di Aldo A. Mola
Grande Guerra, militarizzazione...
I cantastorie raccontano che con il discorso
del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia per istituire la
dittatura fascista in Italia». Lo ha ripetuto Antonio Scurati in “la
Repubblica”, in occasione del centenario. Il suo primo volume della serie “M”
(cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il pregio di dire la verità scomoda,
ma non ne trasse la somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa,
della Grande Guerra sul corpo degli italiani.
La
militarizzazione di cinque milioni e mezzo di maschi, rinserrati per anni tra
prima linea e retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati negli
attacchi frontali, e quella, parallela, delle donne addette alla produzione
bellica nelle fabbriche “ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che
equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li puniva con pene
severissime, avevano già introdotto nel Paese un regime di fatto. La vita
quotidiana, dalle “zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e
industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra fronte interno e linee
di combattimento, in pochi anni avevano creato un'Italia diversa da quella
vagheggiata nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da moltitudini
di scioperi economici, miglioramenti retributivi, anche nelle campagne, e
crescita civile, suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti i
maschi che avessero prestato servizio militare, benché analfabeti. Il fautore
di quella riforma altamente politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva
osservato che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato aveva
acquisito diritti politici al pari degli “intellettuali” che propugnavano la
più grande Italia, impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista di
spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di guerra dell'Italia contro
l'impero turco-ottomano per il dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli
scrisse che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le legioni.
Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918 musicò l'Inno a Roma di Fausto
Salvatori per la vittoria sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non
vedrai alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo fascismo e neppure
nazionalismo, bensì la giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso,
la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che, per avere il suo posto
nel mondo, doveva essere essere in continuità con l'Antica Roma. Del resto,
negli stessi anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio, distruttore
delle legioni di Augusto, e la Francia s’identificava con la “beata” Giovanna
d’Arco, fiera nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a fianco di
costoro contro i tedeschi, spregiativamente detti “boches”.
...e trauma psicologico di massa.
In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del
1919-1923, non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la caduta di
quattro imperi (russo, germanico, austro-ungarico e turco-ottomano) e con la
nascita di un mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli Stati
Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano libera nell'Estremo Oriente.
Accadde di più: l'avvento di una generazione che aveva appreso a convivere con
la morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento, ma quella dei corpi
abbandonati, difficili da recuperare all'indomani della battaglia, rimasti
spesso senza croce, talvolta non identificabili perché nel vortice del
combattimento avevano perduto la “piastrina”. Vennero poi tutti sublimati nel
Milite Ignoto, la più partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata
dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.
La
trasformazione delle coscienze (percepita da un prete che arrivava da studi di
medicina e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il mondo
femminile: quello delle fabbriche, ove la promiscuità introdusse pratiche un
tempo considerate sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne svolsero
i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e anni dalla “città militare”,
completa dei bordelli dai quali uscivano svezzati a costumi un tempo
“colpevoli” ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense Angelo
Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato con Gabriele d'Annunzio e
alti ufficiali in colloqui nei quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità”
profondamente diversa rispetto all'anteguerra.
Il
libro di Scurati, alla pubblicazione, fu subissato di critiche severe da parte
di storici che ne evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si
difese opponendo che la sua non era opera di storia ma romanzo. Sennonché il
romanzo ha il dovere e il pregio di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo
ridusse al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande Guerra riguardò la
miriade di italiani che avevano combattuto in condizioni estreme. Era il caso
degli “arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia di morte”,
guerrieri democraticamente votati a dare morte, perché quello è il compito,
l'abito morale, del milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani
assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del loro Paese, fatalmente in
lotta contro quelli nemici, in una guerra feroce, senza quartiere, proiettata
nel tempo sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato, verso una
pace che coincideva con la disfatta della propria civiltà, come appunto avvenne
sulla fine del 1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava
l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su tutti.
