di
Aldo A. Mola
Vi
sono parecchie ragioni per ricordare Giovanni Giolitti (Mondovì, 127
ottobre 1842.- Cavour, 17 luglio 1928), massimo statista italiano
dalla proclamazione del Regno d'Italia a oggi. Ne ricordiamo almeno
quattro. (*)
Dall'annessione
alla Francia a capofila dell'indipendenza italiana
In
primo luogo Giolitti è la sintesi del regno di Sardegna restaurato
nel 1814 dopo l'età franco-napoleonica, quando il Piemonte venne
ridotto a XXVII Divisione dell'impero di Napoleone I. Se questo fosse
durato, non vi sarebbero mai stati Risorgimento, unità e
indipendenza. L'Italia sarebbe un'appendice di Parigi (come Oltralpe
qualcuno ancora pensa). In Piemonte, però, la Restaurazione non fu
pura e semplice Reazione. Lo si vide nel marzo 1821, quando il
ventitreenne Carlo Alberto di Savoia-Carignano, reggente, concesse in
via provvisoria la Costituzione di Cadice. A chiedergliela furono
aristocratici cresciuti negli ideali di libertà e di bilanciamento
dei poteri. Il nonno materno di Giolitti, Giovanni Battista Plochiù,
alto magistrato in età franco-napoleonica, era Legion d'Onore, come
Carlo Alberto era conte dell'impero. La Storia è continuità, anche
grazie a società segrete (carboneria, massoneria, illuminati...)
quando la libertà di opinione è conculcata. Giolitti nacque proprio
quando Carlo Alberto accelerò il rinnovamento dello Stato non per
pressione straniera ma dal suo interno, valendosi di una dirigenza di
patrizi, borghesi, militari, ecclesiastici accomunati da due
capisaldi: scienza e apertura all'Europa. A quel modo il Regno di
Sardegna si candidò a interpretare e a esprimere il sentimento
profondo dell'“opinione nazionale”, come auspicato da Silvio
Pellico, Massimo d'Azeglio, Cesare Balbo, da uno stuolo di patrioti,
anche esuli, come Vincenzo Gioberti. L'assillo del Piemonte non era
solo di conoscere Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino ma della
valutazione che in quelle capitali si aveva di Torino. Nel Regno di
Sardegna il “Quarantotto” non fu prodotto di importazione, ma
frutto di lunga maturazione di una nuova moderna classe dirigente. Lo
rievoca Giolitti nelle “Memorie della mia vita”, pubblicate il
27 ottobre 1922 per festeggiare il proprio 80° compleanno. Vi
ricorda l'incontro, al quale assisté, di Camillo Cavour con zio,
Melchiorre Plochiù, magistrato e azionista di “Il Risorgimento”,
una tra le grandi voci del Quarantotto, come “La Gazzetta del
Popolo” di Felice Govean e Giambattista Bottero. Lo Statuto
Albertino segnò il passaggio dalla monarchia amministrativa a quella
rappresentativa, l'elettività dei consigli comunali e provinciali,
l'uguaglianza dinnanzi alle leggi e, quindi, la libertà di culto:
caso unico in Italia. Da lì nacque
la Terza Italia.
Al
servizio dello Stato., cioè dei cittadini
Inoltre
Giolitti è il modello della generazione costruì lo Stato nuovo.
Laureato in giurisprudenza a Torino a 19 anni, volontario senza
stipendio al ministero della Giustizia a 20, sostituto procuratore
del Re a 24, per un ventennio progredì nel servizio dello Stato,
“prestato” al ministero delle Finanze con Quintino Sella,
segretario generale della Commissione centrale delle imposte dirette
(osservatorio privilegiato su Comuni e Province), della Corte dei
Conti (1877), commissario alle Opere Pie San Paolo di Torino (che
trasformò in “istituto bancario di sicuro avvenire”) e
consigliere di Stato a quarant'anni. Quando nel settembre 1882
accettò la candidatura alla Camera si mostrò politico vero, capace
di ascolto, abilissimo del procacciarsi il sostegno dei notabili,
società di mutuo soccorso e sodalizi vari. Lo documenta la sua molto
elaborata “Lettera agli elettori”, suggellata da una frase che
anticipa quasi mezzo secolo della sua “politica”: “Allorché
gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un
programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del
Paese”.
