NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 17 marzo 2022

Il Re nella sua casa


di Emilo Del Bel Belluz


Il cuore di una persona che soffre la lontananza dalla sua casa, cerca in ogni momento un luogo dove mettersi a scrivere o a leggere. Il Re Umberto II, aveva un luogo che gli era caro dove trascorreva le sue giornate, ed era la sua biblioteca, un luogo silenzioso, dove lo accoglievano il mondo dei libri. Quando lasciò l’Italia non gli fu possibile portarsi i suoi libri, che negli anni aveva accumulato, essendo un grande lettore e avendo conosciuto molti scrittori personalmente, con i quali godette di una certa simpatia. 
Credo che una delle cose più belle per una persona sia quella di conoscere degli scrittori, parlare con loro discutere dei loro libri, di come sono nati. Il Re aveva avuto la possibilità di farlo, e nella oscura lontananza dell’esilio siano tornate alla mente questi scrittori. Nel rileggere certi loro libri, gli è venuta in mente la giovinezza, il tempo passato che non torna. Gli scaffali  che possedeva in Italia, furono  saccheggiati durante la guerra, molti di quei libri fecero il giorno del mondo. Il motivo di questa cosa è dato da quei soldati americani che si impossessarono di quei volumi. Una volta finita la guerra, nella loro Patria, pensando al male, che avevano fatto nel prenderli come un bottino di guerra glieli inviarono, con una lettera di scuse. 
Il Re dal suo esilio ebbe la possibilità di ritrovare tanti di quei testi a cui era legato. Il Re riceveva da tutte le parti del mondo delle riviste d’antiquariato, e se vedeva un suo libro lo acquistava, e ne era felice. Credo che la felicità più grande, nel mondo dei libri gliela abbia data un armatore italiano che una volta giunse con la sua barca e gli portò delle casse di libri e quadri che i fedelissimi del Re avevano nascosto durante i saccheggi di guerra. Questo armatore non volle essere in nessun modo pagato dal Re, si fece promettere che una volta ritornato in Italia, l’avrebbe fatto con la sua nave. Il buon Re gli disse che bne sarebbe stato felice, ma questo non avvenne mai. 
Quella biblioteca di Cascais, continuò a crescere, arrivando a contenere ben 24 mila volumi, una vera e propria biblioteca colma di volumi di pregio. In quella biblioteca spiccavano tanti libri con dedica che gli scrittori facevano omaggi al loro RE. Penso a Salvator Gotta, a bino Sanminatelli, Roberto Ridolfi, e tanti altri. La vita è fatta di tanti momenti, ma ce ne sono certi che vorremmo potessero durare per sempre. Quando il postino gli portava un libro, nel cuore del Re, si apriva per far entrare la gioia. Leggendo i vecchi articoli di giornali, il sovrano aveva l’abitudine di farsi portare il pranzo, proprio nella biblioteca, nel suo rifugio. Da quel posto, gli sembrava d’essere a casa. Se apriva la finestra sentiva il rumore rasserenante del mare, e spesso si affacciava per osservare le navi che passavano, e le immaginava che fossero italiane, che avessero la bandiera del Re. L’Italia non fu un paese generoso con il suo Sovrano, ma non tutti ne conoscevano il cuore e la sua grandezza.  
Il Re alla sua morte avvenuta il 18 marzo 1983, era solo nella sua stanza d’ospedale, i famigliari confortati perché le sue condizioni erano migliorate, non erano presenti, e il Re chiudeva la sua esistenza terrena. In quella stanza era presente una  infermiera, che vide gli ultimi istanti di vita. E che sentì che pronunciava come ultima parola “Italia”. Tante volte mi sono chiesto, se in quella stanza d’albergo ci fosse un crocifisso, sul quale il Re avesse posato l’ultimo saluto, come un cristiano fa. La vita del Re, era stata sempre in sintonia con quello che faceva  il cristiano. La fede è e sarà sempre una grande forza d’animo, un lasciapassare per il paradiso. Sulla morte del Re, ho scritto molte pagine, lo faccio ogni anno, nel giorno del suo anniversario, e con la stessa malinconia che da sempre trova in me la sua forza. Sono sempre stato dalla parte di quelli che subiscono una ingiustizia, mi sono sempre battuto per questo, tanti non lo hanno fatto, si dimenticano gli uomini che si sono amati, ma verrà il tempo in cui qualcosa cambierà, la storia è ancora scritta con la penna dell’odio, specialmente i compagni, non vogliono riconoscere gli errori commessi e le violenze contro gli italiani che non la pensavano come loro. Inutile dire che a distanza di quasi ottanta anni, la repubblica italiana teme ancora i Savoia. Lo fa con una storia raccontata in casa, modificata, per far apparire la repubblica come la massima espressione della democrazia. 
