Articolo pubblicato grazie alla cortesia dell'Ing. Domenico Giglio
Un insospettabile Spadolini analizza i tanti modi di essere monarchici, nel 1950, con una lucidità inattesa.
di GIOVANNI SPADOLINI
da "Il Borghese" 15 Maggio 1950
QUANDO l'on. Nenni ha impostato alla Camera, con l'impeto generoso che lo distingue, la questione della revisione del Concordato, l'interruzione più significativa fu quella dell'on. Leone Marchesano, monarchico. « Oggi è chiaro », esclamò a un certo punto Nenni, « che la Chiesa tiene al guinzaglio lo Stato»; e l'on. Marchesano, di rimbalzo «E non poteva essere diversamente». In quel momento, il parlamentare monarchico intendeva alludere alla funzione storica che la Monarchia italiana assolse rispetto alla Chiesa, funzione che fu a volta a volta di antitesi, di ostilità, di rèmora, di freno, tesa ad ogni momento ad affermare l'autonomia dello Stato, la sua validità rivoluzionaria, collegata alla soluzione giacobina del Risorgimento.
Ma quanti sono, in Italia, i monarchici dichiarati che abbiano il coraggio di ricollegarsi a quel filone?
Non c'è dubbio che la restaurazione monarchica avrebbe un senso solo come espressione di una grande reazione laicista, attraverso una forte politica estera e una rigorosa unità amministrativa. Ma il dramma dei monarchici è quello di non poter accettare gli strumenti della sedizione o della sovversione a costo di negare se stessi e la loro pregiudiziale fondamentalmente conservatrice e unitaria. Se la Monarchia si identifica con la causa dell'ordine, come promuovere una ribellione? Se la Monarchia presuppone la unità, come gettare il paese nella divisione? Se la Monarchia si fonda sulle masse, come confonderla con una reazione borghese?
Da qualunque punto di vista si consideri, un eventuale ritorno monarchico presuppone un intervento o una mediazione straniera o comunque una forma di appoggio dell'uno o dell'altro blocco di potenze, un tale concorrere di circostanze internazionali che lo renda possibile o necessario. Al tempo della discussione sul Patto Atlantico, i parlamentari monarchici si astennero e non pochi si dichiararono contrari, coerenti a tutta la tradizione nazionalista, che si era sempre opposta alle alleanze con le potenze marittime in vista di un grande blocco continentale, capace di tutelare gli interessi e le aspirazioni espansionistiche dell'Italia. Alcuni eminenti pubblicisti di destra arrivarono a sostenere, con argomenti tutt'altro che irrilevanti, la necessità di una politica di equidistanza fra il gruppo occidentale e quello orientale (Nenni ha ripreso le tesi dagli storici e dai diplomatici della Monarchia), con una mano tesa, se necessario, verso la Russia e le potenze dell'est, destinate ad assumere prima o poi l'ufficio proprio della conservazione e dell’equilibrio europeo, un tempo rappresentato dall'Austria e dalla Germania: ed è probabile che il calcolo di Badoglio, al tempo della ripresa dei rapporti diplomatici con Mosca, non fosse molto diverso.
Ma per i monarchici di oggi si propone un grave quesito: come conciliare l'anticomunismo prevenuto, fanatico, ossessionante che va dagli estremi delle dame patronesse a quelli delle squadre d'attivisti con la loro posizione di «machiavellismo » internazionale, con la loro linea di attesa che potrebbe domani piegare anche verso la Russia? E d'altra parte, se una ripresa monarchica presuppone un ritorno allo spirito e alle idealità nazionali, che animarono le generazioni dell'unità, come accordarlo con la politica del Piano Marshall e degli aiuti americani? Costumi ed abitudini, relazioni personali, orientamenti ideologici, interessi economici volgono la maggior parte dei monarchici verso l'occidente e la concezione occidentale della vita ma può bastare ciò a superare l'avversione alla Inghilterra e la diffidenza verso l'America, l'odio verso il laburismo e il protestantesimo?
I monarchici sanno fin troppo bene che il massimo cemento unitario fu rappresentato in Italia, per ottant'anni, dalla politica estera, da quella serie di iniziative temerarie, che sole potevano supplire alle insufficienze della formazione nazionale, dando al paese la sensazione della forza, l'illusione della potenza, il fantasma della grandezza. Ma un «rovesciamento di alleanze » non aprirebbe la strada a tutte le sedizioni. Non potrebbe essere che la causa monarchica coincidesse a un certo punto con la causa dei rivoluzionari? Sono problemi che i monarchici preferiscono lasciare senza risposta. Ma non si deve credere che non li avvertano. Ogni giorno di più, l'ipotesi monarchica assume un sottinteso «sovversivo » rispetto allo Stato: la grande coalizione di destra, che il P. N. M. caldeggia, dal Movimento Sociale ai liberali, non è che una specie di «ricatto» alla democrazia cristiana, una minaccia scoperta alla classe dirigente repubblicana perché rinunci alla sua politica e adotti un indirizzo e un orientamento diversi.
