NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 9 gennaio 2025

3 gennaio 1925 un sussulto della Grande Guerra



di Aldo A. Mola

Grande Guerra, militarizzazione...

I cantastorie raccontano che con il discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia per istituire la dittatura fascista in Italia». Lo ha ripetuto Antonio Scurati in “la Repubblica”, in occasione del centenario. Il suo primo volume della serie “M” (cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il pregio di dire la verità scomoda, ma non ne trasse la somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa, della Grande Guerra sul corpo degli italiani.

   La militarizzazione di cinque milioni e mezzo di maschi, rinserrati per anni tra prima linea e retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati negli attacchi frontali, e quella, parallela, delle donne addette alla produzione bellica nelle fabbriche “ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li puniva con pene severissime, avevano già introdotto nel Paese un regime di fatto. La vita quotidiana, dalle “zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra fronte interno e linee di combattimento, in pochi anni avevano creato un'Italia diversa da quella vagheggiata nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da moltitudini di scioperi economici, miglioramenti retributivi, anche nelle campagne, e crescita civile, suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti i maschi che avessero prestato servizio militare, benché analfabeti. Il fautore di quella riforma altamente politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva osservato che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato aveva acquisito diritti politici al pari degli “intellettuali” che propugnavano la più grande Italia, impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista di spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di guerra dell'Italia contro l'impero turco-ottomano per il dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli scrisse che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le legioni. Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918 musicò l'Inno a Roma di Fausto Salvatori per la vittoria sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non vedrai alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo fascismo e neppure nazionalismo, bensì la giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso, la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che, per avere il suo posto nel mondo, doveva essere essere in continuità con l'Antica Roma. Del resto, negli stessi anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio, distruttore delle legioni di Augusto, e la Francia s’identificava con la “beata” Giovanna d’Arco, fiera nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a fianco di costoro contro i tedeschi, spregiativamente detti “boches”.

...e trauma psicologico di massa.

In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del 1919-1923, non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la caduta di quattro imperi (russo, germanico, austro-ungarico e turco-ottomano) e con la nascita di un mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli Stati Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano libera nell'Estremo Oriente. Accadde di più: l'avvento di una generazione che aveva appreso a convivere con la morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento, ma quella dei corpi abbandonati, difficili da recuperare all'indomani della battaglia, rimasti spesso senza croce, talvolta non identificabili perché nel vortice del combattimento avevano perduto la “piastrina”. Vennero poi tutti sublimati nel Milite Ignoto, la più partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.

   La trasformazione delle coscienze (percepita da un prete che arrivava da studi di medicina e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il mondo femminile: quello delle fabbriche, ove la promiscuità introdusse pratiche un tempo considerate sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne svolsero i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e anni dalla “città militare”, completa dei bordelli dai quali uscivano svezzati a costumi un tempo “colpevoli” ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense Angelo Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato con Gabriele d'Annunzio e alti ufficiali in colloqui nei quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità” profondamente diversa rispetto all'anteguerra.

   Il libro di Scurati, alla pubblicazione, fu subissato di critiche severe da parte di storici che ne evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si difese opponendo che la sua non era opera di storia ma romanzo. Sennonché il romanzo ha il dovere e il pregio di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo ridusse al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande Guerra riguardò la miriade di italiani che avevano combattuto in condizioni estreme. Era il caso degli “arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia di morte”, guerrieri democraticamente votati a dare morte, perché quello è il compito, l'abito morale, del milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del loro Paese, fatalmente in lotta contro quelli nemici, in una guerra feroce, senza quartiere, proiettata nel tempo sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato, verso una pace che coincideva con la disfatta della propria civiltà, come appunto avvenne sulla fine del 1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su tutti.

   Da lì arrivava la divaricazione fra la dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi ormai arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde riforme. Non solo diritto di voto per tutti (donne comprese), ma riconoscimento del contributo dato alla Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento economico e condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai contadini” e compartecipazione alla proprietà delle fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili furono rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella svolta epocale fu subito chiara agli scrittori nati in trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti descrissero la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi riflessi permanenti sulla psiche dei milioni di sopravvissuti. Scurati, invece, stigmatizzò Mussolini, uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della necessità di una svolta radicale.

 

Mussolini in campo: dal marzo 1919...

All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), dalla quale viene datato il fascismo, parteciparono ebrei, massoni, ex ufficiali, professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La pattuglia capitanata da Benito Mussolini comprese nomi da ricordare per capire: Filippo Tommaso Marinetti, capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo Baseggio (massone), Guido Podrecca, anticlericale d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica” già famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino Lanzillo, economista d'avanguardia, e Amleto Galimberti, “operaio metallurgico”. La lista andò incontro a un fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.

  A un secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è necessario, finalmente, passare dalle narrazioni ai fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e viene ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere della Sera”), con esso Mussolini non ammise affatto la responsabilità del rapimento e della morte di Giacomo Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto chiarite, neppure nel profluvio di libri usciti nel suo centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto. Aprì l'intervento richiamando il suo primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, quando alla Camera aveva avuto la fiducia non solo di fascisti e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti, incluso il giolittiano Rossi di Montelera. Di seguito domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di essa qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale «la Camera dei deputati ha il diritto di accusare ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in passato. Respinse l'addebito di aver fondato una Ceka, cioè una polizia segreta per compiere delitti politici, come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000 persone». Per lui la violenza («che non può essere espulsa dalla storia», come affermò anche Benedetto Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca». Ora le gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne ammise implicitamente l'esistenza, senza confessarne la paternità, NdA] sono state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Si riferiva alle «aggressioni minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni, picchiati selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”. Rievocò poi l'inaugurazione della legislatura e il suo discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo come esperienza storica» e ottenne un «successo clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse. Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi, riferendosi all’«atmosfera idilliaca» creatasi nella Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo coraggio, che rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?»

