NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 8 novembre 2017

DA PESCHIERA A PESCHIERA


dell'Avvocato Franco Malnati

Conferenza tenuta a Peschiera l'8 Novembre del 1998

Cari amici,
centocinquanta anni or sono, proprio qui, si verificavano fatti storici importanti, che oggi nessuno più vuole ricordare nel modo giusto, e che io modestamente sono andato a ripescare nei giornali di quel tempo lontano.
Vi leggo dal supplemento straordinario al n. 128 della Gazzetta di Firenze, in data 2 giugno 1848, il seguente BULLETTINO. Da due lettere officiali pervenute da Milano in data del 31 maggio ad ore 12 meridiane si raccolgono le nuove seguenti, che ci affrettiamo a pubblicare onde soddisfare alla molta e giusta ansietà del pubblico.   
"Una gran battaglia campale ebbe luogo il 30 maggio a Goito, nella quale 30.000 austriaci attaccarono 15.000 piemontesi che difendevano quella posizione, e che respinsero gli assalitori battendoli completamente. Il General Bava conduceva le truppe sarde, e si mostrò valentissimo e valorosissimo Capitano. Il Re Carlo Alberto ebbe una contusione ad un occhio, e il Duca diSavoia fu leggermente ferito in una coscia; ma non scesero però mai da cavallo. Due reggimenti di Cavalleria inseguono il nemico.
In questo momento giunge la nuova della resa di Peschiera.
Speriamo di essere in grado di dare più tardi ulteriori notizie, e specialmente relative alle nostre truppe delle quali il molto valore nel fatto d'arme del '29 caduto sotto Mantova giovava efficacemente alla causa italiana, benché non fortunato in se stesso. Le nostre perdite dolorose sono ora vendicate dal potente nostro alleato’’.
In quel giorno, 2 giugno 1848, parvero realizzarsi, per merito dell’esercito di Re Carlo Alberto, le grandi speranze che si erano nutrite, da due anni a quella parte, per la “causa italiana”, cioè per la causa della “Lega dei principi costituzionali italiani”, che mirava a conseguire l’unità del nostro Paese attraverso la forma della Monarchia Federale, ossia attraverso un patto federativo tra II Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana, lo Stato Pontificio, e il Regno delle Due Sicilie (i quattro principali Stati italiani).
Le speranze, giustificate dalla resa di Peschiera (una delle quattro fortezze del quadrilatero austriaco) e dalla brillante quanto difficile vittoria di Goito (il giornale toscano non manca di ricordare il valore delle truppe del Granducato, sconfitte il giorno prima a Cubatone, ma preziose per avere consentito agli alleati piemontesi di raggrupparsi a difesa), queste speranze dicevo, caddero pochi giorni dopo: da Palmanova a Treviso a Vicenza a Padova, gli eserciti di Radetzky passarono all’offensiva, e presto arrivò Custoza. Ma già prima sintomi importanti avevano indicato l’inversione di tendenza; il 29 aprile e ¡115 maggio pesavano come macigni sulla “causa italiana”.
Il 29 aprile il Papa Pio IX, colui che per primo aveva avviato, non appena eletto, il processo riformatore, colui che aveva benedetto l’Italia suscitando l’entusiasmo unanime dei patrioti, colui che calamitava al grido di 'Viva Pio IX” tutte le dimostrazioni popolari, aveva pronunciato un’allocuzione nella quale aveva preso apertamente le distanze degli eccessi violenti che stavano dilagando.
E il 15 maggio il Re di Napoli Ferdinando ll, che aveva concesso la Costituzione, in anticipo rispetto a tutti gli altri Sovrani, compreso Carlo Alberto, e che1 aveva mandato truppe fino in Lombardia per sostenere la guerra contro l’Austria (vistosi poi aggredito in casa propria da una setta di fanatici, i quali, oltre a pretendere che giurasse in bianco il testo ancora inesistente di una futura Costituzione, erano scesi in piazza a fare le barricate),
il Re di Napoli, dicevo, aveva deciso di reagire facendo intervenire l’esercito. I ribelli erano stati spazzati via in poche ore, e le masse popolari, schierate col Re, li avevano braccati per le vie e le case della Capitale. Alla sera, non se ne trovava più uno a cercarlo col lanternino.
Questo era accaduto, e la “causa italiana”, per il momento, era condannata a perdere.
Quale la vera ragione del collasso, sfociato a Custoza, e poi, l’anno successivo, a Novara, a Roma ed a Venezia?
Fu un avvenimento che gli storici conformisti ed abitudinari dimenticano facilmente. Un avvenimento lontano, straniero, assurdo.
A Parigi, il 24 febbraio 1848, una masnada di estremisti aveva rovesciato il legittimo governo del Re Luigi Filippo, e proclamato la repubblica. Una repubblica presto colorata di rosso, che, da febbraio a giugno, andò sempre più rotolando verso l'anarchia, per poi crollare miseramente a fine giugno, dopo sei giorni di rivolta sanguinosa, che costarono la vita all’Arcivescovo di Parigi ed a migliaia di persone, e condussero alla dittatura militare del Generale Cavaignac, preludio all’avventura bonapartista.