Da lì
arrivava la divaricazione fra la dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi
ormai arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde riforme. Non solo
diritto di voto per tutti (donne comprese), ma riconoscimento del contributo
dato alla Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento economico e
condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai contadini” e compartecipazione
alla proprietà delle fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili furono
rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella svolta epocale fu subito
chiara agli scrittori nati in trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti
descrissero la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi riflessi
permanenti sulla psiche dei milioni di sopravvissuti. Scurati, invece,
stigmatizzò Mussolini, uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla
primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della necessità di una svolta
radicale.
Mussolini in campo: dal marzo 1919...
All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23
marzo 1919), dalla quale viene datato il fascismo, parteciparono ebrei,
massoni, ex ufficiali, professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali
si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La pattuglia capitanata da
Benito Mussolini comprese nomi da ricordare per capire: Filippo Tommaso
Marinetti, capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo Baseggio (massone),
Guido Podrecca, anticlericale d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica”
già famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino Lanzillo, economista
d'avanguardia, e Amleto Galimberti, “operaio metallurgico”. La lista andò
incontro a un fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.
A un
secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è necessario, finalmente, passare dalle
narrazioni ai fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e viene
ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere della Sera”), con esso
Mussolini non ammise affatto la responsabilità del rapimento e della morte di
Giacomo Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto chiarite, neppure nel
profluvio di libri usciti nel suo centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto.
Aprì l'intervento richiamando il suo primo discorso da presidente del
Consiglio, il 16 novembre 1922, quando alla Camera aveva avuto la fiducia non
solo di fascisti e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei
popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti, incluso il giolittiano
Rossi di Montelera. Di seguito domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di
essa qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale
«la Camera dei deputati ha il diritto di accusare ministri del re e di tradurli
dinanzi all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in passato. Respinse
l'addebito di aver fondato una Ceka, cioè una polizia segreta per compiere
delitti politici, come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva
giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000 persone». Per lui la
violenza («che non può essere espulsa dalla storia», come affermò anche
Benedetto Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve essere chirurgica,
intelligente e cavalleresca». Ora le gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne
ammise implicitamente l'esistenza, senza confessarne la paternità, NdA] sono
state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Si riferiva alle
«aggressioni minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni, picchiati
selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”. Rievocò poi l'inaugurazione della
legislatura e il suo discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le
opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo come esperienza storica» e
ottenne un «successo clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse.
Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi, riferendosi all’«atmosfera
idilliaca» creatasi nella Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo
pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un
delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che
io stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo coraggio, che
rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?»
Mussolini, dunque, non solo non ammise affatto, ma respinse nettamente
l'imputazione di essere il mandante del rapimento e della morte del segretario
del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò invece l'affermazione che
il fascismo fosse «un’orda di barbari accampati nella Nazione ed un movimento
di banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come ha scritto il
giornalista Aldo Cazzullo in un libro del 2022, centenario della mai avvenuta
“marcia su Roma”). «Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al punto –
quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui
al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che
assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è
avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori
il palo e fuori la corda…»
La lunga marcia verso il regime
Nel
volgere di un anno, fra il 3 gennaio 1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto
formale dello Stato mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata
dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio 1921 e aprile 1924. A
quel processo parteciparono attivamente i protagonisti della “rivoluzione”
accorpati nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi: lo squadrista
Italo Balbo, massone, poco più che ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni
Giuriati, nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di Mussolini, poi
suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe Bastianini, massone come Giacomo Acerbo,
Roberto Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille Starace,
Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo Rossoni, segretario dei sindacati
fascisti, Cesare Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno, retto
da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli (iniziato alla Gran Loggia),
intendente generale della Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la
“cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere partito di massa, ma
già proiettato a disegnare lo Stato fascista, soprattutto con l'ingresso di
Alfredo Rocco (“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele spiegate
per dare forma al regime, tra introduzione della pena di morte per i reati
contro lo Stato, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato,
riforma elettorale e costituzionalizzazione del Gran Consiglio.
I
partiti d'opposizione, o quanto ne rimaneva, dall'indomani dell’“affare
Matteotti” scelsero di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario
“Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti, come Sandro Rogari, il
suicidio della democrazia parlamentare), così celebrando la conclusione del
decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei mutamenti politici in atto.