Gli uomini veri sono quelli che riconoscono le proprie colpe, ma nessuno lo fa. Al Re d’Italia dopo un esilio da vivo, gli spetta quello da morto, che dura ormai da quasi quaranta anni. Il mio paese mi ha fatto del male , scrisse un poeta francese prima che lo uccidessero. Il mio paese ha fatto del male a quelli che amano i Savoia, impedendo loro che riposino al Pantheon a Roma. Se questa opportunità ci fosse, allora si potrebbe parlare di pacificazione. Alla morte del Re Umberto II, uno scrittore e direttore della Rivista intervento scrisse nel n. 61 del mese di Marzo “ Morte del nostro Re” questo il titolo molto  intenso. 
“ Davanti alla salma del nostro Re, davanti all’immagine alfine serena del suo volto, da cui sembra tralucere il suo estremo richiamo all’Italia, tace in noi qualunque desiderio di veemente polemica verso la classe politica  plebaica che ci circonda. La provvidenza l’ha punita, il Re è rimasto Re: esiliato fino alla morte, ma RE. Da quasi un millennio il piccolo Casato, sorto a cavallo fra la Francia ed un po’ d’Italia, e poi via via cresciuto, è parte inscindibile della nostra storia italiana e del suo lento procedere dal momento in cui di una Italia italiana si cominciato a parlare. Da  mille anni Casa Savoia guarda all’Itali, e l’Italia guarda a Casa Savoia, come quel Vescovo principe dell’Alta Valle d’Aosta che ad Umberto  Bianchemani disse: Dio sia benedetto che ci ha dato la tua spada ed il tuo coraggio. Faticosa, bella la storia di questa Casa, del suo continuo crescere e costruire, pietra su pietra ; bella e schiavitù, bella la sua difesa ad oltranza del confine alpino. 
Non fu certamente un caso che nessuna  Dinastia europea abbia raggiunto, con essa, il millennio. Quando, nel pomeriggio del 18 marzo 1983, Re Umberto ha ancora una volta invocato l’Italia, Egli ci ha detto che, per trentasette anni di esilio, aveva preferito la via dell’esilio a quella del disonore, aveva preferito da Re difendere il R, fedele custode di quella millenaria catena. Anche il Re è un uomo, ma soggetto ad alti, sofferti dolori:così l’umano desiderio di rivedere la sua terra, di toccarla, si è piegato alla condizione di un Re che non rinuncia che non rinuncia ad essere Re, la parola che egli avrebbe potuto dire per tornare in Patria, altri la disse, non il Re: morto in esilio, ma Re. 
Per trentasette anni non lo abbiamo mai dimenticato, dal giorno in cui il RE riassunse in sé la Patria italiana: qualunque relitto di vecchi risentimenti, le pene ed i dolori sofferti, tutto fu cancellato: ci schierammo al Suo fianco, naturalmente, quello era il nostro posto. E con Lui siamo rimasti, esiliati in certo senso anche noi. Il mondo a noi avverso ha dannato lui, ha dannato il padre, ha dannato mille anni di Casa Savoia, fine le pagine più belle ed audaci del nostro Risorgimento: tutto fui avvolto dalla nube della abbietta epurazione di un lungo processo storico che aveva visto procedere di pari passo Italia e dinastia Sabauda. Il Re soffrì, ma tacque, seppe ancor tenere, da Re, un’aristocratica riservatezza. Il Re lascia agli altri il gusto della polemica. Molti di noi andarono a trovarlo nella casa di Cascais, e nessuno potrà mai dimenticare la Sua estrema cortesia ed il suo stile sovrano, offerti a tutti come una testimonianza di quello che un Re nel parlare e nel tacere è segno di difesa di un altro Re. 
Che cosa avrebbe potuto fare il Re se non avesse lasciato l’Italia nel 1946, nessuno lo sa; ma sappiamo, senza più remora alcuna, che l’Italia non può essere pagadi quello che trentasette anni di questa repubblica hanno fatto o piuttosto disfatto; che l’idea di un RE più volte è ricorsa quando si è cercato l’uomo non eletto, se non da una lunga tradizione storica. Esiliati anche noi in un paese che ci è estraneo, abbiamo visto fedelmente in Lui il Re, il nostro Re: il Re che porta la corona come un cilicio, il Re che morirà in esilio ma non pronuncerà mai la parola della resa. Ed è questo il grande  insegnamento che Egli lascia a noi ed agli italiani che verranno”. 

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