Ma quali? Su tal punto, le vedute dei monarchici non sono chiare, almeno quattro essendo le «varietà» politiche che li caratterizzano, e tutte in contraddizione fondamentale fra loro. Primi, per anzianità, vengono i monarchici clericali, coloro che si rifanno alla filosofia di De Maistre, che giurano nella dialettica di Bossuet, che si propongono a modello Solaro della Margarita, che credono all'attualità del «trono e altare». Agli occhi del gruppo, che si ricollega idealmente ai clerico - moderati della «Rassegna nazionale», solo l'alleanza fra il Papato e la Monarchia potrebbe resistere al dissolvimento della vita nazionale, riportando all'equilibrio dell'ancien régime, all'ordine della società organica, che ignorava le secessioni di classe e di fede, la dialettica delle idee e la gara dei partiti, gli squilibri del capitalismo e gli abissi delle lotte sociali. La loro posizione, a sottinteso romantico e reazionario, presuppone la svalutazione del liberalismo e della democrazia, non senza una nostalgia dichiarata e sottintesa del paternalismo corporativo; e su tal punto vi è indubbiamente una confluenza con le posizioni dei fascisti monarchici. Ma quale antitesi in tutto il resto!
Pur prescindendo da quanto il fascismo rappresentò di giacobinismo plebeo, di reviviscenza ghibellina, di rivolta del piccolo borghese anticléricale e massone, certo è che la sostanza della politica religiosa dì Mussolini si rifece a un'ispirazione «bonapartista», mirò cioè a rattacher les prétres et la réligion allo Stato col sottinteso di sfruttare la protezione cattolica nella politica imperialistica e non senza la speranza di arrivare a una Chiesa nazionale: proprio l'opposto di quello a cui guardano gli ultimi reazionari alla Bonald o alla Veuillot, in cui rivive più violenta che mai la condanna dello Stato a vantaggio dell'ideale della Chiesa. La Conciliazione è interpretata dagli uni come la premessa perché lo Stato ritorni alle sue origini confessionali, alla logica pessimistica imposta dalla stessa insufficienza del potere civile, ma per gli altri è viceversa il presupposto per valorizzare lo Stato guerriero e conquistatore, missionario e imperialista, che non conosce altro limite al di fuori della forza e della potenza.
Ed ancora.Vi sono i monarchici nazionalisti, che si rifanno a Corradini e a Federzoni ed in linea teorica risalgono talvolta a Maurras e a Daudet: la loro posizione si differenzia da quella dei M.S.I., in quanto vede nell'alleanza col cattolicesimo uno strumento della « morale sociale », una difesa dell'ordine, ma
coincide nel fine di assegnare alla Chiesa una funzione di appoggio io alla «nazione», allo «Stato nazionale», rinnovando l'eterna retorica della Croce e dell'Aquila. Vi sono infine i monarchici liberali, parte disseminati nelle formazioni legittimiste, parte dissimulati nello stesso partito ufficiale, che, più coerenti e consapevoli di tutti, identificano la causa monarchica cori quella di una difesa degli istituti tradizionali del paese dalle insidie dei neoguelfismo e dalle minacce del sovversivismo, pronti a rivendicare il 20 settembre e l'eredità di Ricasoli e di Menabrea.
L'ala monarchica dei liberalismo, l'unica che senta il legame profondo fra la Monarchia e le tradizioni risorgimentali che simularono la rivoluzione, affidando all'istituto regio una funzione rivoluzionaria e progressiva, la difesa di tutti quegli ideali che erano stati consumati e bruciati nel compromesso del '60; ma come potranno mai accordarsi, almeno nel fondo della coscienza, con i monarchici reazionari, che negano la stessa validità plebiscitaria dello Stato italiano, o con i monarchici nazionalisti e fascisti, che combattono gli istituti parlamentari e democratici che soli giustificarono l'usurpazione sabauda? Perché opporsi alla Repubblica guelfa in nome di un'ipotetica Monarchia clericale o bonapartista? Il ritorno dei Savoia, con l'appoggio della Chiesa, implica la rinuncia della Corona a tutte le pregiudiziali del Risorgimento
quindi svaluta in anticipo la funzione futura del liberalismo: al monarca che si inginocchia a Cascais, un liberale coerente dovrebbe preferire un presidente che prende la messa al Quirinale.
Quando i liberali parlano di «restaurazione monarchica», non di rado alludono a una grande reazione borghese. Avversari della Chiesa per definizione, gli ultimi eredi della vecchia Destra sanno benissimo che la borghesia italiana ha strappato molte delle sue conquiste in una lotta sorda e difficile con la tradizione cattolica e che, se un pericolo la sovrasta, è quello di essere liquidata gradualmente dal riformismo guerra, che annulla tutte le antitesi di classe in una politica a sottinteso popolare e di massa. Ma qual è la borghesia che potrebbe appoggiare domani un ritorno dei Savoia? Chi fondò il Partito, nazionale del lavoro, uno dei nuclei dell'attuale partito legittimista, ebbe la vaga intuizione che la tradizione monarchica in Italia non si fonda affatto sull'alta borghesia industriale e sulla plutocrazia, che arieggiò sempre a sentimenti repubblicani, ma sulla piccola borghesia dei lavoratori autonomi, professionisti liberi, coltivatori diretti, affittuari, proprietari, esercenti, artigiani, alleata alle grandi masse del mezzogiorno, sacrificate dal protezionismo del nord.
