
NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.
sabato 25 gennaio 2025
mercoledì 22 gennaio 2025
INCIPIT. FIAT LUX
Confermiamo la
Nostra Conferenza alla Libreria Horafelix
DOMANI GIOVEDI’ ore 18
Siete invitati a una Nostra Conferenza,
dal Titolo
INCIPIT. FIAT LUX
DAI MACCHIAIOLI
AI FUTURISTI
+
La Conferenza con
immagini,
occasionata dall’80°
Anniversario della Morte di Marinetti,
metterà in luce il nesso
essenziale tra Scienza e Arte,
Innovazione e Immaginazione,
dai Macchiaioli ai Futuristi, da Volta a Marconi.
Un’epoca tra Otto e
Novecento
dove il Processo di
Unificazione Nazionale
viaggiava alla Velocità
del Processo di
Modernizzazione Tecnologica.
LIBRERIA HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA,
89 ROMA
DOMANI
GIOVEDI’
23 GENNAIO
2025 ORE 18
INGRESSO CON
CALICE FUTURISTA € 5
INFO E PRENOTAZIONI
338 4714674
Email terzanavigazionefutura@gmail.com
Negli ALLEGATI ulteriori
informazioni con le modalità di partecipazione.
Cordialmente
Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro
LINK NOSTRA CONFERENZA
https://www.consulpress.eu/dai-macchiaioli-ai-futuristi/
sabato 18 gennaio 2025
UMBERTO II DI SAVOIA IN ITALIA?
È
di questi giorni la notizia, e da fonte certa, che si stia organizzando il
rientro in Italia delle spoglie mortali del Re Umberto II di Savoia, deceduto a
Ginevra il 18 marzo 1983, e anche di quelle della Regina Marie Josè, deceduta,
sempre a Ginevra, il 27 gennaio 2001, ed entrambi sepolti nella Reale Abbazia
di Hautecombe, in quella Savoia ove, oltre mille anni fa, Umberto Biancamano,
il Capostipite del Casato, si affacciò sulla Storia dell’umanità.
Naturalmente
questo “real rientro”, dopo quasi ottant’anni (almeno per il Re
Umberto), sarà di notte, senza dare troppo all’occhio, e probabilmente nel
Santuario Regina Montis Regalis di Vicoforte, in provincia di Cuneo, ove già
riposano le spoglie mortali del Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Secondo
le sue precise volontà, il Re Umberto aveva stabilito che se fosse morto a
Cascais, sarebbe andato nel cimitero dei poveri, se fuori il Portogallo, nella
Abbazia di Hautecombe, se in Italia, nel Pantheon di Roma, sacrosanta ultima
dimora dei Re d’Italia.
Invece
ancora una volta, anche dopo la morte, e trentotto anni di esilio, le sue
volontà e la sua fermezza di Re non abdicatario non saranno probabilmente
rispettati.
Basti
analizzare il suo contegno e la sua signorilità in appunto trentotto anni di
esilio volontario.
Naturalmente sorgeranno polemiche, anche fra monarchici, per
chi non accetterà questa sepoltura, e sicuramente non va accettata.
Diamo però ragione a quella Signora che si chiama Storia.
Non mi permetto di sottolineare la pochezza di certi
commenti di alcune sedicenti Associazioni e/o Comunità in quanto tali commenti
non furono neanche accennati nel 1957 quando furono inumate le spoglie mortali
di Benito Mussolini in quel di Predappio.
E neanche commento le critiche becere che la traslazione avverrà
con un volo di Stato (attualmente usato anche per andare a vedere una partita
di calcio da certi politici).
Quindi continuiamo ad onorare la memoria dei nostri
Sovrani, ma rispettiamo le loro volontà.
Di Re Umberto ricordiamo sempre il nobile Proclama con
cui il 13 giugno 1946, lasciò l’Italia, in cui, tra l’altro, scrisse:
“(…)
Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed
al potere
indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario
assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi
ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire
violenza.”.
Il Re, non abdicatario (se
lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui era stato fatto
bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della medesima. Ma,
pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo avevano prestato
ma “non da quello verso la Patria”.
Ed il pensiero religioso
che fu trovato a Cascais il 22 marzo 1983, quattro giorni dopo la sua morte:
“(…)
poco importa a me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… ne’ mi giudico
da me stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per
questo sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.
“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo
divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei
passi mortali.
Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo
tranquillo”.
Questo
è il suo esempio, questa è la sua Fede, e porteremo nel cuore sempre la nobile
figura del Re Umberto II di Savoia.
venerdì 17 gennaio 2025
Incontro di studio e ricerca all'Altare della Patria
Confermiamo il Nostro Incontro
di Studio e di Ricerca
DOMANI
SABATO POMERIGGIO ore 15
Invito
ALTARE DELLA PATRIA
Ricorrendo nel mese di Gennaio
due importanti Eventi,
l’Anniversario della Morte
del Primo Re d’Italia
S.M. Vittorio Emanuele
II e la Festa del Tricolore.
In occasione
dell’importante restauro dell’Altare della Patria
osserveremo l’Altorilievo
dedicato alla Dea Roma e al Milite Ignoto,
per poi visitare gli interni
del Vittoriano.