Gli eventi di Francia, tosto conosciuti attraverso il tam-tam rivoluzionario, accesero in tutta Europa un incendio che divampò rapidamente. Parvero ritornati i giorni avventurosi dell’ubriacatura giacobina, che cinquant’anni prima aveva devastato il mondo. I nostalgici di quel tempo rialzarono la testa, videro la rivincita, presero dovunque il sopravvento. In Italia, essi si inserirono nel movimento riformatore, ne presero la direzione, e lo trasformarono profondamente i fu - come si direbbe oggi - una mutazione genetica. L’obiettivo della repubblica sembrò a portata di mano, i principi costituzionali furono considerati fastidiosi ostacoli da eliminare con la forza, la rivolta scoppiò a Livorno, a Bologna, a Genova, a Milano, a Venezia, a Roma, a Napoli, contro Carlo Alberto, contro
Pio IX, contro il buon Granduce Leopoldo, contro Ferdinando di Borbone.
Ma il popolo, la gente, i cittadini comuni non ne volevano sapere. Erano favorevoli alle riforme, sentivano la nazionalità italiana, recalcitravano alla prepotenza straniera; ma respingevano l’eversione, l’anarchia, il disordine.
Ecco cosa accadde, a storici disattenti. Nel 1848-1849,  la soluzione repubblicana, unitaria o federale che fosse, venne meno il consenso popolare. La mutazione genetica aveva distrutto il movimento. Il federalismo repubblicano di Cattaneo non decollò neppure, mentre le repubbliche che effettivamente si formarono, sotto la guida di ferventi mazziniani, per raggiungere lo scopo finale di una repubblica centralista simile a quella francese, furono annientate, più che dalle armi austriache, dall'isolamento in cui si trovarono rispetto alle popolazioni. I milanesi accolsero gli austriaci, nell’agosto 1848, con applausi; i romani furono sollevati per la fine dell’avventura della repubblica romana; i toscani richiamarono Leopoldo ll a furor di popolo.
Finì così ii sogno della Lega Federale dei Sovrani legittimi. L’irruzione brutale dei repubblicani aveva spento la fiamma dell’entusiasmo, creato il panico, suscitato il desiderio del ritorno all’antico.
Certo, dieci anni dopo il processo unificatore poté riprendere.
Ma il contesto era completamente diverso.
Da un lato, era cambiata la situazione interazionale. La guerra di Crimea aveva segnato la fine del sistema - abbastanza fragile e incompleto - costruito da Metternich al Congresso di Vienna del 1815. Il predominio in Europa era passato dalla Santa Alleanza al blocco liberale anglo-francese, cui aveva abilmente aderito il Regno di Sardegna, e l’Austria (cui facevano ormai capo gli altri
Sovrani italiani) si trovava politicamente isolata, dopo avere negato, proprio nella Guerra di Crimea, il suo appoggio all’alleata Russia.
Dall’altro, Cavour e Vittorio Emanuele II, essendosi schierati dalla parte liberale, ed avendo puntato tutte le loro carte sull'aiuto francese, avevano dovuto accogliere le istanze dei mazziniani pentiti, ed attuare una sorta di ardita fusione tra il principio monarchico (accettato dagli ex repubblicani delusi da Mazzini) e le tendenze centraliste, radicali e laiche dei nuovi alleati.
Il momento decisivo per il successo della difficile operazione fu l’armistizio di Villafranca: il colpo di genio lucidissimo di Vittorio Emanuele II, realizzato nonostante le furibonde proteste di Cavour e la temporanea uscita di scena di quest'ultimo, consistette nell’accettazione del compromesso tra Napoleone III e Francesco Giuseppe, ma con la clausola "en ce qui me concerne" ossia soltanto per ricevere la cessione della Lombardia.
Con quella mossa il Re si liberò di colpo della tutela francese (implicita negli accordi di Plombières), e riprese libertà di azione, avvalendosene immediatamente per stracciare le restaurazioni emiliane e toscane previste a Villafranca, e per pilotare, attraverso uomini suoi (Ricasoli e Farini), l’annessione al Regno delle due importantissime regioni al centro d’Italia.
È curioso che la Storia non abbia percepito il rilievo fondamentale di quel semestre senza Cavour, durante il quale, quello che al Tessitore era sembrato un fallimento irreparabile, si trasformò nella creazione di un potente Regno dell'Alta Italia, esteso al di là  di ogni passata speranza, e soprattutto veramente indipendente da ogni influenza straniera.
Fu, questo, grande ed esclusivo merito del Re Galantuomo... anche se forse non tutti i passaggi per arrivare al risultato furono... da Galantuomo. Ma in politica il fine dovrebbe giustificare i mezzi, diceva Machiavelli. O no? O questo vale solo per gli avventurieri repubblicani?
E comunque, va detto che la Monarchia dei Savoia si portò dietro, sia pure dopo la morte del Re carismatico (che aveva, col suo gigantesco prestigio personale, assorbito tutti i contraccolpi), l’ipoteca delle sue alleanze di quel periodo. Perché le idee mazziniane, sia pure senza Mazzini, rimasero nel DNA del nuovo Regno; rimase il centralismo burocratico di tipo napoleonico e giacobino, rimase il concetto che il Re fosse soggetto ai capricci della democrazia e non avesse una centralità basata sulla tradizione, rimase una sostanziale soggezione alle utopie della rivoluzione francese.

