI


IL VECCHIO SAVIO DELLA NUOVA ITALIA

di Aldo A. Mola
Vi sono parecchie ragioni per ricordare Giovanni Giolitti (Mondovì, 127 ottobre 1842.- Cavour, 17 luglio 1928), massimo statista italiano dalla proclamazione del Regno d'Italia a oggi. Ne ricordiamo almeno quattro. (*)

Dall'annessione alla Francia a capofila dell'indipendenza italiana
In primo luogo Giolitti è la sintesi del regno di Sardegna restaurato nel 1814 dopo l'età franco-napoleonica, quando il Piemonte venne ridotto a XXVII Divisione dell'impero di Napoleone I. Se questo fosse durato, non vi sarebbero mai stati Risorgimento, unità e indipendenza. L'Italia sarebbe un'appendice di Parigi (come Oltralpe qualcuno ancora pensa). In Piemonte, però, la Restaurazione non fu pura e semplice Reazione. Lo si vide nel marzo 1821, quando il ventitreenne Carlo Alberto di Savoia-Carignano, reggente, concesse in via provvisoria la Costituzione di Cadice. A chiedergliela furono aristocratici cresciuti negli ideali di libertà e di bilanciamento dei poteri. Il nonno materno di Giolitti, Giovanni Battista Plochiù, alto magistrato in età franco-napoleonica, era Legion d'Onore, come Carlo Alberto era conte dell'impero. La Storia è continuità, anche grazie a società segrete (carboneria, massoneria, illuminati...) quando la libertà di opinione è conculcata. Giolitti nacque proprio quando Carlo Alberto accelerò il rinnovamento dello Stato non per pressione straniera ma dal suo interno, valendosi di una dirigenza di patrizi, borghesi, militari, ecclesiastici accomunati da due capisaldi: scienza e apertura all'Europa. A quel modo il Regno di Sardegna si candidò a interpretare e a esprimere il sentimento profondo dell'“opinione nazionale”, come auspicato da Silvio Pellico, Massimo d'Azeglio, Cesare Balbo, da uno stuolo di patrioti, anche esuli, come Vincenzo Gioberti. L'assillo del Piemonte non era solo di conoscere Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino ma della valutazione che in quelle capitali si aveva di Torino. Nel Regno di Sardegna il “Quarantotto” non fu prodotto di importazione, ma frutto di lunga maturazione di una nuova moderna classe dirigente. Lo rievoca Giolitti nelle “Memorie della mia vita”, pubblicate il 27 ottobre 1922 per festeggiare il proprio 80° compleanno. Vi ricorda l'incontro, al quale assisté, di Camillo Cavour con zio, Melchiorre Plochiù, magistrato e azionista di “Il Risorgimento”, una tra le grandi voci del Quarantotto, come “La Gazzetta del Popolo” di Felice Govean e Giambattista Bottero. Lo Statuto Albertino segnò il passaggio dalla monarchia amministrativa a quella rappresentativa, l'elettività dei consigli comunali e provinciali, l'uguaglianza dinnanzi alle leggi e, quindi, la libertà di culto: caso unico in Italia. Da lì nacque la Terza Italia.