Saliremo in alto sulla Terrazza
del Bollettino della Vittoria,
e concluderemo con la visita
alla Cripta del Milite Ignoto
e al Sacrario delle
Bandiere.
(IL PERCORSO
MUSEALE PREVEDE MOLTI GRADINI)
DOMANI
SABATO POMERIGGIO
18
GENNAIO 2025 ORE 15
INGRESSO DEL
VITTORIANO (CANCELLATA)
PIAZZA
VENEZIA ROMA
INGRESSO GRATUITO
La puntualità è cosa
gradita DURATA 2 ORE
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori
informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro
mercoledì 15 gennaio 2025
Corre voce… (ma speriamo che non sia vera)
Corre
voce che si stia progettando una traslazione delle venerate salme di Re Umberto
II e della Regina Maria José.
E’
una voce flebile, inapparente, tenuta sottotono, che si dice a mezza bocca.
Con
la preghiera che nessuno sappia.
E
perché nessuno deve sapere?
Perché
detta traslazione avverrebbe non già nell’unico luogo che si addice ad un Re
d’Italia, la Basilica di Santa Maria ad Martyres, più conosciuta nel mondo come "Pantheon", ma in un altro luogo, lontano dalla capitale del Regno d’Italia, quel
Regno che rese l’Italia una e libera e che tale è rimasta nonostante lo sfacelo
di una guerra malamente persa.
La
traslazione, corre voce, avverrebbe alla chetichella, come già è stato per le
altrettanto venerate salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena.
Già
allora ci siamo dati tanti pizzichi sulla pancia per non urlare al mondo il
nostro dolore.
Ma
c’era una brutta situazione in Egitto, terroristi islamici potevano profanare
la tomba del Re Soldato (noi crediamo abbiano da fare cose più impegnative), si
voleva riunire i Sovrani separati dal Mediterraneo…
L’abbiamo
mandata giù. Con estrema difficoltà ma lo abbiamo fatto.
Senza
mai dimenticare che a dispetto di un mondo intero che vuole che quella sia la
sepoltura definitiva noi siamo ostinati nel volere il Pantheon perché è l’unico
luogo di sepoltura che spetta al Re che ha completato l’Unità d’Italia e a cui
è stato fatto carico di tutte le scelte sciagurate di intere generazioni di
politici, (loro sì fuggiti!, in URSS, in Vaticano, in camion con un cappotto
tedesco), che non ascoltarono i suoi consigli.
L'abbiamo
mandata giù ma abbiamo pianto dalla vergogna nel vedere la salma del nostro Re
tornare avvolta in una bandiera stinta, lacera, seppellita in fretta e furia, senza poter ricevere l'affetto del suo popolo, per mettere l’opinione pubblica davanti ad un, bruttissimo, fatto compiuto.
Non
in questo modo e non in quel luogo ha da ritornare il nostro Re Umberto II.
Abbiamo
ottima memoria per quello che riguarda le cose di Umberto: nelle sue
disposizioni testamentarie erano previsti tre soli luoghi:
-Cimitero
dei poveri di Cascais qualora fosse mancato in Portogallo;
-Reale
abbazia di Hautecombe se fosse mancato in altro luogo, come poi avvenne;
-Pantheon
se fosse mancato in Italia.
NESSUNO, sottolineiamo e scriviamo in
maiuscolo e grassetto, si può e si deve permettere di fare questo affronto alla
volontà del Re.
Nessuno
può osare mancare così tanto grossolanamente a disposizioni tanto chiaramente
espresse.
Il
Re ha, per amore della Patria, rinunciato al Trono ma mai, MAI!, ha rinunciato
alla sua dignità regale.
Più
sotto gli amici troveranno scritte queste parole del Sovrano:
“Mi
si chiama il Re di maggio. Ma faccio parte di una famiglia che ha regnato per
mille anni. E non un Savoia avrebbe accettato, durante tutto questo
tempo, di sminuire la figura del proprio padre. Neppure, come nel mio
caso di Re pressoché dimenticato, per mendicare un ritorno di fiamma e di
ricordo“.
Per
questo Re, per quest’uomo, cui la malasorte non ha risparmiato alcun tipo di
dolore non si può accettare che subisca da morto anche l’onta di una sepoltura
cui non ha mai neanche pensato quando era in vita.
Re Umberto II non ha mai accettato compromessi. Ricordiamo, ancora, quando
negli ultimi mesi di vita del Sovrano si era acceso il dibattito sul suo
ritorno, da Londra arrivò, per il tramite dei suoi gentiluomini, il netto
chiarimento: ”Sua Maestà non ha chiesto e non chiede nulla.”
Non
possiamo non provare sdegno per la “diminutio” che verrebbe inflitta alla
dignità regale di un Re che ha speso la sua intera vita in condizioni
difficilissime per conservarla tale.
E
pubblichiamo questa nota su questo blog da 2000 lettori con l’unico scopo di
rompere le uova nel paniere a quanti si ritengono in diritto di mancare di
rispetto alla memoria del Re, accettando per lui morto ciò che lui da vivo
neanche avrebbe preso in considerazione.
A
tale proposito riportiamo gli stralci delle sue interviste ove eventuali
smemorati possano rinfrescare la memoria e schiarirsi le idee.