Partiti e sindacati “di sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei
momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915, quando si trattava di
fermare la corsa verso l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a
fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste, ancora minoritarie nel
Paese, contro l'Esercito e i poteri istituzionali, che quei partiti non vollero
né seppero difendere, avendoli essi stessi sempre osteggiati e auspicandone il
crollo traumatico quale parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate
1924, infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare la “questione
morale”, liquidata sarcasticamente da Mussolini nel discorso del 3 gennaio.
Il
punto di arrivo di quel processo furono le cd. “leggi fascistissime”. Tra
queste spicca la «regolarizzazione dell'attività delle associazioni e
dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente dallo Stato» (legge 26
novembre 1925, n. 2029), precorsa di pochi giorni dall’autoscioglimento delle
logge del Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia d'Italia,
ovvero dal crollo verticale dell'unica organizzazione elitaria della borghesia
riformistica, con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione permanente, con
tendenza repubblicana.
Furono
inoltre ridefinite le «attribuzioni e prerogative del capo del governo» (legge
24 dicembre 1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio, “primus inter
pares”, come era stato da Camillo Cavour a Giolitti, ma primo ministro capo del
governo con facoltà di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una Camera
e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il capo del governo ebbe la
precedenza sui Cavalieri dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del
Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio Emanuele III conferì il
“collare” dopo l'annessione di Fiume all'Italia, in applicazione della regola
non scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli statisti che procuravano
l'ingrandimento del territorio nazionale).
A
coronare il processo di riforma fu infine la legge 31 gennaio 1926, n. 100
sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di
Stato: vera e propria sostituzione del Parlamento, relegato in posizione
secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.
Quelle
norme, coordinate in un progetto coerente, furono liberticide ma al tempo
stesso ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle elezioni del 29
marzo 1929. Esse vennero varate nel corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da
studiare nei suoi molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne può
dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X coincise con la
liquidazione del poco che rimaneva del Partito popolare italiano, del quale la
Santa Sede non aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero di
astenersi da questioni politiche e con la facoltà conferita ai vescovi di
assolvere i massoni dalla scomunica loro comminata dal Codice di diritto
canonico del 1917.
Il Re isolato
E il Re? Prese atto della volontà popolare
espressa dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di a-fascisti e, ancora,
da antifascisti dichiarati. Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio
Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare leggi approvate dalle
Camere che, egli confidò a chi gli chiedeva di “scendere in campo” contro il
governo, erano i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva un voto
parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o almeno un suo robusto
pronunciamento in Aula. Ma ormai l'opposizione era svanita, in parte di sua
stessa iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per assenza
ingiustificata.
Quale
fosse allora il clima del Paese venne poi scritto nella voce “Italia”
dell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel 1933,
scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca incaricato di storia
contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma futuro presidente dell'Istituto per la storia
del Risorgimento italiano. Dopo il 1922, essa recita, “l'ardua fatica, sulla
quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e
disciplina venivano dati alla nazione turbata, s’«inquadrava» e si rafforzava
lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si
ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema
del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano
migliorati i servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica
marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento
scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la
battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai mercati stranieri,
cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per
le quali ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […]. Tramontata per
sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative.
[…] E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione
partigiana soppresse un deputato di opposizione [Giacomo Matteotti, NdA], i
rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi
con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la
“secessione dell’Aventino” fu stroncata dal memorabile discorso del Duce del 3
gennaio 1925 e, superata l’artificiosa questione morale, il fascismo riprese il
suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni
plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti
al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo avvenne col favore, ma
Ghisalberti non lo scrisse, del giuramento obbligatorio di fedeltà al duce
oltre che al Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i concorsi e
gli uffici pubblici. Era la “tessera del pane”, bene accetta dalle moltitudini
alle quali poco importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista, purché si
stesse meglio e non si corressero rischi di nuove guerre sui confini d'Italia.
Quando una ne venne, catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli
“antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25 luglio 1943 revocò
Mussolini e lo sostituì con Pietro Badoglio.
Aldo A Mola
DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata “Governo”.
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