NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 27 luglio 2019

L'ARTICOLO 16 DEL TRATTATO DI PACE (10 FEBBRAIO 1947)


UN’ASSOLUZIONE PLENARIA ALL'ITALIANA

di Aldo A. Mola

Guardie e ladri: il gioco d'infanzia tagliato sull'Italia
Ai giardini pubblici, negli oratori, per le strade un tempo animate senza rischi dalle “bande” di ragazzi, fra i giochi preferiti dominava la gara tra “guardie” e “ladri”, con i secondi sempre più numerosi, perché, malgrado tutto, le forze del Bene, poche ma buone, alla fine prevalgono su quelle del Male. I cittadini dell'Ordine  vincono sull'Avversario, come l'Arcangelo Michele. I ragazzini, invero, non avevano un'idea precisa dei valori contrapposti, tanto che, a fine partita, il gioco riprendeva a ruoli invertiti: chi aveva fatto il ladro diventava guardia e viceversa. Era la sfida a chi correva più lesto, sapeva nascondersi meglio, balzar fuori all'istante opportuno e, tàc, toccare il bambino o la bambina della squadra avversa. Si proseguiva così a perdifiato per ore. Poi, tutti amici come prima, a casa per la cena. Altrettanto avveniva nelle colonie estive, comunali, parrocchiali, spesso allestite dall'Azione cattolica per arginare i “Pionieri” organizzati in alcune lande dal Partito comunista in attesa dell'Armata Rossa. Nell'immediato dopoguerra, invece, lo scoutismo rimase fenomeno elitario, sospetto di infiltrazioni massoniche.
Nei campi estivi chierici giovanissimi insegnavano a giocare “a tattica”. Anche lì i ragazzini venivano suddivisi in “bande”. Non erano guelfi o ghibellini, cattolici o protestanti ma semplicemente compagni di vacanza che imparavano a divenire grandi. Acquattati tra le fronde scoprivano fiori stupendi, seguivano il volo di farfalle multicolore, scrutavano il prodigioso lavorio degli insetti fra gli steli d'erba. Nei rovi attendevano pazienti il passaggio di uno, due, tre rivali. Al momento giusto scattava l'assalto. Bastava un “alt” e si contavano i punti del vantaggio guadagnato secondo i gradi dei “prigionieri”, condotti nell'apposito accampamento: un soldato semplice valeva poco, un sergente assai più, un ufficiale era una trofeo. Ma la vera magia di quegli animosi giochi d'infanzia era la formula che a volte chiudeva la partita nel più strambo dei modi. Proprio quando una banda era sicura della vittoria e aveva raccolto gli avversari nel campo di prigionia, dai filari del gran turco, dalle piantagioni di fagioli o da chissà quali porte degli inferi sbucava il malandrino salvifico. Gli bastava sfiorare uno dei prigionieri e gridare “Liberi tutti” perché i detenuti se la squagliassero come oggi da un campo profughi in Libia dopo un bombardamento.