Intervista
di Giovanni Mosca 1973
“Perché
è venuto fin qui Mosca? E infrangendo tutte quelle etichette alle quali, pur
dopo 27 anni di esilio, sono rimasto fermo? Nato Re, muoio Re, pur non avendo
altro popolo che quello degli scogli su cui vedo infrangersi l’Atlantico. Mi
sono chiuso in me stesso, è la mia forza. Ventisette anni passati senza poter
rivedere la terra che si è amata, e che ancora si ama, sono lunghi e duri. E’
una pena terribile“.
Se
è ancora vietato tornare ai vivi, possono però ritornare i morti.
“Mosca
cosa è venuto a fare? Il mio pensiero sulla sepoltura dei miei genitori lo
conoscono tutti. A Superga no, al Pantheon sì. Altrimenti le salme restano dove
sono. Avrebbe per caso intenzione di indurmi a cambiare opinione?
E
perché no? Non sono mai stato Re, e certe questioni di principio, che pur
comprendo mi sono lontane. Vedo nella offerta di Andreotti…
“Pensa
sia stato Andreotti? Lo ricordo giovanissimo. Me lo presentò De Gasperi. Il
migliore, mi disse, dei miei collaboratori: non sarà un uomo politico
qualunque, gli sto infondendo il senso dello Stato; gli manca solo un po’ di
grinta. Ma quest’ultima frase Andreotti non la sentì.”
Andreotti,
prima ancora che democristiano, è cristiano. Il gesto da lui compiuto non tanto
è un atto politico quanto di pietà.
“E
gliene sono grato“.
Anche
fosse soltanto un atto politico? Anche lo avesse compiuto per guadagnarsi i
voti dei monarchici che hanno aderito alla destra nazionale?
“Anche.
Sono voti che debbono tornare ai partiti democratici, e se i miei morti siano
serviti a questo, ammiro l’atto abile. Penso però che se anche ci sia un po’ di
calcolo, c’è in compenso, tanta pietà cristiana. Ed io, ripeto, sono grato,
anche se non commosso. Non sono un sentimentale. Lo fossi non avrei sopportato
27 anni di esilio. Nessuno conosce l’Italia, angolo per angolo, quanto me.
Nessuno immagina quanto io la rimpianga. C’è nella lingua portoghese una
parola, saudade, che è qualcosa di più che rimpianto, qualche cosa
di più che nostalgia.. E’ intrisa di dolore. Ma l’esilio, da noi, è di casa.
Trecento chilometri a Nord di qui c’è quell’altro angolo di Portogallo dove
morì Carlo Alberto“.
Carlo
Alberto è a Superga.
“Quando
morì non era Re d’Italia. Se accettassi Superga, riconoscerei davanti a tutto
il mondo che, a differenza di Vittorio Emanuele II e di Umberto I, mio padre
non è degno del Pantheon.”
Per
la maggior parte degli italiani Superga e il Pantheon sono la stessa cosa. Quel
che importa per essi è il gesto di Andreotti. Lo si giudica umano, generoso.
Rompe, sia pure soltanto verso i morti, l’impietoso ostracismo nei riguardi di
Casa Savoia. Se lei si ostina ad ignorarlo, corre il rischio di deludere molti,
e di farsi mal giudicare anche da chi le è devoto.
“Gli
italiani sono dei sentimentali. Io, qui, continuo e debbo continuare ad essere
Re. Vedo che non sorride. La ringrazio. L’ironia sarebbe facile. Mi si chiama
il Re di maggio. Ma faccio parte di una famiglia che ha regnato per mille
anni. E non un Savoia avrebbe accettato, durante tutto questo tempo, di
sminuire la figura del proprio padre. Neppure, come nel mio caso di Re
pressoché dimenticato, per mendicare un ritorno di fiamma e di ricordo“.
Ho
parlato con dei giovani. Non conoscono neppure tutti i nomi dei presidenti
della repubblica. Tanto più ignorano i Re scomparsi prima ancora che
nascessero. Si meravigliano che si parli ancora di doveroso rimpatrio delle
salme. Ma poiché il governo lo ha concesso, la sua ostinazione sembra loro
assurda.
“Ebbene,
io, come Filippo II, assurdamente avvolto “nel manto mio regal”, vado più in là
di questi giovani. Che i poveri corpi di mio padre e di mia madre giacciano in
terra straniera o in terra italiana, poco mi importa. Anzi se tornassero in
Italia, non potrei più andarli a trovare. Accetterei il sacrificio soltanto se
li sapessi sepolti nel Pantheon. E poi, vi sono dei doveri cui non si può
mancare. Io quello di venerare mio padre per quanto di grande e di glorioso ha
compiuto, e di essere certo che, un giorno, su ciò che oggi gli viene
addebitato come errore o colpa, la storia darà un giudizio più sereno“.
Nell’attesa
non esita a farsi giudicare male da tanti italiani.
“Precisamente.
Fare il proprio dovere costa“.
Superga,
dicono molti, potrebbe essere l’anticamera del Pantheon.
“Al
contrario, è stata fatta per escludere appunto, il Pantheon. Mia madre, perciò,
rimarrà a Montpellier, sotto la pietra in cui non è inciso che Elena. E sa che,
tempo fa, un gruppo di devoti fanatici mi fece sapere di essere pronto a
trafugare le spoglie dal cimitero di Montpellier, per portarle in Italia, da
cui nessuno avrebbe – secondo loro – più avuto il coraggio di allontanarle?
