NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 7 agosto 2022

Capitolo XV: Il fiume e la nascita di Umberto


  di Emilio Del  Bel Belluz


Passavano i mesi, la situazione economica stava migliorando e la gravidanza di Elena stava continuando nel migliore dei modi. Tutti i componenti della famiglia cercavano quotidianamente di trovare degli obiettivi nuovi e Genoveffa era una persona veramente tenace e piena di speranza che contagiava tutti noi.  Era sempre allegra ed accudiva i nostri bambini con molto affetto. Elena a causa della gravidanza avanzata era subito colta dalla stanchezza e non aveva le forze necessarie per pensare alla casa e ai figli. Genoveffa, invece, era instancabile, e si faceva in mille. Alla mattina mentre mi accingevo a preparare le reti, Genoveffa era intenta ad accendere il fuoco, così   l’odore della legna si mescolava al profumo del caffè. A colazione trovavo sempre una fetta di torta che gustavo da solo, era un momento di tranquillità tutto mio, prima di uscire a pesca. Poi, mentre salivo nella mia barca, avevo l’abitudine di farmi il segno della  croce e di soffermarmi per recitare delle preghiere. Quanta felicità provavo nel sentire il suono delle campane del mio paese, che mi augurava una buona giornata.  Il pensiero era rivolto poi alla cara  Elena che godeva ancora del tepore delle coperte assieme ai due figli. Quel mese di dicembre era molto freddo, la neve non era scesa ma tutto lasciva presagire che sarebbe accaduto di sicuro. Spesso vedevo  dei tronchi che spiaggiavano sulle sponde del fiume.  Quando non era possibile trascinarli a casa da solo, dovevo ricorrere all’aiuto dell’asino. Quei tronchi venivano dal fiume come se avessi chiesto a Dio della legna per riscaldare la mia casa. Quando mi trovavo con la barca vicino a qualche ramo pesante lo trascinavo a riva. Quel legno ci avrebbe fatto compagnia nelle notti d’inverno. Amavo particolarmente il legno d’acacia che era piuttosto robusto,    nasceva spontaneo lungo le rive del fiume e   lo paragonavo alla forza del destino. Era un  legno che gettavo  nel fuoco come ultimo pezzo della giornata, perché l’indomani trovavo ancora le sue braci che mi permettevano di accendere il fuoco facilmente. L’acacia per diventare così rigida aveva dovuto lottare. Come gli alberi, ogni giorno, dovevano difendersi dagli agenti atmosferici, così anche l’uomo doveva combattere contro le difficoltà della vita e  ciò li rendeva ancora più forti. Ai miei figli avevo sempre spiegato che ogni cosa del creato andava rispettata e amata. Il buon Dio alla fine avrebbe provveduto a tutto, nel bene e nel male. La sua forza era la nostra, e per questo non bisognava dimenticarsi di Lui. Ai bambini avevo insegnato che il Buon Dio non abbandona mai i propri figli, come l’amore dei genitori è eterno. Nei giorni che seguirono, fece ancora più freddo. Mancava una settimana al Santo Natale, e anche se il ricavato della pesca era stato piuttosto scarso, non volevo che alla mia famiglia mancasse il presepe. Acquistai dal bottegaio del paese delle statuine che aveva    procurato con qualche difficoltà. A costruire i presepi era un frate del convento di Motta. Costui aveva delle mani d’oro e scolpiva il legno in modo davvero sublime, e non riusciva ad accontentare tutte le richieste che gli venivano fatte. Questo frate lo avevo visto una volta nel suo laboratorio nel santuari dove momentaneamente viveva. Era un uomo basso di statura, magro, dalla barba molto folta, e dalle mani piccole e possenti.  Questo frate che si chiamava   Domenico, passava dei mesi nella solitudine più assoluta, in un borgo abbandonato. Quando i suoi fratelli cappuccini lo raggiungevano per portargli qualcosa dal convento, aveva sempre parole gentili, e diceva  che a  lui non serviva proprio nulla e aveva tutto il necessario per vivere. In quel borgo ogni mattina celebrava la messa.  Era raro che qualcuno si trovasse in quel luogo. Una volta all’anno due pastori si fermavano con le loro greggi, e lo andavano a trovare. Questo frate li amava molto perché si sentiva come loro,  uno che doveva andare avanti nella notte senza stelle. Era molto ospitale. Accendeva il grande caminetto della canonica, li faceva accomodare, e cucinava le sue prelibate zuppe. I pastori gli portavano della farina e dei formaggi che preparavano loro e così veniva imbastito un pasto soddisfacente. Nella grande sala della canonica davanti al fuoco scoppiettante, questi pastori discorrevano con lui. Lo consideravano una cara persona di cui avevano fiducia. Gli raccontavano delle loro famiglie che stavano lontano e della nostalgia che assaliva i loro cuori. Erano uomini che dimostravano il doppio dei loro anni, la vita faticosa che conducevamo aveva invecchiato i loro corpi. Il vecchio frate parlava della vita di Gesù e raccontava loro di come non si era mai stancato di perdonare l’uomo che aveva sbagliato. Una volta si presentò un pastore che aveva chiesto di passare la notte in canonica. Costui aveva il volto disperato perché aveva commesso da qualche mese un omicidio:  una notte si era azzuffato con un uomo e lo aveva ucciso a coltellate.  