Al servizio dello Stato., cioè dei cittadini
Inoltre Giolitti è il modello della generazione costruì lo Stato nuovo. Laureato in giurisprudenza a Torino a 19 anni, volontario senza stipendio al ministero della Giustizia a 20, sostituto procuratore del Re a 24, per un ventennio progredì nel servizio dello Stato, “prestato” al ministero delle Finanze con Quintino Sella, segretario generale della Commissione centrale delle imposte dirette (osservatorio privilegiato su Comuni e Province), della Corte dei Conti (1877), commissario alle Opere Pie San Paolo di Torino (che trasformò in “istituto bancario di sicuro avvenire”) e consigliere di Stato a quarant'anni. Quando nel settembre 1882 accettò la candidatura alla Camera si mostrò politico vero, capace di ascolto, abilissimo del procacciarsi il sostegno dei notabili, società di mutuo soccorso e sodalizi vari. Lo documenta la sua molto elaborata “Lettera agli elettori”, suggellata da una frase che anticipa quasi mezzo secolo della sua “politica”: “Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese”.
Estensore del Manifesto dell'opposizione subalpina contro la “finanza allegra” del ministro Agostino Magliani (1886), contrario a dispendiose e rischiose avventure coloniali ma fermo nella difesa della dignità nazionale, ministro del Tesoro e delle Finanze nel Governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1890), quello delle grandi riforme (abolizione della pena di morte, trasformazione delle Opere Pie in Ipab, elettività dei sindaci e dei presidenti delle Deputazioni provinciali...), presidente del Consiglio dei ministri a soli 50 anni, Giolitti affrontò la più difficile delle riforme: dar vita alla Banca d'Italia in un Paese che trent'anni dopo la proclamazione del Regno e venti dopo l'annessione di Roma aveva ancora sei Banche abilitate a emettere moneta. Dovette fare i conti con l'intreccio tra malavita organizzata e la spesso cortomirante opposizione “democratica”. Perseguitato da Crispi, nel timore di carcerazione arbitraria andò a Berlino, ospite della figlia Enrichetta e del genero, Mario Chiaraviglio, massone. Rientrò quando seppe dalla moglie, Rosa Sobrero (“Ginotta”) che il mandato di comparizione non conteneva capo d'accusa.


La terza lezione di Giolitti è l'alto senso della politica quale servizio allo Stato. Nei lunghi anni di “disgrazia”, durante i regni di Umberto I (tra il 1893 e il 1899) e di Vittorio Emanuele III (1915-1919), la sua lealtà nei confronti della monarchia, consustanziale all'Italia, non mutò di una virgola. Il monarchico non è un cortigiano. Ha il dovere di dire al sovrano anche parole “scomode”. Perciò egli rimase la grande “riserva” della Corona, per risollevarne il prestigio. Avvenne nel 1899, dopo la repressione della cosiddetta “insurrezione milanese” del maggio1898, schiacciata con metodi inaccettabili e con l'arresto di deputati in carica. Giolitti capitanò la svolta liberale d'intesa con il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli e con Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d'Italia poi da lui voluto sindaco di Roma. Sempre capace di ascolto nel 1899, Giolitti recepì i suggerimenti di Urbano Rattazzi jr: dare voce al “Paese che lavora” e non inventare artificiosamente “nemici”. Iniziò il quindicennio più prospero dell'Italia unita, quando anche l'emigrazione (per lavoro, per fame) costituì una risorsa con le “rimesse” degli italiani dall'estero. Al governo si alternarono Zanardelli, lui, Alessandro Fortis (ex repubblicano), Sidney Sonnino, ebreo di culto protestante, Luigi Luzzatti, ebreo non praticante, una miriade di ministri e sottosegretari, sorretti da diplomatici, militari, dirigenti ministeriali, prefetti, magistrati, scienziati, accademici, docenti universitari, segretari comunali, insegnanti, artisti e, mai dimenticare, ecclesiastici ispirati da Pio X, il papa che “sospese” il divieto per i cattolici di voto attivo e passivo nell'elezione della Camera. Dai 3 cattolici deputati del 1904 si passò a 227 deputati liberal-moderati, radicali e persino massoni eletti col voto dei cattolici (il “Patto Gentiloni” del 1913), per arginare massimalisti, clericali e anarchici. Nel 1911 il bilancio del Cinquantenario registrò il grande progresso civile e sociale della Nuova Italia, cresciuta con la liberalizzazione degli scioperi “economici”, cioè per miglioramenti salariali, divieto assoluto di quelli “politici”, in specie nei servizi statali, leggi speciali a favore delle regioni arretrate, provvidenze d'ogni genere per istruzione e sanità. Conosceva bene la realtà. Contro tutte le leggende, il Piemonte aveva enormi sacche di povertà, generalmente sopportata con dignità anche grazie ai tanti Don Bosco.