Dovetti faticare molto per convincerli a rinunciare all’impresa. Mio padre
rimarrà laggiù, lontano, salvo che anche in Egitto non avvenga ciò che è già
avvenuto in Tunisia, Libia, Algeria, dove molte chiese cattoliche sono
diventate moschee. In questo caso sarei costretto a cercare altra sede in terra
straniera. Non sono più Re d’Italia, ma per esilio ho il mondo.
Altra
intervista aprile 1973, Domenica del Corriere.
«Che
i poveri corpi di mio padre e mia madre giacciano in terra straniera o in terra
italiana poco mi importa» dice a chi gli è vicino Umberto. «Non posso
accettare: se tornassero in Italia, non potrei più andare a trovarli.
Accetterei il sacrificio soltanto se li sapessi sepolti al Pantheon. A chi gli
dice che Superga potrebbe essere l’anticamera del Pantheon risponde scuotendo
la testa: «Al contrario Superga è stata offerta per escludere appunto il
Pantheon».
La
sera scende su Villa Italia. La luce calante scava rughe sul volto di Umberto.
Rughe che prima, col sole, erano impercettibili. Umberto si rende conto che
forse l’occasione non gli sarà mai più offerta. «Non posso tradire mio padre»
dice «Non posso dire: ecco. Accetto. Eccovi i suoi resti, metteteli a Superga,
non è degno del Pantheon.»
«Vogliono
questo?» si chiede. E non sembra attendere risposta.
sabato 11 gennaio 2025
giovedì 9 gennaio 2025
A 152 anni dalla nascita della Regina Elena di Savoia.
Emilio Del Bel Belluz
Una volta lessi in un vetusto libro una
citazione scritta a inchiostro, da una vecchia penna stilografica con il
pennino in cattivo uso, lo si notava dalla carta che era graffiata. La dedica
che il proprietario del libro aveva fatto diceva: “L’anima è eterna, e quello
che non fa oggi, può farlo domani”.
Queste parole le trovai molto interessanti e
ogni tanto mi ritornano in mente, quando mi capita di pensare ad una Mamma, ad
una donna speciale che era la Regina Elena. L’otto gennaio 2025 sono trascorsi
152 anni dalla sua nascita. Il cielo che la vide venire al mondo era Cettigne,
in Montenegro, figlia del Re Nicola I.
Si dedicò con abnegazione alla sua famiglia e nel soccorrere coloro che erano
bisognosi, orfani ed indigenti.
Dove c’era dolore e sconforto Ella arrivava
come consolatrice. Nei suoi quarantasei anni di regno ha seminato il bene e
soltanto il bene. Ella era solita dire che una giornata non era passata
inutilmente solo quando lasciava una scia di bene. Basti ricordare quando
trasformò le lussuose stanze del Quirinale in un ospedale per ricoverare
migliaia di feriti della Grande Guerra.
Ella stessa si prodigava nel curarli e
nell’infondere speranza, e voglia di vivere. Fu anche la fondatrice della
Scuola per infermiere “Regina Elena, trasmettendo alle giovani il compito di
essere preparate non solo professionalmente, ma anche d’essere vicine con
affetto e tenerezza ai degenti. Nel 28 dicembre 1908, le città di Messina e
Reggio Calabria furono gravemente lesionate da un terribile sisma.
Anche in quell’occasione la Regina Elena era
presente, vestita con umili panni e un cappello per non essere riconosciuta,
per portare aiuto e consolazione tra i feriti. Il Giornale d’Italia del 1909 la
definì: “ Suora di dolce conforto”.
L’8 gennaio, giorno del suo compleanno, il
Nobel Guglielmo Marconi Le telegrafò la seguente frase: “Unanime l’augurio che
Dio conservi lungamente all’Italia la Regina.”
Lo scorso anno si è parlato molto della
possibile Beatificazione della Regina Elena che da anni é stata proclamata
Serva di Dio. In questo nuovo anno si riaccende la speranza che la Regina possa
finalmente essere innalzata agli onori degli altari.
La Sovrana può essere considerata la Mamma di
tutti gli italiani, l’angelo del focolare a cui rivolgersi come esempio. Alcuni
giorni fa, in un capitello che è
localizzato a poca distanza dal posto dove abito, a Motta di Livenza , qualcuno nella notte di
Natale ha messo dei fiori davanti alla sua immagine, che la ritrae con il volto
sorridente vestita da crocerossina.
Viene ricordata la sua figura che si prodigava
nel soccorrere e confortare tutti i soldati feriti nella Grande Guerra. In un libro che uscirà a
breve trovai una testimonianza di una suora che raccontava della sua vita
spirituale : “ Nel 1914, entra tra le suore Dorotee dei Sacri Cuori, a Vicenza.
Divenuta Suor Edmonda ; brava infermiera , viene inviata tra i ciechi di guerra
a Roma, vicino al Palazzo Reale del Quirinale.
In questo campo di lavoro, ha modo di
incontrare la Regina Elena che spesso, accompagna le figlie maggiori, Iolanda e Mafalda, in quell’ambiente “ perché
imparino a vivere “. La Regina Elena
avendo saputo che Suor Edmonda aveva una
sorellina di nome Elena, le regalò una graziosa bambola di porcellana. Anche la
principessa Iolanda in occasione del suo matrimonio, le offrì una bomboniera di
grossi confetti”.