Un'Italia senza eresie né guerre civili
Quei giochi del buon tempo antico sono paradigma della storia d'Italia, che tanto arrovella quando, ed è consueto, se ne scordino complessità, sinuosità e brusche svolte. E' un percorso  a segmenti discontinui. Nell'ampia intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel suo 90° compleanno Sergio Romano, ambasciatore, storico e saggista, ha asserito che l'Italia ha vissuto “tre guerre civili: al Sud dopo il Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine tra l'8 settembre e il 25 aprile 1944: una guerra fra italiani che in Emilia durò ancora per un altro anno”. È un invito a riflettere, più che un assioma, anche perché la storiografia non detta sentenze. Essa cerca di comprendere e utilizza formule possibilmente precise come fanno i meccanici quando prendono in mano la chiave rispondente al bullone: tot pollici, sennò non funziona. “Guerra civile” è tra le formule più delicate e disputate possibili. Per tale, tecnicamente, s’intende la lotta tra due fazioni di cittadini di pari diritti appartenenti a un identico Stato che, consapevoli delle proprie scelte e in piena libertà d'azione, non eterodiretti da potenze straniere, si combattono per opposti ordinamenti. Tali furono le guerre al crepuscolo della Roma dei Consoli fra i seguaci di Cornelio Silla e di Caio Mario, di Giulio Cesare e di Cneo Pompeo, aristocrazia senatoria contro “popolani”, estremo regolamento di conti tra due opposte concezioni dello Stato, che tanto affascinò Teodoro Mommsen. Già il successivo mortale duello tra Caio Ottaviano Augusto e Marco Antonio fu vicenda del tutto diversa, perché contrappose due visioni dell'impero, la Romana e l'Egizia, il Senatus populusque romanus e il diritto divino.
A ben vedere, come non ebbe movimenti ereticali di massa, riforme evangeliche o protestanti numericamente rilevanti, così l'Italia non soffrì mai vere guerre civili. Non lo furono le compagnie di Santa Fede capitanate dal cardinale Fabrizio Ruffo (neppure ordinato prete) contro la Repubblica napoletana del 1799, né le “masse cristiane” di Branda Lucioni e altre “insorgenze” che nell'Italia settentrionale combatterono l'occupazione francese e la scristianizzazione forzata e mirarono a restaurare sovrani spodestati. Sorrette entrambe dal concorso di Stati stranieri, quelle fazioni non sono paragonabili alle guerre civili tra cittadini della Res publica romana. A sua volta il brigantaggio meridionale del 1861-1867 fu ribellione, anche prezzolata dall'estero, di chi non si riconosceva negli ordinamenti innovativi dello Stato unitario: servizio militare obbligatorio, nuovo sistema impositivo, uguaglianza dinnanzi alle leggi, abolizione dei secolari privilegi ecclesiastici, sorretti dalla manipolazione idolatrica delle coscienze e dalla demonizzazione dei non cattolici e, peggio, dei non credenti. Si può anche dubitare che possa essere classificata come guerra civile quella del 1943-1945 tra “partigiani” e fascisti repubblicani, se non nel indicato dal comandante piemontese di “Giustizia e Libertà”, Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Partito nazionale fascista, secondo il quale essa era “guerra di civiltà”. Né fu guerra civile il conflitto tra il Corpo volontari della libertà da una parte, proiezione dello Stato italiano riconosciuto dalle Nazioni Unite, e gli “occupanti”, cioè i tedeschi e i loro alleati. Comprendenti le milizie dello Stato repubblicano d'Italia (denominazione originaria della RSI): un conflitto nel cui ambito si contrapposero partigiani dai programmi, ideali e alleati stranieri molto diversificati e i fautori del fascismo repubblicano. Gli uni e gli altri rimasero minoranza quantitativamente irrilevante rispetto alla immensa “zona grigia” la cui storia rimane da scrivere. L'Italia, insomma, non visse nulla di paragonabile all'unica vera guerra civile dell'Europa occidentale, quella di Spagna, che nel 1931-1940 ebbe il decennio agonico di un conflitto radicato nei nei secoli e indurito sin dalla conquista franco-napoleonica d'inizio Ottocento. 

Umberto II, il Traghettatore 
La refrattarietà degli italiani a pulsioni destinate a esplodere in guerre civili trova conferma nel cambio istituzionale del giugno 1946. Con sorpresa generale esso avvenne in un clima complessivamente pacifico e, per i tempi, persino ordinato. Dopo comizi accesissimi, dai toni minaci, straripanti manifestazioni di piazza e timori di scontri volgenti in conflitto generale persino con intervento di armi straniere, il Paese registrò il passaggio dalla monarchia alla repubblica con un'onda di profonde emozioni individuali ma senza traumi politico-militari nazionali. A moderare la transizione fu Umberto II, che lasciò il suolo italiano sciogliendo dal giuramento alla Corona, ma non alla Patria, quanti l'avevano pronunciato. Proprio il sovrano fu il sommo traghettatore dall'uno all'altro regime. Già solo per questo merita molto più di quanto le Istituzioni sinora gli hanno riconosciuto. Ma occorre dare tempo al tempo. Nel frattempo il suo ruolo va apprezzato dalla storiografia per comprendere la pacificazione scandita dagli atti successivi: la “firma” del Trattato di Pace (sottoscritto dall'ambasciatore Antonio Meli Lupi di Soragna, che firmò con la stilografica personale e impresse sulla ceralacca lo stemma di famiglia per tacita protesta dell'Italia nei confronti dell'iniquo diktat ), la sua ratifica da parte dell'Assemblea Costituente e il varo della Carta repubblicana, pilastri portanti dell'Italia ormai compresa nelle Nazioni Unite, anche se per un decennio fermata sulla soglia della sua Assemblea.

