UN’ASSOLUZIONE
PLENARIA ALL'ITALIANA
Guardie
e ladri: il gioco d'infanzia tagliato sull'Italia
Ai
giardini pubblici, negli oratori, per le strade un tempo animate senza rischi
dalle “bande” di ragazzi, fra i giochi preferiti dominava la gara tra “guardie”
e “ladri”, con i secondi sempre più numerosi, perché, malgrado tutto, le forze
del Bene, poche ma buone, alla fine prevalgono su quelle del Male. I cittadini
dell'Ordine vincono sull'Avversario,
come l'Arcangelo Michele. I ragazzini, invero, non avevano un'idea precisa dei
valori contrapposti, tanto che, a fine partita, il gioco riprendeva a ruoli
invertiti: chi aveva fatto il ladro diventava guardia e viceversa. Era la sfida
a chi correva più lesto, sapeva nascondersi meglio, balzar fuori all'istante
opportuno e, tàc, toccare il bambino o la bambina della squadra avversa. Si
proseguiva così a perdifiato per ore. Poi, tutti amici come prima, a casa per
la cena. Altrettanto avveniva nelle colonie estive, comunali, parrocchiali,
spesso allestite dall'Azione cattolica per arginare i “Pionieri” organizzati in
alcune lande dal Partito comunista in attesa dell'Armata Rossa. Nell'immediato
dopoguerra, invece, lo scoutismo rimase fenomeno elitario, sospetto di
infiltrazioni massoniche.
Nei
campi estivi chierici giovanissimi insegnavano a giocare “a tattica”. Anche lì
i ragazzini venivano suddivisi in “bande”. Non erano guelfi o ghibellini,
cattolici o protestanti ma semplicemente compagni di vacanza che imparavano a
divenire grandi. Acquattati tra le fronde scoprivano fiori stupendi, seguivano
il volo di farfalle multicolore, scrutavano il prodigioso lavorio degli insetti
fra gli steli d'erba. Nei rovi attendevano pazienti il passaggio di uno, due,
tre rivali. Al momento giusto scattava l'assalto. Bastava un “alt” e si
contavano i punti del vantaggio guadagnato secondo i gradi dei “prigionieri”,
condotti nell'apposito accampamento: un soldato semplice valeva poco, un
sergente assai più, un ufficiale era una trofeo. Ma la vera magia di quegli
animosi giochi d'infanzia era la formula che a volte chiudeva la partita nel
più strambo dei modi. Proprio quando una banda era sicura della vittoria e
aveva raccolto gli avversari nel campo di prigionia, dai filari del gran turco,
dalle piantagioni di fagioli o da chissà quali porte degli inferi sbucava il
malandrino salvifico. Gli bastava sfiorare uno dei prigionieri e gridare
“Liberi tutti” perché i detenuti se la squagliassero come oggi da un campo
profughi in Libia dopo un bombardamento.
Un'Italia
senza eresie né guerre civili
Quei
giochi del buon tempo antico sono paradigma della storia d'Italia, che tanto
arrovella quando, ed è consueto, se ne scordino complessità, sinuosità e
brusche svolte. E' un percorso a
segmenti discontinui. Nell'ampia intervista rilasciata al “Corriere della Sera”
nel suo 90° compleanno Sergio Romano, ambasciatore, storico e saggista, ha
asserito che l'Italia ha vissuto “tre guerre civili: al Sud dopo il
Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine
tra l'8 settembre e il 25 aprile 1944: una guerra fra italiani che in Emilia
durò ancora per un altro anno”. È un invito a riflettere, più che un assioma,
anche perché la storiografia non detta sentenze. Essa cerca di comprendere e
utilizza formule possibilmente precise come fanno i meccanici quando prendono
in mano la chiave rispondente al bullone: tot pollici, sennò non funziona.
“Guerra civile” è tra le formule più delicate e disputate possibili. Per tale,
tecnicamente, s’intende la lotta tra due fazioni di cittadini di pari diritti
appartenenti a un identico Stato che, consapevoli delle proprie scelte e in
piena libertà d'azione, non eterodiretti da potenze straniere, si combattono
per opposti ordinamenti. Tali furono le guerre al crepuscolo della Roma dei
Consoli fra i seguaci di Cornelio Silla e di Caio Mario, di Giulio Cesare e di
Cneo Pompeo, aristocrazia senatoria contro “popolani”, estremo regolamento di
conti tra due opposte concezioni dello Stato, che tanto affascinò Teodoro
Mommsen. Già il successivo mortale duello tra Caio Ottaviano Augusto e Marco
Antonio fu vicenda del tutto diversa, perché contrappose due visioni
dell'impero, la Romana e l'Egizia, il Senatus populusque romanus e il diritto divino.