Estensore
del Manifesto dell'opposizione subalpina contro la “finanza
allegra” del ministro Agostino Magliani (1886), contrario a
dispendiose e rischiose avventure coloniali ma fermo nella difesa
della dignità nazionale, ministro del Tesoro e delle Finanze nel
Governo presieduto da Francesco Crispi (1889-1890), quello delle
grandi riforme (abolizione della pena di morte, trasformazione delle
Opere Pie in Ipab, elettività dei sindaci e dei presidenti delle
Deputazioni provinciali...), presidente del Consiglio dei ministri a
soli 50 anni, Giolitti affrontò la più difficile delle riforme: dar
vita alla Banca d'Italia in un Paese che trent'anni dopo la
proclamazione del Regno e venti dopo l'annessione di Roma aveva
ancora sei Banche abilitate a emettere moneta. Dovette fare i conti
con l'intreccio tra malavita organizzata e la spesso cortomirante
opposizione “democratica”. Perseguitato da Crispi, nel timore di
carcerazione arbitraria andò a Berlino, ospite della figlia
Enrichetta e del genero, Mario Chiaraviglio, massone. Rientrò quando
seppe dalla moglie, Rosa Sobrero (“Ginotta”) che il mandato di
comparizione non conteneva capo d'accusa.
La
terza lezione di Giolitti è l'alto senso della politica quale
servizio allo Stato. Nei lunghi anni di “disgrazia”, durante i
regni di Umberto I (tra il 1893 e il 1899) e di Vittorio Emanuele III
(1915-1919), la sua lealtà nei confronti della monarchia,
consustanziale all'Italia, non mutò di una virgola. Il monarchico
non è un cortigiano. Ha il dovere di dire al sovrano anche parole
“scomode”. Perciò egli rimase la grande “riserva” della
Corona, per risollevarne il prestigio. Avvenne nel 1899, dopo la
repressione della cosiddetta “insurrezione milanese” del
maggio1898, schiacciata con metodi inaccettabili e con l'arresto di
deputati in carica. Giolitti capitanò la svolta liberale d'intesa
con il democratico bresciano Giuseppe Zanardelli e con Ernesto
Nathan, gran maestro del Grande Oriente d'Italia poi da lui voluto
sindaco di Roma. Sempre capace di ascolto nel 1899, Giolitti recepì
i suggerimenti di Urbano Rattazzi jr: dare voce al “Paese che
lavora” e non inventare artificiosamente “nemici”. Iniziò il
quindicennio più prospero dell'Italia unita, quando anche
l'emigrazione (per lavoro, per fame) costituì una risorsa con le
“rimesse” degli italiani dall'estero. Al governo si alternarono
Zanardelli, lui, Alessandro Fortis (ex repubblicano), Sidney Sonnino,
ebreo di culto protestante, Luigi Luzzatti, ebreo non praticante, una
miriade di ministri e sottosegretari, sorretti da diplomatici,
militari, dirigenti ministeriali, prefetti, magistrati, scienziati,
accademici, docenti universitari, segretari comunali, insegnanti,
artisti e, mai dimenticare, ecclesiastici ispirati da Pio X, il papa
che “sospese” il divieto per i cattolici di voto attivo e passivo
nell'elezione della Camera. Dai 3 cattolici deputati del 1904 si
passò a 227 deputati liberal-moderati, radicali e persino massoni
eletti col voto dei cattolici (il “Patto Gentiloni” del 1913),
per arginare massimalisti, clericali e anarchici. Nel 1911 il
bilancio del Cinquantenario registrò il grande progresso civile e
sociale della Nuova Italia, cresciuta con la liberalizzazione degli
scioperi “economici”, cioè per miglioramenti salariali, divieto
assoluto di quelli “politici”, in specie nei servizi statali,
leggi speciali a favore delle regioni arretrate, provvidenze d'ogni
genere per istruzione e sanità. Conosceva bene la realtà. Contro
tutte le leggende, il Piemonte aveva enormi sacche di povertà,
generalmente sopportata con dignità anche grazie ai tanti Don Bosco.