La lenta genesi dell'articolo 16 del Trattato di pace
In “Chi doveva essere protetto dall'art. 16?” (speciale “Bombe sull'Italia”, n. 4) il direttore di “Storia in Rete”, Fabio Andriola, ha riaperto il dibattito su uno degli articoli meno noti e studiati del Trattato di pace imposto all'Italia il 10 febbraio 1947. Fermo restando che il Trattato fu scritto in inglese, russo e francese, nella pedissequa traduzione ufficiale esso recita: “L'Italia non perseguirà né disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell'entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate ed Associate o di avere condotta un'azione a favore di detta causa” (corsivi dell'autore). L'articolo 16 è connesso  al 15, che obbligò l'Italia ad assicurare ai suoi cittadini il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (“ivi incluse le libertà di stampa, di religione, di opinione e di associazione”) e al 17 che, preso atto dello scioglimento delle organizzazioni fasciste, attuato “in conformità all'art. 30 della convenzione di armistizio”, impegnava a “non tollerare la ricostituzione sul suo territorio di organizzazioni di questa natura, aventi un carattere politico, militare o paramilitare, ed il cui scopo sia quello di privare il popolo dei suoi diritti democratici”.
Le premesse dell'art. 16 erano tre: una di carattere generale, altre connesse all'armistizio del 3-29 settembre 1943. La prima era la consapevolezza che la “guerra parallela” intrapresa dall'Italia il 10 giugno 1940 era stata decisa in condizioni molto diverse da quelle narrate dalla propaganda di regime. I dubbi e le contrarietà verso quel passo erano stati molteplici e  forti. A parte gli antifascisti all'estero (non tutti propriamente “esuli”: per esempio il monarcomaco Carlo Sforza, Collare della SS. Annunziata, rimase sempre senatore e non venne mai privato di alcun diritto), parecchi italiani, anche militari e persino di grado elevato, nutrivano “simpatia per la causa delle Potenze Alleate” e non lo nascondevano agli interlocutori più ricettivi quando se ne presentasse l'occasione. Se i rapporti dell'Ovra e dei questori traboccavano di dichiarazioni di sfiducia nei confronti delle armi italiane, di antipatia nei riguardi della Germania e di inclinazioni verso paesi nemici (“occidentali” molto più che l'Urss), va ricordato che lo scenario bellico cambiò ripetutamente in modo drastico, costringendo partiti, movimenti e personalità a capriole clamorose. Fu il caso del giudizio da esprimere sull'URSS e sulla Germania all'indomani del patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939). I lungimiranti (altra cosa dell'“uomo della strada”, succubo della propaganda e di pregiudizi) sapevano che non esistono nemici assoluti, identici e perpetui. Ci si combatte, ci si ammazza, si tratta, si stabiliscono tregue, ci si scambiano i prigionieri ecc. ecc. Mentre alcuni combattono altri patteggiano, talvolta in vista di un cambio di alleanze. Da che mondo è mondo, gli uni e gli altri, anche con finzioni spudorate, svolgono la propria funzione.
La premessa formale dell'art. 16 fu il “Pro-memoria” anglo-americano di Québec (18 agosto 1943) collegato alle condizioni dal generale Dwight Eisenhower al governo italiano per l'armistizio. Quando ancora gli anglo-americani pensavano di contenere i germanici a nord della linea Venezia-Livorno, precisò che “se informazioni sul nemico verranno fornite immediatamente e regolarmente, i bombardamenti degli alleati verranno effettuati nel limite del possibile su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche”. Quel “pro-Memoria” venne integrato dalla Dichiarazione di Mosca del 30 ottobre 1943. A conclusione della riunione tripartitica anglo-russo-americana questa stabilì il rilascio e la completa amnistia di “tutti i prigionieri politici del regime fascista”, che ovviamente avevano espresso “simpatia” per le Potenze Alleate Urss compresa) nella loro già accennata geometria variabile.
I passi fondamentali successivi verso il futuro art. 16 del Trattato di pace sono documentati dai testi dell'armistizio e, ancor più, dai verbali delle riunioni svolte a Cassibile il 3 e a Malta il 29 settembre 1943, con delegazioni ogni volta del tutto diverse, ma convergenti sul nodo sostanziale: inglobare l'Italia nella guerra delle Nazioni Unite contro la Germania. I Generali Giuseppe Castellano e Walter B. Smith per conto di Badoglio e di Eisenhower il 3 settembre concordarono di coordinare i piani d'operazione. Smith assicurò che “gli ufficiali ed i marinai italiani non sarebbero stati assoggettati ad alcuna indegnità”. Nel timore che Vittorio Emanuele III e Badoglio venissero arrestati dai tedeschi, si convenne che il capo di stato maggiore Vittorio Ambrosio “parlasse da una stazione (radio) italiana e annunziasse che parlava con la loro autorità”. Nella segretissima “missione” a Torino del 7 settembre forse Ambrosio portò la registrazione dell'annuncio di armistizio, comunicato l'indomani da Radio Algeri e ribadito da Badoglio, secondo la sequenza stabilita a Cassibile.
A Malta il 29 settembre il testo armistiziale previde che il governo italiano consegnasse agli Alleati Mussolini, i suoi “associati fascisti” e tutti i sospetti di crimini di guerra (il cui elenco gli sarebbe stato trasmesso), nonché l'immediata liberazione di tutte le persone, “di qualsiasi nazionalità” detenute o condannate, anche in contumacia, per le loro relazioni con le Nazioni Unite. Durante la seduta collaterale alla firma, Eisenhower chiese che il Re sottoponesse ufficiosamente agli Alleati la lista di ministri “politici” da immettere nel governo; nel clima di collaborazione, Badoglio sollecitò il rilascio del Maresciallo  Giovanni Messe, “ufficialmente aiutante del re” (oltre che antico iniziato massone alla loggia “Michelangelo” del Grande Oriente d'Italia).