Qualche anno dopo la bambina a cui fu donata
una bambola di porcellana a 15 anni partì per Roma ed entrò nell’Istituto delle
suore della Santa Famiglia di Bordeaux.
Questa è una della tante storie che si ricordano ancora, a dimostrazione
che il bene fatto dalla Regina non verrà mai dimenticato.
Alla morte della Sovrana, in terra di Francia,
migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali. Era gente umile che aveva
constatato che la Regina Elena aveva un cuore davvero grande. Ripenso alle
parole che disse Vitalino Brancati: “L’anima è eterna, e quello che non fai
oggi, puoi farlo domani.”
3 gennaio 1925 un sussulto della Grande Guerra
di Aldo A. Mola
Grande Guerra, militarizzazione...
I cantastorie raccontano che con il discorso
del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini «soppresse la democrazia per istituire la
dittatura fascista in Italia». Lo ha ripetuto Antonio Scurati in “la
Repubblica”, in occasione del centenario. Il suo primo volume della serie “M”
(cioè Mussolini “figlio del secolo”) ebbe il pregio di dire la verità scomoda,
ma non ne trasse la somma: il duce del fascismo era l’effetto, non la causa,
della Grande Guerra sul corpo degli italiani.
La
militarizzazione di cinque milioni e mezzo di maschi, rinserrati per anni tra
prima linea e retrovie per la riorganizzazione dei reparti falcidiati negli
attacchi frontali, e quella, parallela, delle donne addette alla produzione
bellica nelle fabbriche “ausiliarie”, a loro volta in stato di guerra, che
equiparava gli scioperi al tradimento della patria e li puniva con pene
severissime, avevano già introdotto nel Paese un regime di fatto. La vita
quotidiana, dalle “zone di guerra” alle regioni popolate di manifatture e
industrie metalmeccaniche, cinghia di trasmissione tra fronte interno e linee
di combattimento, in pochi anni avevano creato un'Italia diversa da quella
vagheggiata nel primo quindicennio del Novecento, contrassegnata da moltitudini
di scioperi economici, miglioramenti retributivi, anche nelle campagne, e
crescita civile, suggellata dal conferimento del diritto di voto a tutti i
maschi che avessero prestato servizio militare, benché analfabeti. Il fautore
di quella riforma altamente politico-patriottica, Giovanni Giolitti, aveva
osservato che chi aveva messo la vita a disposizione dello Stato aveva
acquisito diritti politici al pari degli “intellettuali” che propugnavano la
più grande Italia, impegnata nella colonizzazione interna e nella conquista di
spazi Oltremare. Tra costoro, alla dichiarazione di guerra dell'Italia contro
l'impero turco-ottomano per il dominio sulla Libia, il mite Giovanni Pascoli
scrisse che “la grande proletaria si era mossa” e ne cantò le legioni.
Altrettanto fece Giacomo Puccini che nel 1918 musicò l'Inno a Roma di Fausto
Salvatori per la vittoria sugli Imperi Centrali, con i famosi versi «Tu non
vedrai alcuna cosa al mondo maggior di Roma». Non era certo fascismo e neppure
nazionalismo, bensì la giustificazione dell'unità nazionale e, al tempo stesso,
la celebrazione della “missione” della Nuova Italia che, per avere il suo posto
nel mondo, doveva essere essere in continuità con l'Antica Roma. Del resto,
negli stessi anni, la Germania erigeva il monumento ad Arminio, distruttore
delle legioni di Augusto, e la Francia s’identificava con la “beata” Giovanna
d’Arco, fiera nemica degli inglesi, pur apprestandosi a combattere a fianco di
costoro contro i tedeschi, spregiativamente detti “boches”.
...e trauma psicologico di massa.
In pochi anni, tra il 1917 e le “paci” del
1919-1923, non si rimescolarono solo i confini degli Stati, con la caduta di
quattro imperi (russo, germanico, austro-ungarico e turco-ottomano) e con la
nascita di un mondo nuovo sul quale s'affacciarono gli affaristi degli Stati
Uniti d'America e del Giappone, che ebbe mano libera nell'Estremo Oriente.
Accadde di più: l'avvento di una generazione che aveva appreso a convivere con
la morte: non quella degli “eroi” caduti in combattimento, ma quella dei corpi
abbandonati, difficili da recuperare all'indomani della battaglia, rimasti
spesso senza croce, talvolta non identificabili perché nel vortice del
combattimento avevano perduto la “piastrina”. Vennero poi tutti sublimati nel
Milite Ignoto, la più partecipata cerimonia della storia italiana, celebrata
dal re quale sommo sacerdote dell'Unità nazionale.
La
trasformazione delle coscienze (percepita da un prete che arrivava da studi di
medicina e psicologia, quale Agostino Gemelli) investì anche il mondo
femminile: quello delle fabbriche, ove la promiscuità introdusse pratiche un
tempo considerate sconvenienti, e quello delle campagne, ove le donne svolsero
i compiti dei mariti, risucchiati per mesi e anni dalla “città militare”,
completa dei bordelli dai quali uscivano svezzati a costumi un tempo
“colpevoli” ma ormai consueti, come convenivano il vescovo castrense Angelo
Bartolomasi e padre Giovanni Semeria, fotografato con Gabriele d'Annunzio e
alti ufficiali in colloqui nei quali si plasmava l'uomo nuovo, dalla “moralità”
profondamente diversa rispetto all'anteguerra.