La Monarchia dello Statuto Albertino, una Monarchia costituzionale “pura”, fondata sul Sovrano, diventò gradualmente una Monarchia parlamentare, nella quale il Re (fosse Umberto I o Vittorio Emanuele III) era una sorta di notaio del Parlamento, esecutore passivo della volontà della maggioranza.
Qui troveremo, adesso che passiamo a parlarne, il limite di un altro Re, Vittorio Emanuele III.
Vittorio Emanuele III poteva sicuramente, cogliendo l’onda dell’esecrazione universale per il delitto di Monza, ossia per il premeditato assassinio del padre, puntare sul “ritorno allo Statuto”, così come auspicavano autorevoli uomini politici del tempo. Non ritenne di farlo, forse per una forma di ingiusta sottovalutazione delle sue capacità, forse per l’educazione laico-progressista che aveva ricevuta, e che lo aveva reso scettico sull’avvenire della stessa
istituzione monarchica. Credette di andare incontro ai tempi nuovi dando spazio alla politica ed ai polìtici; e sbagliò, perché i politici si ricordarono di lui (tutti, da Giolitti a Mussolini) solo quando si trovarono nelle peste e gli gettarono sulle braccia situazioni create da loro e da loro non risolte.
Così avemmo un Re borghese, un Re soldato, un Re saggio, intelligente, coltissimo, onesto, eppure non abbastanza Re, perché rassegnato a non determinare gli avvenimenti, acconciandosi a subirli.
Ecco, il limite di questo piccolo e pur grandissimo Sovrano, ecco la palla al piede che pesò, dall’inizio alla fine, sul suo triste destino.

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