Giolitti
meridionalista e neutralista
Sin
da giovane alto dirigente statale Giolitti aveva esplorato il
Mezzogiorno. Tra gli amici politici più fidati ebbe meridionali come
Tommaso Senise, Antonio Cefaly, Antonino Paternò Castello di San
Giuliano, Giuseppe Saredo, Pietro Rosano (che il 9 novembre 1903 si
sparò per evitare che uno scandalo squallidamente orchestrato ai
suoi danni potesse coinvolgere Giolitti e il neonato governo). Sapeva
che per unificare davvero l'Italia occorreva destinare al Sud enormi
investimenti per liberarlo dalla secolare arretratezza
(infrastrutture, servizi pubblici,...). Messa a frutto la
costosissima “impresa di Libia”, che all'Italia fruttò Tripoli e
la Cirenaica (per evitare che se ne impadronissero la Francia o
altri), Rodi e il Dodecanneso (liberati dal secolare turpe dominio
turco), nel 1914-1915 ritenne che l'Italia non poteva impegnarsi in
una guerra europea lunga e inevitabilmente esosa di vite e di
risorse, causa di divisione non solo tra Nord e Sud ma anche fra lo
Stato e le masse operaie naturaliter neutraliste e i
cattolici, contrari a conflitti ai danni dell'unico impero cattolico,
l'Austria. Neutralista, dopo l'intervento si schierò senza riserve a
sostegno della Vittoria come tutto il Piemonte, da sempre uso a
battersi “alle bandiere” con lo scudo sabaudo.
La
processione indiana: due passi avanti, uno all'indietro
Richiamato
una quinta volta al governo da Vittorio Emanuele III, Giolitti
ottenne successi fondamentali (abolizione del prezzo politico del
pane, risanamento della finanza pubblica, superamento senza soverchi
traumi della occupazione delle fabbriche da parte dei rivoluzionari
decisi a “fare come in Russia”, cacciata di d'Annunzio da
Fiume...). Chiese anche il trasferimento del potere di dichiarare
guerra dalla Corona al Parlamento. Fallì l'obiettivo. Fu la sua
prima seria sconfitta. La seconda venne col veto opposto da don
Sturzo a una coalizione liberal-cattolica-socialriformista. Lo
Statista trascorse a Cavour, in Piemonte, la notte fra il 27 e il 28
ottobre 1922, suo 80° compleanno: tormento e stasi. Il Re era a Roma
per sostituire Facta, dimissionario, con un presidente fattivo.
Mussolini temeva il ritorno di Giolitti. A Cesarino Rossi confidò: “
Se arriva Giolitti, siamo fottuti. Ha fatto sparare su d'Annunzio a
Fiume”. Ma a Giolitti l'invito telegrafico ad accorrere a Roma
arrivò solo “a cose fatte”. La storia non è una linea retta.
Neppure quella d'Italia. Procede a zig-zag. Giolitti, statista
serissimo e quindi capace di umorismo, osservò che il progresso è
come certe processioni indiane: due passi avanti e uno
all'indietro...
Nessuno
come lui ebbe alto il senso dello Stato: una formula intraducibile,
come la libertà, “ch'è si cara, come sa chi per lei vita
rifiuta”. Quando andava al Colosseo o in montagna, Giolitti aveva
sempre in tasca una delle cantiche della Divina Commedia. Chissà se
ne ricorderanno tanti dantisti “di complemento” da qui al 2021?
Aldo
A. Mola
(*)
E' in libreria il nuovo volume di Aldo A. Mola, Giolitti. Il
senso dello Stato, ed. Rusconi Libri, pp.XXII+626 e 16 ill.
DUE
BOX
BOX
UNO
Giolitti
secondo il generale Arturo Cittadini (1864-1928), primo Aiutante di
Campo di Vittorio Emanuele III (Dichiarazione al generale Angelo
Gatti, Palazzo del Quirinale, 30 marzo 1922): un ritratto acre, con
tratti veridici.
GIOLITTI COME
L'IMPERATORE TIBERIO?
Giolitti
ha dominato per molto tempo, anche quando non era al potere, la
Camera. Da che cosa proviene questa forza indiscutibile di Giolitti?
Ha prima di tutto la dote indiscutibile della conoscenza perfetta di
tutto il congegno amministrativo dello Stato. A lui non la si può
dare a bere. La seconda qualità è di essere inflessibile ed
irriducibile. La terza qualità è che è un uomo relativamente
onesto: vale a dire che per se stesso non ha rubato. Per conto suo
vive modestamente (a Roma) in un quartierino solito. La quarta
qualità è di tenere tutti a distanza. Egli parla poco, e quando
parla, con tono da padrone.