Il
libro di Scurati, alla pubblicazione, fu subissato di critiche severe da parte
di storici che ne evidenziarono sbagli, errori e incongruenze. L’autore si
difese opponendo che la sua non era opera di storia ma romanzo. Sennonché il
romanzo ha il dovere e il pregio di interpretare lo “spirito del tempo”. Lui lo
ridusse al “caso Mussolini”, mentre il dramma della Grande Guerra riguardò la
miriade di italiani che avevano combattuto in condizioni estreme. Era il caso
degli “arditi”, con le “fiamme nere” sul bavero, “avanguardia di morte”,
guerrieri democraticamente votati a dare morte, perché quello è il compito,
l'abito morale, del milite. Con chi si schieravano le migliaia di cappellani
assegnati alle truppe? Con l'esercito combattente del loro Paese, fatalmente in
lotta contro quelli nemici, in una guerra feroce, senza quartiere, proiettata
nel tempo sino al completo esaurimento delle risorse dello Stato, verso una
pace che coincideva con la disfatta della propria civiltà, come appunto avvenne
sulla fine del 1918 quando i vinti caddero per fame e ormai incalzava
l'epidemia di febbre spagnola, vincitrice suprema su tutti.
Da lì
arrivava la divaricazione fra la dirigenza politica d'anteguerra, usa a ritmi
ormai arcaici, e il Paese che esigeva immediate e profonde riforme. Non solo
diritto di voto per tutti (donne comprese), ma riconoscimento del contributo
dato alla Vittoria, da tradursi immediatamente in trattamento economico e
condizioni sociali “da vincitori”. “Terra ai contadini” e compartecipazione
alla proprietà delle fabbriche o almeno della loro direzione e degli utili furono
rivendicazioni ricorrenti in tutta Europa. Quella svolta epocale fu subito
chiara agli scrittori nati in trincea, come Giuseppe Ungaretti, o a quanti
descrissero la biblica “fornace ardente” dei combattimenti e i suoi riflessi
permanenti sulla psiche dei milioni di sopravvissuti. Scurati, invece,
stigmatizzò Mussolini, uno dei tanti. Uno che tuttavia, piaccia o meno, dalla
primavera del 1919 si fece portavoce e interprete della necessità di una svolta
radicale.
Mussolini in campo: dal marzo 1919...
All'adunata di Piazza San Sepolcro a Milano (23
marzo 1919), dalla quale viene datato il fascismo, parteciparono ebrei,
massoni, ex ufficiali, professionisti, “intellettuali”, i cui esponenti apicali
si presentarono alle elezioni del 16 novembre 1919. La pattuglia capitanata da
Benito Mussolini comprese nomi da ricordare per capire: Filippo Tommaso
Marinetti, capofila del Futurismo, Enzo Ferrari, Cristoforo Baseggio (massone),
Guido Podrecca, anticlericale d'assalto, Arturo Toscanini, “maestro di musica”
già famoso e futuro antifascista irriducibile, Agostino Lanzillo, economista
d'avanguardia, e Amleto Galimberti, “operaio metallurgico”. La lista andò
incontro a un fiasco solenne ma ebbe la simpatia di Guglielmo Marconi.
A un
secolo dal Discorso del 3 gennaio 1925 è necessario, finalmente, passare dalle
narrazioni ai fatti e ai documenti. Contrariamente a quanto è stato e viene
ripetuto (anche da Antonio Carioti nel “Corriere della Sera”), con esso
Mussolini non ammise affatto la responsabilità del rapimento e della morte di
Giacomo Matteotti (peraltro in circostanze mai del tutto chiarite, neppure nel
profluvio di libri usciti nel suo centenario). A riguardo Mussolini fu molto netto.
Aprì l'intervento richiamando il suo primo discorso da presidente del
Consiglio, il 16 novembre 1922, quando alla Camera aveva avuto la fiducia non
solo di fascisti e nazionalisti ma anche di demosociali, liberali e dei
popolari, tutti presenti al governo con loro esponenti, incluso il giolittiano
Rossi di Montelera. Di seguito domandò “formalmente” se nella Camera o fuori di
essa qualcuno voleva valersi dell'articolo 47 dello Statuto, in forza del quale
«la Camera dei deputati ha il diritto di accusare ministri del re e di tradurli
dinanzi all'Alta corte di giustizia», come era accaduto in passato. Respinse
l'addebito di aver fondato una Ceka, cioè una polizia segreta per compiere
delitti politici, come quella, aggiunse, che nella Russia sovietica «aveva
giustiziato senza processo dalle 150.000 alle 160.000 persone». Per lui la
violenza («che non può essere espulsa dalla storia», come affermò anche
Benedetto Croce nelle sue opere) «per essere risolutiva deve essere chirurgica,
intelligente e cavalleresca». Ora le gesta «di questa sedicente Ceka [lì ne
ammise implicitamente l'esistenza, senza confessarne la paternità, NdA] sono
state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Si riferiva alle
«aggressioni minori» ai danni di Alfredo Misuri e Cesare Forni, picchiati
selvaggiamente perché fascisti “dissidenti”. Rievocò poi l'inaugurazione della
legislatura e il suo discorso del 7 giugno 1924, nel quale disse che le
opposizioni avrebbero potuto «sorpassare il fascismo come esperienza storica» e
ottenne un «successo clamoroso», come riconosciuto dalle opposizioni stesse.