A
ben vedere, come non ebbe movimenti ereticali di massa, riforme evangeliche o
protestanti numericamente rilevanti, così l'Italia non soffrì mai vere guerre
civili. Non lo furono le compagnie di Santa Fede capitanate dal cardinale
Fabrizio Ruffo (neppure ordinato prete) contro la Repubblica napoletana del
1799, né le “masse cristiane” di Branda Lucioni e altre “insorgenze” che
nell'Italia settentrionale combatterono l'occupazione francese e la
scristianizzazione forzata e mirarono a restaurare sovrani spodestati. Sorrette
entrambe dal concorso di Stati stranieri, quelle fazioni non sono paragonabili
alle guerre civili tra cittadini della Res publica romana. A sua volta il
brigantaggio meridionale del 1861-1867 fu ribellione, anche prezzolata dall'estero,
di chi non si riconosceva negli ordinamenti innovativi dello Stato unitario:
servizio militare obbligatorio, nuovo sistema impositivo, uguaglianza dinnanzi
alle leggi, abolizione dei secolari privilegi ecclesiastici, sorretti dalla
manipolazione idolatrica delle coscienze e dalla demonizzazione dei non
cattolici e, peggio, dei non credenti. Si può anche dubitare che possa essere
classificata come guerra civile quella del 1943-1945 tra “partigiani” e
fascisti repubblicani, se non nel indicato dal comandante piemontese di
“Giustizia e Libertà”, Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Partito
nazionale fascista, secondo il quale essa era “guerra di civiltà”. Né fu guerra
civile il conflitto tra il Corpo volontari della libertà da una parte, proiezione
dello Stato italiano riconosciuto dalle Nazioni Unite, e gli “occupanti”, cioè
i tedeschi e i loro alleati. Comprendenti le milizie dello Stato repubblicano
d'Italia (denominazione originaria della RSI): un conflitto nel cui ambito si
contrapposero partigiani dai programmi, ideali e alleati stranieri molto
diversificati e i fautori del fascismo repubblicano. Gli uni e gli altri
rimasero minoranza quantitativamente irrilevante rispetto alla immensa “zona
grigia” la cui storia rimane da scrivere. L'Italia, insomma, non visse nulla di
paragonabile all'unica vera guerra civile dell'Europa occidentale, quella di
Spagna, che nel 1931-1940 ebbe il decennio agonico di un conflitto radicato nei
nei secoli e indurito sin dalla conquista franco-napoleonica d'inizio Ottocento.
Umberto
II, il Traghettatore
La
refrattarietà degli italiani a pulsioni destinate a esplodere in guerre civili
trova conferma nel cambio istituzionale del giugno 1946. Con sorpresa generale
esso avvenne in un clima complessivamente pacifico e, per i tempi, persino
ordinato. Dopo comizi accesissimi, dai toni minaci, straripanti manifestazioni
di piazza e timori di scontri volgenti in conflitto generale persino con
intervento di armi straniere, il Paese registrò il passaggio dalla monarchia alla
repubblica con un'onda di profonde emozioni individuali ma senza traumi
politico-militari nazionali. A moderare la transizione fu Umberto II, che
lasciò il suolo italiano sciogliendo dal giuramento alla Corona, ma non alla
Patria, quanti l'avevano pronunciato. Proprio il sovrano fu il sommo
traghettatore dall'uno all'altro regime. Già solo per questo merita molto più
di quanto le Istituzioni sinora gli hanno riconosciuto. Ma occorre dare tempo
al tempo. Nel frattempo il suo ruolo va apprezzato dalla storiografia per
comprendere la pacificazione scandita dagli atti successivi: la “firma” del
Trattato di Pace (sottoscritto dall'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna,
che firmò con la stilografica personale e impresse sulla ceralacca lo stemma di
famiglia per tacita protesta dell'Italia nei confronti dell'iniquo diktat
), la sua ratifica da parte dell'Assemblea Costituente e il varo della Carta
repubblicana, pilastri portanti dell'Italia ormai compresa nelle Nazioni Unite,
anche se per un decennio fermata sulla soglia della sua Assemblea.
La lenta genesi
dell'articolo 16 del Trattato di pace
In
“Chi doveva essere protetto dall'art. 16?” (speciale “Bombe sull'Italia”, n. 4)
il direttore di “Storia in Rete”, Fabio Andriola, ha riaperto il dibattito su
uno degli articoli meno noti e studiati del Trattato di pace imposto all'Italia
il 10 febbraio 1947. Fermo restando che il Trattato fu scritto in inglese,
russo e francese, nella pedissequa traduzione ufficiale esso recita: “L'Italia
non perseguirà né disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti
delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso
tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente Trattato,
espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate ed
Associate o di avere condotta un'azione a favore di detta causa”
(corsivi dell'autore). L'articolo 16 è connesso
al 15, che obbligò l'Italia ad assicurare ai suoi cittadini il godimento
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (“ivi incluse le libertà di
stampa, di religione, di opinione e di associazione”) e al 17 che, preso atto
dello scioglimento delle organizzazioni fasciste, attuato “in conformità
all'art. 30 della convenzione di armistizio”, impegnava a “non tollerare la ricostituzione
sul suo territorio di organizzazioni di questa natura, aventi un carattere
politico, militare o paramilitare, ed il cui scopo sia quello di privare il
popolo dei suoi diritti democratici”.