Giolitti meridionalista e neutralista
Sin da giovane alto dirigente statale Giolitti aveva esplorato il Mezzogiorno. Tra gli amici politici più fidati ebbe meridionali come Tommaso Senise, Antonio Cefaly, Antonino Paternò Castello di San Giuliano, Giuseppe Saredo, Pietro Rosano (che il 9 novembre 1903 si sparò per evitare che uno scandalo squallidamente orchestrato ai suoi danni potesse coinvolgere Giolitti e il neonato governo). Sapeva che per unificare davvero l'Italia occorreva destinare al Sud enormi investimenti per liberarlo dalla secolare arretratezza (infrastrutture, servizi pubblici,...). Messa a frutto la costosissima “impresa di Libia”, che all'Italia fruttò Tripoli e la Cirenaica (per evitare che se ne impadronissero la Francia o altri), Rodi e il Dodecanneso (liberati dal secolare turpe dominio turco), nel 1914-1915 ritenne che l'Italia non poteva impegnarsi in una guerra europea lunga e inevitabilmente esosa di vite e di risorse, causa di divisione non solo tra Nord e Sud ma anche fra lo Stato e le masse operaie naturaliter neutraliste e i cattolici, contrari a conflitti ai danni dell'unico impero cattolico, l'Austria. Neutralista, dopo l'intervento si schierò senza riserve a sostegno della Vittoria come tutto il Piemonte, da sempre uso a battersi “alle bandiere” con lo scudo sabaudo.

La processione indiana: due passi avanti, uno all'indietro
Richiamato una quinta volta al governo da Vittorio Emanuele III, Giolitti ottenne successi fondamentali (abolizione del prezzo politico del pane, risanamento della finanza pubblica, superamento senza soverchi traumi della occupazione delle fabbriche da parte dei rivoluzionari decisi a “fare come in Russia”, cacciata di d'Annunzio da Fiume...). Chiese anche il trasferimento del potere di dichiarare guerra dalla Corona al Parlamento. Fallì l'obiettivo. Fu la sua prima seria sconfitta. La seconda venne col veto opposto da don Sturzo a una coalizione liberal-cattolica-socialriformista. Lo Statista trascorse a Cavour, in Piemonte, la notte fra il 27 e il 28 ottobre 1922, suo 80° compleanno: tormento e stasi. Il Re era a Roma per sostituire Facta, dimissionario, con un presidente fattivo. Mussolini temeva il ritorno di Giolitti. A Cesarino Rossi confidò: “ Se arriva Giolitti, siamo fottuti. Ha fatto sparare su d'Annunzio a Fiume”. Ma a Giolitti l'invito telegrafico ad accorrere a Roma arrivò solo “a cose fatte”. La storia non è una linea retta. Neppure quella d'Italia. Procede a zig-zag. Giolitti, statista serissimo e quindi capace di umorismo, osservò che il progresso è come certe processioni indiane: due passi avanti e uno all'indietro...

Nessuno come lui ebbe alto il senso dello Stato: una formula intraducibile, come la libertà, “ch'è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Quando andava al Colosseo o in montagna, Giolitti aveva sempre in tasca una delle cantiche della Divina Commedia. Chissà se ne ricorderanno tanti dantisti “di complemento” da qui al 2021?
Aldo A. Mola

(*) E' in libreria il nuovo volume di Aldo A. Mola, Giolitti. Il senso dello Stato, ed. Rusconi Libri, pp.XXII+626 e 16 ill.


DUE BOX
BOX UNO

Giolitti secondo il generale Arturo Cittadini (1864-1928), primo Aiutante di Campo di Vittorio Emanuele III (Dichiarazione al generale Angelo Gatti, Palazzo del Quirinale, 30 marzo 1922): un ritratto acre, con tratti veridici.

GIOLITTI COME L'IMPERATORE TIBERIO?