Senza nominare Matteotti, Mussolini domandò poi, riferendosi all’«atmosfera
idilliaca» creatasi nella Camera a seguito del suo intervento: «Come potevo
pensare, senza essere colpito da morbosa follia, di far commettere non dico un
delitto ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che
io stimavo perché aveva una certa “crânerie”, un certo coraggio, che
rassomigliavano al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?»
Mussolini, dunque, non solo non ammise affatto, ma respinse nettamente
l'imputazione di essere il mandante del rapimento e della morte del segretario
del Partito socialista unitario. Molto oltre confutò invece l'affermazione che
il fascismo fosse «un’orda di barbari accampati nella Nazione ed un movimento
di banditi e di predoni» (o una banda di delinquenti, come ha scritto il
giornalista Aldo Cazzullo in un libro del 2022, centenario della mai avvenuta
“marcia su Roma”). «Ma poi, o signori, – proseguì Mussolini andando al punto –
quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui
al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che
assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è
avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano a impiccare un uomo, fuori
il palo e fuori la corda…»
La lunga marcia verso il regime
Nel
volgere di un anno, fra il 3 gennaio 1925 e il 31 gennaio 1926 l'assetto
formale dello Stato mutò, con ritmo accelerato, nella direzione vaticinata
dalle consultazioni elettorali del novembre 1919, maggio 1921 e aprile 1924. A
quel processo parteciparono attivamente i protagonisti della “rivoluzione”
accorpati nel Gran Consiglio, popolato di giovani e giovanissimi: lo squadrista
Italo Balbo, massone, poco più che ventenne, il politico Dino Grandi, Giovanni
Giuriati, nazionalista, Aldo Finzi, il borghese fidatissimo di Mussolini, poi
suppliziato alle Ardeatine, Giuseppe Bastianini, massone come Giacomo Acerbo,
Roberto Farinacci, “ras” di Cremona, Francesco Giunta, Achille Starace,
Giovanni Marinelli, Alessandro Dudan, Edmondo Rossoni, segretario dei sindacati
fascisti, Cesare Rossi, capo ufficio stampa del ministero dell'Interno, retto
da Mussolini in persona ed Ernesto Civelli (iniziato alla Gran Loggia),
intendente generale della Marcia con il “fratello” Gaetano Postiglione . Era la
“cupola” del “movimento” ancora lontanissimo dall'essere partito di massa, ma
già proiettato a disegnare lo Stato fascista, soprattutto con l'ingresso di
Alfredo Rocco (“invitato” nell'aprile 1925), che poi vi entrò a vele spiegate
per dare forma al regime, tra introduzione della pena di morte per i reati
contro lo Stato, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato,
riforma elettorale e costituzionalizzazione del Gran Consiglio.
I
partiti d'opposizione, o quanto ne rimaneva, dall'indomani dell’“affare
Matteotti” scelsero di astenersi dall'Aula, di arroccarsi su un immaginario
“Aventino” (considerato dagli studiosi non prevenuti, come Sandro Rogari, il
suicidio della democrazia parlamentare), così celebrando la conclusione del
decennio di dimostrata impotenza a cospetto dei mutamenti politici in atto.
Partiti e sindacati “di sinistra” erano risultati assenti dalla scena nei
momenti cruciali di quel periodo: nel maggio 1915, quando si trattava di
fermare la corsa verso l'intervento nella Grande Guerra; nell'ottobre 1922, a
fronte dell’“insurrezione” delle squadre fasciste, ancora minoritarie nel
Paese, contro l'Esercito e i poteri istituzionali, che quei partiti non vollero
né seppero difendere, avendoli essi stessi sempre osteggiati e auspicandone il
crollo traumatico quale parte del loro stesso piano di guerra; nell'estate
1924, infine, allorché l'opposizione si ridusse ad alimentare la “questione
morale”, liquidata sarcasticamente da Mussolini nel discorso del 3 gennaio.
Il
punto di arrivo di quel processo furono le cd. “leggi fascistissime”. Tra
queste spicca la «regolarizzazione dell'attività delle associazioni e
dell'appartenenza alle medesime del personale dipendente dallo Stato» (legge 26
novembre 1925, n. 2029), precorsa di pochi giorni dall’autoscioglimento delle
logge del Grande Oriente d'Italia e della Serenissima Gran Loggia d'Italia,
ovvero dal crollo verticale dell'unica organizzazione elitaria della borghesia
riformistica, con un piede nell'Ordine e uno nella rivoluzione permanente, con
tendenza repubblicana.