Le
premesse dell'art. 16 erano tre: una di carattere generale, altre connesse
all'armistizio del 3-29 settembre 1943. La prima era la consapevolezza che la
“guerra parallela” intrapresa dall'Italia il 10 giugno 1940 era stata decisa in
condizioni molto diverse da quelle narrate dalla propaganda di regime. I dubbi
e le contrarietà verso quel passo erano stati molteplici e forti. A parte gli antifascisti all'estero
(non tutti propriamente “esuli”: per esempio il monarcomaco Carlo Sforza,
Collare della SS. Annunziata, rimase sempre senatore e non venne mai privato di
alcun diritto), parecchi italiani, anche militari e persino di grado elevato,
nutrivano “simpatia per la causa delle Potenze Alleate” e non lo nascondevano
agli interlocutori più ricettivi quando se ne presentasse l'occasione. Se i
rapporti dell'Ovra e dei questori traboccavano di dichiarazioni di sfiducia nei
confronti delle armi italiane, di antipatia nei riguardi della Germania e di
inclinazioni verso paesi nemici (“occidentali” molto più che l'Urss), va
ricordato che lo scenario bellico cambiò ripetutamente in modo drastico,
costringendo partiti, movimenti e personalità a capriole clamorose. Fu il caso
del giudizio da esprimere sull'URSS e sulla Germania all'indomani del patto di
non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939). I lungimiranti (altra cosa
dell'“uomo della strada”, succubo della propaganda e di pregiudizi) sapevano
che non esistono nemici assoluti, identici e perpetui. Ci si combatte, ci si
ammazza, si tratta, si stabiliscono tregue, ci si scambiano i prigionieri ecc.
ecc. Mentre alcuni combattono altri patteggiano, talvolta in vista di un cambio
di alleanze. Da che mondo è mondo, gli uni e gli altri, anche con finzioni
spudorate, svolgono la propria funzione.
La
premessa formale dell'art. 16 fu il “Pro-memoria” anglo-americano di Québec (18
agosto 1943) collegato alle condizioni dal generale Dwight Eisenhower al
governo italiano per l'armistizio. Quando ancora gli anglo-americani pensavano
di contenere i germanici a nord della linea Venezia-Livorno, precisò che “se
informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente, i
bombardamenti degli alleati verranno effettuati nel limite del possibile su
obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze
tedesche”. Quel “pro-Memoria” venne integrato dalla Dichiarazione di Mosca del
30 ottobre 1943. A conclusione della riunione tripartitica
anglo-russo-americana questa stabilì il rilascio e la completa amnistia di
“tutti i prigionieri politici del regime fascista”, che ovviamente avevano
espresso “simpatia” per le Potenze Alleate Urss compresa) nella loro già
accennata geometria variabile.
I
passi fondamentali successivi verso il futuro art. 16 del Trattato di pace sono
documentati dai testi dell'armistizio e, ancor più, dai verbali delle riunioni
svolte a Cassibile il 3 e a Malta il 29 settembre 1943, con delegazioni ogni
volta del tutto diverse, ma convergenti sul nodo sostanziale: inglobare
l'Italia nella guerra delle Nazioni Unite contro la Germania. I Generali
Giuseppe Castellano e Walter B. Smith per conto di Badoglio e di Eisenhower il
3 settembre concordarono di coordinare i piani d'operazione. Smith assicurò che
“gli ufficiali ed i marinai italiani non sarebbero stati assoggettati ad alcuna
indegnità”. Nel timore che Vittorio Emanuele III e Badoglio venissero arrestati
dai tedeschi, si convenne che il capo di stato maggiore Vittorio Ambrosio
“parlasse da una stazione (radio) italiana e annunziasse che parlava con la
loro autorità”. Nella segretissima “missione” a Torino del 7 settembre forse
Ambrosio portò la registrazione dell'annuncio di armistizio, comunicato
l'indomani da Radio Algeri e ribadito da Badoglio, secondo la sequenza
stabilita a Cassibile.