Se un giorno vasti strati di popolo si volgessero verso una restaurazione della Corona, ciò avverrebbe solo per trovare istintivamente una protezione, una tutela, uno schermo contro le insidie del privilegio, che in una Repubblica incontra sempre meno resistenza che in una Monarchia; per creare in altre parole l'illusione di un'autorità imparziale, equilibratrice, superiore ai partiti. In tal senso la Monarchia potrebbe essere, per molti gruppi del paese, tiri correttivo alla democrazia, un riparo dalle sorprese del suffragio universale, una reazione alla prevalenza della demagogia. La Monarchia non può sperare niente dai ceti dirigenti del paese, dai nuclei monopolisti della finanza e dell'economia, che tendono ad asservire il potere politico purchessia e temono ogni mutamento, sai esso restaurazione o rivoluzione. In tutt'altra direzione è il suo destino: in tutti quegli strati grigi, umiliati, sacrificati, impoveriti, dispersi, ma sempre vivi e presenti e operanti, di « borghesia del buon senso che teme il pericolo comunista ma non vuole il governo dei preti, che voterebbe per Saragat ma diffida delle scissioni socialiste, che accetta il progresso ma si ribella alle riforme di De Gasperi, che va in chiesa ma non tollera il predominio dell'Azione cattolica. P- la borghesia che non nega la libertà di lavoro ma è disturbata dagli scioperi, che comprende le rivendicazioni del proletariato ma vuole i treni in orario, che non è imperialista ma non può rinunciare all'esercito e alla Somalia, è la borghesia che rimprovera a Einaudi il suo aspetto dimesso e non riconosce il Papa per suo sovrano.
Ai suoi occhi, la Repubblica ha due colpe gravissime: ha quasi rinunciato alla politica estera ed ha promosso Il regionalismo, sacrificando i due nessi che soli davano un senso e un valore alla tradizione dell'unità. Le atouts di un movimento monarchico che facesse appello a tali sentimenti, sempre presenti nel paese, sono tutt'altro che trascurabili: e l'on. De Gasperi lo sa meglio di tutti. Dopo il virtuale esautoramento di una coalizione di partiti laici (lo spettacolo
dell'ultima crisi ministeriale è stato a tal proposito ammonitore), dopo il fallimento dell'unità socialista, che libera il terreno all'on. Dossetti e all'iniziativa riformatrice dell'Azione cattolica, in antitesi al comunismo, il massimo pericolo che minacci per le prossime elezioni regionali la democrazia cristiana è a destra, in una grande coalizione di destra, a sottinteso nazionalista, che opponga al partito dominante legittimisti, neofascisti, conservatori e clericali, non senza un'estrema punta liberale. L'on. De Gasperi lo sa benissimo: e ciò spiega la sua tenace opposizione all'uscita dei liberali dal governo, che scopre il suo fianco destro, il più seriamente minacciato almeno sul piano elettorale e parlamentare.
Facile profezia affermare che la D.C. non rinuncerà a nessun mezzo per impedire la formazione di una «terza forza» a destra, ora che è momentaneamente sospesa quella di una «terza forza» a sinistra. L'arma migliore che essa ha è di far leva sul «senso dello Stato» che è proprio dei liberali e dei monarchici più consapevoli: rinnovare, in altre parole, la esperienza della terza Repubblica. Solo difendendo l'unità nazionale, minacciata dal regionalismo, e simulando una politica estera, in mancanza di un'autonomia effettiva, la classe di governo potrà liquidare le sue antitesi di destra e salvare la Repubblica, con una politica che si ricolleghi alle stesse pregiudiziali monarchiche.
Ma avrà, in quest'opera, l'appoggio dei socialisti? L'on. Saragat, tempo fa, non esitò a citare Silvio Spaventa, il grande teorico della Destra, per ricordare che la presenza del Pontificato aveva imposto all'Italia unita la necessaria alternativa di una Monarchia forte. L'on. Nenni ha recentemente chiesto la revisione del Concordato con lo spirito di un nazionalista liberale, che ha la coscienza dell'autonomia dello Stato e non vuole che la Chiesa interferisca in materia di matrimonio e di scuole, coerente a tutte le premesse del laicismo borghese. L'avversione principale dell'on. Romita e del suo partito è per l'Azione cattolica e quindi per la Sinistra democristiana, che sola è idealmente fedele allo spirito del rinnovato neoguelfismo, di quel or socialismo cattolico », che rinnova l'insegnamento dei papi nel mondo moderno.
Oggi come oggi, forse, il miglior repubblicano è l'on. De Gasperi, che simula nel suo giuoco politico la coscienza istituzionale del paese, che non esiste. Nessuno come lui e il suo gruppo di governo ha interesse a opporsi a una coalizione di destra, a una, ripresa monarchica sotto vesti nazionaliste o liberali. Ma fino a che punto la democrazia cristiana saprà ripetere l'esperienza della classe dirigente della terza Repubblica?
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