Furono
inoltre ridefinite le «attribuzioni e prerogative del capo del governo» (legge
24 dicembre 1925, n. 2263): non più presidente del Consiglio, “primus inter
pares”, come era stato da Camillo Cavour a Giolitti, ma primo ministro capo del
governo con facoltà di riproporre al Parlamento le leggi bocciate da una Camera
e di farle votare. Nelle cerimonie ufficiali il capo del governo ebbe la
precedenza sui Cavalieri dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, “cugini del
Re” (fra questi figurava Mussolini stesso, cui Vittorio Emanuele III conferì il
“collare” dopo l'annessione di Fiume all'Italia, in applicazione della regola
non scritta secondo cui l’onorificenza spettava agli statisti che procuravano
l'ingrandimento del territorio nazionale).
A
coronare il processo di riforma fu infine la legge 31 gennaio 1926, n. 100
sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di
Stato: vera e propria sostituzione del Parlamento, relegato in posizione
secondaria e sussidiaria nella formazione delle leggi.
Quelle
norme, coordinate in un progetto coerente, furono liberticide ma al tempo
stesso ottennero il consenso dell'elettorato, certificato nelle elezioni del 29
marzo 1929. Esse vennero varate nel corso dell'Anno Santo 1925, tuttora da
studiare nei suoi molteplici aspetti e ripercussioni. Il minimo che se ne può
dire in questa sede è che il Giubileo di papa Pio X coincise con la
liquidazione del poco che rimaneva del Partito popolare italiano, del quale la
Santa Sede non aveva mai sentito bisogno, con il severo monito al clero di
astenersi da questioni politiche e con la facoltà conferita ai vescovi di
assolvere i massoni dalla scomunica loro comminata dal Codice di diritto
canonico del 1917.
Il Re isolato
E il Re? Prese atto della volontà popolare
espressa dalla Camera elettiva e dal Senato popolato di a-fascisti e, ancora,
da antifascisti dichiarati. Sovrano scrupolosamente costituzionale, Vittorio
Emanuele III non poteva non sanzionare e promulgare leggi approvate dalle
Camere che, egli confidò a chi gli chiedeva di “scendere in campo” contro il
governo, erano i suoi occhi e i suoi orecchi. Per farlo gli occorreva un voto
parlamentare di sfiducia verso l'esecutivo o almeno un suo robusto
pronunciamento in Aula. Ma ormai l'opposizione era svanita, in parte di sua
stessa iniziativa, in parte perché dichiarata decaduta per assenza
ingiustificata.
Quale
fosse allora il clima del Paese venne poi scritto nella voce “Italia”
dell'Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile, pubblicata nel 1933,
scritta da Alberto Maria Ghisalberti, all'epoca incaricato di storia
contemporanea all'Università “La Sapienza” di Roma futuro presidente dell'Istituto per la storia
del Risorgimento italiano. Dopo il 1922, essa recita, “l'ardua fatica, sulla
quale il Duce aveva invocato l'aiuto di Dio, s’iniziava. Ordine, lavoro e
disciplina venivano dati alla nazione turbata, s’«inquadrava» e si rafforzava
lo stato, si dotava la rivoluzione di uno strumento armato, la milizia, si
ricostituivano le forze militari, si affrontava in pieno l'assillante problema
del riassestamento economico e finanziario. Sin dal primo tempo venivano
migliorati i servizi pubblici, specie il ferroviario, attuata una politica
marinara di vasto respiro, gettate le basi di un radicale riordinamento
scolastico, iniziato il risanamento della moneta, bandita (autunno 1925) la
battaglia del grano, che ha permesso l’affrancamento dai mercati stranieri,
cominciate e condotte a termine centinaia di iniziative in tutti i campi, per
le quali ci sarebbero voluti decenni sotto i passati regimi […]. Tramontata per
sempre la concezione demoliberale, lo stato si è ordinato su basi corporative.
[…] E quando la violenza di alcuni dissennati in un cupo episodio di passione
partigiana soppresse un deputato di opposizione [Giacomo Matteotti, NdA], i
rappresentanti di questa ne vollero far responsabile il fascismo e i suoi capi
con una campagna di denigrazione senza esempio e senza limiti. Ma la
“secessione dell’Aventino” fu stroncata dal memorabile discorso del Duce del 3
gennaio 1925 e, superata l’artificiosa questione morale, il fascismo riprese il
suo cammino vittorioso. E il popolo fu con lui, come attestarono le elezioni
plebiscitarie del 1929 e il grandioso e pur controllato accrescersi di iscritti
al partito e alle sue organizzazioni.» Quest'ultimo avvenne col favore, ma
Ghisalberti non lo scrisse, del giuramento obbligatorio di fedeltà al duce
oltre che al Re e con l'obbligo della tessera del PNF per adire i concorsi e
gli uffici pubblici. Era la “tessera del pane”, bene accetta dalle moltitudini
alle quali poco importavano la “dottrina” e la “mistica” fascista, purché si
stesse meglio e non si corressero rischi di nuove guerre sui confini d'Italia.
Quando una ne venne, catastrofica, il regime crollò: su decisione non degli
“antifascisti” ma di Vittorio Emanuele III, che il 25 luglio 1943 revocò
Mussolini e lo sostituì con Pietro Badoglio.
Aldo A Mola
DIDASCALIA: Ritratto a olio di Benito Mussolini, dipinto da Franck O. Salisbury (1927). Il duce, col distintivo del PNF, tiene in mano una carpetta intitolata “Governo”.