A
Malta il 29 settembre il testo armistiziale previde che il governo italiano
consegnasse agli Alleati Mussolini, i suoi “associati fascisti” e tutti i
sospetti di crimini di guerra (il cui elenco gli sarebbe stato trasmesso),
nonché l'immediata liberazione di tutte le persone, “di qualsiasi nazionalità”
detenute o condannate, anche in contumacia, per le loro relazioni con le
Nazioni Unite. Durante la seduta collaterale alla firma, Eisenhower chiese che
il Re sottoponesse ufficiosamente agli Alleati la lista di ministri “politici”
da immettere nel governo; nel clima di collaborazione, Badoglio sollecitò il
rilascio del Maresciallo Giovanni Messe,
“ufficialmente aiutante del re” (oltre che antico iniziato massone alla loggia
“Michelangelo” del Grande Oriente d'Italia).
“Liberi tutti...?”
L'immunità
di quanti prima, durante e dopo la guerra avevano concorso a ritardare e, nei
modo più diversi, a “erodere” la portata filogermanica dell'intervento
dell'Italia in guerra era dunque una misura scontata. Fa parte delle regole
della guerra che, si sapeva anche prima di Clausewitz, sono la prosecuzione
della diplomazia con “argomenti” suasori talora ruvidi (compresi i
bombardamenti a tappeto, terroristici o pedagogici, secondo i punti di vista)
che però non escludono la continuazione dell'utilizzo di altri, quali
spionaggio, controspionaggio, disinformazione, propaganda, corruzione di
apparati, etc., in una ridda in continuo divenire. Per una pacata visione
dell'art. 16 del Trattato di pace un'altra considerazione si impone. Dal 10
giugno 1940 al 9 maggio 1946, capi delle Forze di terra e di mare erano stati
Vittorio Emanuele III e il Luogotenente del regno Umberto di Piemonte. I
ministri erano “ministri del Re”.Qualunque incriminazione di un militare per
simpatie espresse o collaborazione operata a favore delle Nazioni Unite avrebbe
comportato, salendo per li rami, anche quella del sovrano: cioè proprio del Re
in nome del quale venne operato il cambio del luglio-settembre 1943, con quanto
ne seguì sino al regime post-monarchico incardinato sul presidente provvisorio
della Repubblica, Enrico De Nicola (monarchico) e sul governo De Gasperi, unico
abilitato a legiferare. Mentre alcuni costituenti (come Benedetto Croce,
Roberto Lucifero, Leo Valiani...) votarono contro la ratifica del discusso
Trattato di pace, altri, parimenti liberali, dopo aggrovigliati e contraddittori
ragionamenti, si schierarono a favore. Furono i casi di Francesco Saverio Nitti
(a lungo esule) e di Vittorio Emanuele Orlando, nel 1924 candidato nel Listone
nazionale, come De Nicola. La ratifica ottenne 262 voti favorevoli, 68 contrari
e 80 astenuti: meno del 50% dei 555 costituenti. De Nicola, contrario a
firmarlo, fece una scenata apocalittica, rovesciando tutte le carte dalla
scrivania. La sua ratifica era però la via maestra per chiudere decenni di
storia d'Italia con un colpo di spugna: “liberi tutti”. Era anche il viottolo
per tornare a esercitare un minimo di sovranità nazionale dopo la pesante
sconfitta militare e in un pianeta ormai diviso dalla “guerra fredda”. Come
ruvidamente chiesto da Churchill e da Roosevelt, l'Italia pagava il salatissimo
“biglietto di ritorno” tra le democrazie parlamentari. Grazie al Re essa era
caduta sul fianco meno doloroso, lontano dalle mire di Stalin. Poteva persino
accampare a proprio merito la dichiarazione di guerra contro il Giappone,
deliberata dal governo Parri, con il consenso del Luogotenente Umberto di
Savoia.
Suscita
perplessità, invece, la posizione di De Gasperi. Il 31 luglio 1947, chiedendo
l'approvazione del Trattato, “dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose
(Grande Architetto? NdA), e dinanzi agli uomini” proclamò che l'Italia non
assumeva “nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né
per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo”. Era l'approdo di
quanto deliberato da rappresentanti di alcuni partiti antifascisti a casa di
Giuseppe Spataro una sera dell'agosto 1943: scaricare tutto il passivo della
sconfitta sul fascismo e sulla monarchia, con distorsione della verità storica.
Ma ormai Umberto II era all'estero.
Il
gioco del “liberi tutti” configurato dall'articolo 16 del Trattato di pace (ma
come dimenticare l' “amnistia Togliatti” del 22 giugno 1947?) mandò indenni gli
antifascisti che avessero fiancheggiato gli Alleati dal 10 giugno 1940 e tanti
fascisti in vario modo contriti prima e dopo il 25 luglio 1943; non si estese
invece a cittadini che, né ignavi né faziosi, propriamente fascisti non erano
stati mai, bensì solo “patrioti”: la sempre trascurata “zona grigia”, tuttora
in attesa di doverosa indagine storica.
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