Giolitti ha dominato per molto tempo, anche quando non era al potere, la Camera. Da che cosa proviene questa forza indiscutibile di Giolitti? Ha prima di tutto la dote indiscutibile della conoscenza perfetta di tutto il congegno amministrativo dello Stato. A lui non la si può dare a bere. La seconda qualità è di essere inflessibile ed irriducibile. La terza qualità è che è un uomo relativamente onesto: vale a dire che per se stesso non ha rubato. Per conto suo vive modestamente (a Roma) in un quartierino solito. La quarta qualità è di tenere tutti a distanza. Egli parla poco, e quando parla, con tono da padrone.
Quest'uomo avrebbe attratta l'attenzione di Machiavelli. Poiché fu un uomo veramente forte di fisico e di carattere. Facoltà principale della sua coscienza fu di considerare tutti gli uomini governabili e comandabili per i loro vizi. Facoltà principale del suo carattere fu quella di considerare se stesso padrone, e tutti gli altri servi.
In molti lati, (meno che per il sanguinario si capisce) questo vecchio somigliava a Tiberio. Aveva la sua grandiosa statura, il disprezzo degli uomini, la conoscenza dei loro vizi, la durezza del cuore, una certa onestà personale, il disdegno delle lodi palesi, la facoltà di governare da lontano, il rifuggire la folla, la semplicità, fino a un certo momento, della vita. Ma la sua facoltà principale, come conduttore di uomini parlamentari, era quella di sentirsi padrone. Era in questo aiutato dalla bassezza degli altri, che si sentivano servi.
Più difficile gli sarebbe stato governare le folle, che hanno anche passioni di entusiasmi, ecc.; ed, infatti, egli ciò non cercava.
Egli è in disparte, solitario.

BOX 2
Tre domande all'Autore:

Questo “Giolitti. Il senso dello Stato” è nuovo rispetto ai libri precedenti?
R. Nel 2003 (l'anno della biografia scritta per Mondadori) non erano ancora disponibili molti documenti qui utilizzati sulla formazione politica di Giolitti, sulla crisi del “radioso maggio 1915”, quando venne ordito un attentato mortale alla sua vita, e sull'ottobre 1922, quando lo Statista rimase a Cavour mentre nella Capitale si giocava la partita fatale: la liquidazione del governo Facta, l'invito inviatogli alle 5 del mattino del 28 ottobre e il telegramma firmato dal generale Cittadini che il 29 invitò Mussolini a Roma per formare il governo. Per me questo libro è un punto di arrivo e, forse, di congedo. Auspico giovi a chi vorrà continuare la ricerca.

Qual è l'eredità di Giolitti?
Un'eredità morale e civile. Lo fece intendere egli stesso in una lettera del 1926 al nipote, Curio Chiaraviglio. Ormai ottantacinquenne, Giolitti leggeva le storie delle guerre del Cinque-Seicento per l'egemonia sull'Europa tra gli Asburgo e la Francia, quando l'Italia cadde sotto le dominazioni straniere. Come essa aveva superato tanti guai del passato, giungendo infine all'unificazione e all'indipendenza nazionale, così avrebbe fatto con quelli imperversanti, segnati dall'incipiente regime di partito unico. “La legge - osservava - riconosce il falegname, il filosofo, il ciabattino, l'avvocato, il cavadenti, il beccamorto ma il cittadino no. Il Civis Romanus sum è un'anticaglia. La libertà? Chi se ne ricorda? Ma il giorno in cui il popolo se ne ricordasse e la reclamasse?! Che cosa fare? Lavorare chi può ancora, stare a vedere chi non può più. Difendersi dal pessimismo. Pensare alla salute...”.
Bastano questa sue parole per capire l'attualità di Giolitti, il “Grande Saggio” della storia d'Italia.
Cavour, Giolitti, Einaudi. Chi è lo statista sommo?
Impossibile e inopportuno fare graduatorie. Meglio stare ai “fatti”. Cavour ebbe la (s)fortuna di morire il 6 giugno 1861, subito dopo la proclamazione del regno d'Italia, Nessuno sa come lo avrebbe governato. Non si era mai spinto a sud di Firenze, ove andò poche volte e litigò con il Re, molto più avveduto di lui. Nel 1944 Einaudi fu aviotrasportato dalla Svizzera a Roma per prendere le redini dell'economia di un Paese vinto, lacerato e poi sotto l'incubo del Trattato di pace, duramente punitivo. Giolitti fu presidente del governo cinque volte (1892-1921) di un'Italia che era e si conduceva da Stato indipendente e che entrò nel novero delle maggiori potenze. Soprattutto, però, non dimentichiamo che i veri artefici di quell' Italia furono i Re, unici garanti agli occhi degli altri Stati: nemici, alleati, mai amici.
Fine

Nessun commento:

Posta un commento