Da quel momento non era più stato lui, da allora andava di paese in paese con le sue pecore; nessuno aveva sospettato che era colpevole di quell’omicidio.  Alla sera, anche se stanco, non riusciva più a dormire, non era mai tranquillo, il rimorso gli rodeva dentro. In famiglia preferiva non rimanere perché non si sentiva a suo agio. La donna che aveva sposato, la madre dei suoi figli, aveva tentato in tutti i modi di farsi dire quello che in effetti era accaduto, ma l’uomo aveva preferito tacere.  La moglie, su consiglio di un pastore, s’incamminò per raggiungere il borgo dove viveva Fra Domenico perché era da tutti considerato una persona saggia e santa. Il frate le consigliò di convincere il marito a recarsi da lui. Dopo varie discussioni, il pastore raggiunse Fra Domenico che conosceva molto bene la fragilità dell’uomo e i lati più oscuri della sua esistenza. Davanti al fuoco, nel silenzio di quel piccolo borgo, rotto solo dalle campane che segnavano l’ora, raccontò la sua storia. Durante la confessione il frate gli parlò della misericordia di Dio che perdonava tutti dopo un vero pentimento. La sua vita non era finita, si sarebbe potuto riscattare, facendo d’ora in avanti solo del bene.  Il pastore aveva le lacrime che gli solcavano il volto, ma si sentiva sollevato, il grosso peso che lo attanagliava era scomparso. Il cammino che gli si prospettava era lungo e faticoso. Il vecchio frate gli ordinò di costituirsi alla polizia, perché doveva pagare il suo debito con la giustizia. Ma il pastore non voleva saperne di costituirsi perché avrebbe abbandonato la sua famiglia nella miseria più nera. Fra Domenico andò nella sua piccola biblioteca e prese una bibbia rilegata in pelle nera. Dopo averla baciata e avvicinata al crocefisso, gli disse che ora gli avrebbe dato la penitenza. Il pastore, che nel frattempo aveva smesso il pianto liberatorio, lo ascoltò con molta attenzione. Da ora in avanti avrebbe dovuto leggere  ogni giorno dieci pagine della Bibbia, in questo modo avrebbe potuto riflettere sul suo passato e conoscere la strada da percorrere secondo gli insegnamenti di Cristo. Doveva pregare e prodigarsi a fare del bene al prossimo.  Il frate, d’altro canto, disse che si sarebbe occupato della famiglia che aveva subito il grande lutto ed era rimasta priva dell’unica forza di sostentamento. L’uomo che aveva ucciso tornò nella sua casa, si mise a lavorare  con impegno la terra, e condusse una vita retta. Tutte le sere con la moglie leggeva la Bibbia che gli arrecava un grande sollievo. Ogni anno con sua moglie si recava a trovare il frate fino a quando non fu trasferito al convento di Motta di Livenza. Fra Domenico, dopo tanta solitudine, passava le sue giornate a scolpire le statuine del presepe nel convento di motta. Quando tutti dormivano con l’aiuto di Genoveffa, addobbai l’albero e feci il presepe, le statuine odoravano ancora di legno. Costruì la capanna con del legno che avevo in casa. Nella notte di Natale, mentre le campane suonavano a festa, nella mia casa nasceva il Bambino Gesù, ma allo stesso tempo nasceva il nostro terzo figlio a cui venne dato il nome di Umberto, ricordando il figlio della Regina Elena del Montenegro, per i quali nutrivamo un grande affetto. Quando nacque Umberto il parroco del paese la informò con una lettera che non rimase inascoltata e  la famiglia Savoia fece pervenire un pacco con dei vestitini ed altri doni.  Nella lettera la sovrana scrisse delle parole molto commoventi, ringraziando poi per aver scelto il nome di suo figlio, che tra l’altro era nato nello stesso mio anno. La nascita di Umberto scrisse una nuova pagina nel libro della nostra famiglia e su cui riponemmo ogni speranza. Genoveffa  era stata assieme a noi in ogni fase della gravidanza e ora aveva deciso di lasciare la sua casa per stabilirsi per sempre con noi. Quegli avvenimenti non mi avevano fatto dimenticare il lavoro della pesca, anche se a dicembre il pescato era scarso.  L’anno si concluse  e ringraziammo Iddio per tutto ciò che avemmo ricevuto. Qualcuno scrisse che seguendo la retta via non si dovrebbe mai temere il male e, se qualora si presentasse, il buon cristiano troverebbe la via d’uscita. Quando si ha fede in Dio, nulla ci spaventa. Spesso il parroco veniva a farci visita, e la benedizione che ci veniva impartita ci dava la forza per affrontare le traversie della vita. Venimmo a conoscenza che la maestra del paese si era ammalata e aveva bisogno di assistenza. Elena e Genoveffa decisero che si sarebbero occupate di lei. Per maggiore praticità venne a vivere nella nostra casa, aggiungendo un posto a tavola per lei e Genoveffa condivise la ospitò nella  sua camera.  La maestra divenne la nostra “malatina”, come confidenzialmente la chiamavamo. Quando si sentì un po’ meglio, le piaceva insegnare ai bambini a leggere, e passava molto tempo con il piccolo appena nato. Volle rimanere con noi anche dopo che aveva ripreso ad insegnare. L’allegria della casa le era entrata nel cuore ed, al momento, non intendeva rinunciarvi.

Nessun commento:

Posta un commento