“Liberi tutti...?”
L'immunità di quanti prima, durante e dopo la guerra avevano concorso a ritardare e, nei modo più diversi, a “erodere” la portata filogermanica dell'intervento dell'Italia in guerra era dunque una misura scontata. Fa parte delle regole della guerra che, si sapeva anche prima di Clausewitz, sono la prosecuzione della diplomazia con “argomenti” suasori talora ruvidi (compresi i bombardamenti a tappeto, terroristici o pedagogici, secondo i punti di vista) che però non escludono la continuazione dell'utilizzo di altri, quali spionaggio, controspionaggio, disinformazione, propaganda, corruzione di apparati, etc., in una ridda in continuo divenire. Per una pacata visione dell'art. 16 del Trattato di pace un'altra considerazione si impone. Dal 10 giugno 1940 al 9 maggio 1946, capi delle Forze di terra e di mare erano stati Vittorio Emanuele III e il Luogotenente del regno Umberto di Piemonte. I ministri erano “ministri del Re”.Qualunque incriminazione di un militare per simpatie espresse o collaborazione operata a favore delle Nazioni Unite avrebbe comportato, salendo per li rami, anche quella del sovrano: cioè proprio del Re in nome del quale venne operato il cambio del luglio-settembre 1943, con quanto ne seguì sino al regime post-monarchico incardinato sul presidente provvisorio della Repubblica, Enrico De Nicola (monarchico) e sul governo De Gasperi, unico abilitato a legiferare. Mentre alcuni costituenti (come Benedetto Croce, Roberto Lucifero, Leo Valiani...) votarono contro la ratifica del discusso Trattato di pace, altri, parimenti liberali, dopo aggrovigliati e contraddittori ragionamenti, si schierarono a favore. Furono i casi di Francesco Saverio Nitti (a lungo esule) e di Vittorio Emanuele Orlando, nel 1924 candidato nel Listone nazionale, come De Nicola. La ratifica ottenne 262 voti favorevoli, 68 contrari e 80 astenuti: meno del 50% dei 555 costituenti. De Nicola, contrario a firmarlo, fece una scenata apocalittica, rovesciando tutte le carte dalla scrivania. La sua ratifica era però la via maestra per chiudere decenni di storia d'Italia con un colpo di spugna: “liberi tutti”. Era anche il viottolo per tornare a esercitare un minimo di sovranità nazionale dopo la pesante sconfitta militare e in un pianeta ormai diviso dalla “guerra fredda”. Come ruvidamente chiesto da Churchill e da Roosevelt, l'Italia pagava il salatissimo “biglietto di ritorno” tra le democrazie parlamentari. Grazie al Re essa era caduta sul fianco meno doloroso, lontano dalle mire di Stalin. Poteva persino accampare a proprio merito la dichiarazione di guerra contro il Giappone, deliberata dal governo Parri, con il consenso del Luogotenente Umberto di Savoia.
Suscita perplessità, invece, la posizione di De Gasperi. Il 31 luglio 1947, chiedendo l'approvazione del Trattato, “dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose (Grande Architetto? NdA), e dinanzi agli uomini” proclamò che l'Italia non assumeva “nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo”. Era l'approdo di quanto deliberato da rappresentanti di alcuni partiti antifascisti a casa di Giuseppe Spataro una sera dell'agosto 1943: scaricare tutto il passivo della sconfitta sul fascismo e sulla monarchia, con distorsione della verità storica. Ma ormai Umberto II era all'estero.
Il gioco del “liberi tutti” configurato dall'articolo 16 del Trattato di pace (ma come dimenticare l' “amnistia Togliatti” del 22 giugno 1947?) mandò indenni gli antifascisti che avessero fiancheggiato gli Alleati dal 10 giugno 1940 e tanti fascisti in vario modo contriti prima e dopo il 25 luglio 1943; non si estese invece a cittadini che, né ignavi né faziosi, propriamente fascisti non erano stati mai, bensì solo “patrioti”: la sempre trascurata “zona grigia”, tuttora in attesa di doverosa indagine storica.
   


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