Quest'uomo
avrebbe attratta l'attenzione di Machiavelli. Poiché fu un uomo
veramente forte di fisico e di carattere. Facoltà principale della
sua coscienza fu di considerare tutti gli uomini governabili e
comandabili per i loro vizi. Facoltà principale del suo carattere fu
quella di considerare se stesso padrone, e tutti gli altri servi.
In
molti lati, (meno che per il sanguinario si capisce) questo vecchio
somigliava a Tiberio. Aveva la sua grandiosa statura, il disprezzo
degli uomini, la conoscenza dei loro vizi, la durezza del cuore, una
certa onestà personale, il disdegno delle lodi palesi, la facoltà
di governare da lontano, il rifuggire la folla, la semplicità, fino
a un certo momento, della vita. Ma la sua facoltà principale, come
conduttore di uomini parlamentari, era quella di sentirsi padrone.
Era in questo aiutato dalla bassezza degli altri, che si sentivano
servi.
Più
difficile gli sarebbe stato governare le folle, che hanno anche
passioni di entusiasmi, ecc.; ed, infatti, egli ciò non cercava.
Egli
è in disparte, solitario.
BOX
2
Tre
domande all'Autore:
Questo
“Giolitti. Il senso dello Stato” è nuovo rispetto ai libri
precedenti?
R.
Nel 2003 (l'anno della biografia scritta per Mondadori) non erano
ancora disponibili molti documenti qui utilizzati sulla formazione
politica di Giolitti, sulla crisi del “radioso maggio 1915”,
quando venne ordito un attentato mortale alla sua vita, e
sull'ottobre 1922, quando lo Statista rimase a Cavour mentre nella
Capitale si giocava la partita fatale: la liquidazione del governo
Facta, l'invito inviatogli alle 5 del mattino del 28 ottobre e il
telegramma firmato dal generale Cittadini che il 29 invitò Mussolini
a Roma per formare il governo. Per me questo libro è un punto di
arrivo e, forse, di congedo. Auspico giovi a chi vorrà continuare la
ricerca.
Qual
è l'eredità di Giolitti?
Un'eredità
morale e civile. Lo fece intendere egli stesso in una lettera del
1926 al nipote, Curio Chiaraviglio. Ormai ottantacinquenne, Giolitti
leggeva le storie delle guerre del Cinque-Seicento per l'egemonia
sull'Europa tra gli Asburgo e la Francia, quando l'Italia cadde sotto
le dominazioni straniere. Come essa aveva superato tanti guai del
passato, giungendo infine all'unificazione e all'indipendenza
nazionale, così avrebbe fatto con quelli imperversanti, segnati
dall'incipiente regime di partito unico. “La legge - osservava -
riconosce il falegname, il filosofo, il ciabattino, l'avvocato, il
cavadenti, il beccamorto ma il cittadino no. Il Civis Romanus sum è
un'anticaglia. La libertà? Chi se ne ricorda? Ma il giorno in cui il
popolo se ne ricordasse e la reclamasse?! Che cosa fare? Lavorare chi
può ancora, stare a vedere chi non può più. Difendersi dal
pessimismo. Pensare alla salute...”.
Bastano
questa sue parole per capire l'attualità di Giolitti, il “Grande
Saggio” della storia d'Italia.
Cavour,
Giolitti, Einaudi. Chi è lo statista sommo?
Impossibile
e inopportuno fare graduatorie. Meglio stare ai “fatti”. Cavour
ebbe la (s)fortuna di morire il 6 giugno 1861, subito dopo la
proclamazione del regno d'Italia, Nessuno sa come lo avrebbe
governato. Non si era mai spinto a sud di Firenze, ove andò poche
volte e litigò con il Re,
molto più avveduto di lui. Nel 1944 Einaudi fu
aviotrasportato dalla Svizzera a Roma per prendere le redini
dell'economia di un Paese vinto, lacerato e poi sotto l'incubo del
Trattato di pace, duramente punitivo. Giolitti fu presidente del
governo cinque volte (1892-1921) di un'Italia che era e si conduceva
da Stato indipendente e che entrò nel novero delle maggiori potenze.
Soprattutto, però, non dimentichiamo che i veri artefici di quell'
Italia furono i Re, unici garanti agli occhi degli altri Stati:
nemici, alleati, mai amici.
Fine
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