   Mussolini, dunque, non solo non ammise affatto, ma respinse nettamente l'imputazione di essere il mandante del rapimento e della morte del segretario del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò invece l'affermazione che il fascismo fosse «un’orda di barbari accampati nella Nazione ed un movimento di banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come ha scritto il giornalista Aldo Cazzullo in un libro del 2022, centenario della mai avvenuta “marcia su Roma”). «Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al punto – quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda…»

La lunga marcia verso il regime

   Nel volgere di un anno, fra il 3 gennaio 1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto formale dello Stato mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio 1921 e aprile 1924. A quel processo parteciparono attivamente i protagonisti della “rivoluzione” accorpati nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi: lo squadrista Italo Balbo, massone, poco più che ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni Giuriati, nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di Mussolini, poi suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe Bastianini, massone come Giacomo Acerbo, Roberto Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille Starace, Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo Rossoni, segretario dei sindacati fascisti, Cesare Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno, retto da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli (iniziato alla Gran Loggia), intendente generale della Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la “cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere partito di massa, ma già proiettato a disegnare lo Stato fascista, soprattutto con l'ingresso di Alfredo Rocco (“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele spiegate per dare forma al regime, tra introduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, riforma elettorale e costituzionalizzazione del Gran Consiglio.

   I partiti d'opposizione, o quanto ne rimaneva, dall'indomani dell’“affare Matteotti” scelsero di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario “Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti, come Sandro Rogari, il suicidio della democrazia parlamentare), così celebrando la conclusione del decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei mutamenti politici in atto. Partiti e sindacati “di sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915, quando si trattava di fermare la corsa verso l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste, ancora minoritarie nel Paese, contro l'Esercito e i poteri istituzionali, che quei partiti non vollero né seppero difendere, avendoli essi stessi sempre osteggiati e auspicandone il crollo traumatico quale parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate 1924, infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare la “questione morale”, liquidata sarcasticamente da Mussolini nel discorso del 3 gennaio.

   Il punto di arrivo di quel processo furono le cd. “leggi fascistissime”. Tra queste spicca la «regolarizzazione dell'attività delle associazioni e dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente dallo Stato» (legge 26 novembre 1925, n. 2029), precorsa di pochi giorni dall’autoscioglimento delle logge del Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia d'Italia, ovvero dal crollo verticale dell'unica organizzazione elitaria della borghesia riformistica, con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione permanente, con tendenza repubblicana.

   Furono inoltre ridefinite le «attribuzioni e prerogative del capo del governo» (legge 24 dicembre 1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio, “primus inter pares”, come era stato da Camillo Cavour a Giolitti, ma primo ministro capo del governo con facoltà di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una Camera e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il capo del governo ebbe la precedenza sui Cavalieri dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio Emanuele III conferì il “collare” dopo l'annessione di Fiume all'Italia, in applicazione della regola non scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli statisti che procuravano l'ingrandimento del territorio nazionale).

   A coronare il processo di riforma fu infine la legge 31 gennaio 1926, n. 100 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di Stato: vera e propria sostituzione del Parlamento, relegato in posizione secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.

   Quelle norme, coordinate in un progetto coerente, furono liberticide ma al tempo stesso ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle elezioni del 29 marzo 1929. Esse vennero varate nel corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da studiare nei suoi molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne può dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X coincise con la liquidazione del poco che rimaneva del Partito popolare italiano, del quale la Santa Sede non aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero di astenersi da questioni politiche e con la facoltà conferita ai vescovi di assolvere i massoni dalla scomunica loro comminata dal Codice di diritto canonico del 1917.

 

Il Re isolato

E il Re? Prese atto della volontà popolare espressa dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di a-fascisti e, ancora, da antifascisti dichiarati. Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare leggi approvate dalle Camere che, egli confidò a chi gli chiedeva di “scendere in campo” contro il governo, erano i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva un voto parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o almeno un suo robusto pronunciamento in Aula. Ma ormai l'opposizione era svanita, in parte di sua stessa iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per assenza ingiustificata.

   Quale fosse allora il clima del Paese venne poi scritto nella voce “Italia” dell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel 1933, scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca incaricato di storia contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma  futuro presidente dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Dopo il 1922, essa recita, “l'ardua fatica, sulla quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e disciplina venivano dati alla nazione turbata, s’«inquadrava» e si rafforzava lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano migliorati i servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai mercati stranieri, cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per le quali ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […]. Tramontata per sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative. […] E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione partigiana soppresse un deputato di opposizione [Giacomo Matteotti, NdA], i rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la “secessione dell’Aventino” fu stroncata dal memorabile discorso del Duce del 3 gennaio 1925 e, superata l’artificiosa questione morale, il fascismo riprese il suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo avvenne col favore, ma Ghisalberti non lo scrisse, del giuramento obbligatorio di fedeltà al duce oltre che al Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i concorsi e gli uffici pubblici. Era la “tessera del pane”, bene accetta dalle moltitudini alle quali poco importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista, purché si stesse meglio e non si corressero rischi di nuove guerre sui confini d'Italia. Quando una ne venne, catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli “antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25 luglio 1943 revocò Mussolini e lo sostituì con Pietro Badoglio.

 

Aldo A Mola

 

DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata “Governo”.

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