NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 16 novembre 2015

La grande guerra a Motta di Livenza

di Emilio del Bel Belluz

“Il cielo ricorda sempre ciò che la terra dimentica. La fragranza delle rose nel vento offuscato: le forre sanguigne dove crescono ancora le querce: i volti chini dal profilo nero nel sole della sera: la polvere vagante e le solitarie parole degli uomini”. Earl Guy  

  
Passeggio solitario per il Viale della Rimembranza, lì vi sono degli alberi piantati cento anni fa.  Quel luogo aveva un significato storico, ogni albero era dedicato a un caduto della grande Guerra. Una maestra, che ricordo sempre con affetto, mi diceva che ogni albero aveva una targhetta con il nome del soldato che aveva donato la sua vita al Paese. Spesso mi sono chiesto perché non si possano ricollocare queste targhette. Nella mia passeggiata osservo le acque della piccola Livenza, sono circa cinquanta anni che mi godo questo corso d’acqua. Attraccate al piccolo pontile vi sono alcune barche, in passato vi era anche un piccolo peschereccio che era giunto da Caorle attraverso il fiume. Ogni mattina  lo osservavo, alle sue spalle i grandi tigli che si stagliavano verso il cielo a ricordo dei caduti in guerra. 
Nella stagione autunnale, l’acqua si copre di foglie, creando un tappeto multicolore. Il mio amico Paolino, che ha la passione della fotografia, avrà sicuramente immortalato  questo spettacolo. Il viale della Rimembranza, con l’avvicinarsi del 4 novembre, sembra ancora più malinconico. A poche centinaia di metri vi sta il ristorante più vecchio di Motta, posto vicino al fiume. Un tempo i barconi che arrivavano a Motta trovavano un punto di ristoro. Dall’altra parte del ristorante Disarò, vi stava una chiesetta, che ora è stata demolita. La ricordo perché me ne parlò una donna e me ne mostrò una foto. Nel monumento ai caduti posto all’entrata dell’asilo si trovavano due lapidi che ricordavano quelli che erano morti nelle ultime due guerre.  
Ora chiunque passi davanti al monumento non ha più la possibilità di soffermarsi per leggere e onorare quei soldati. Quanto sarebbe importante il poter ricollocare quelle lapidi con i nomi dei caduti cent’anni fa. Mi torna in mente una poesia di Eral Guy  “ Il cielo ricorda sempre ciò che  la terra dimentica”. La poesia rispecchia il  mio stato d’animo attuale. Una bella città come Motta di Livenza ha dimenticato quei soldati. Mi chiedo a cosa serva porre una corona di fiori il 4 novembre, se la gente non può leggere neppure un nome, di quei soldati che andarono a morire a soli vent’anni. Incamminandomi verso la basilica dei miracoli, mi viene in mente il tenente Giovanni Barbesti di Milano, ultimo caduto della Grande Guerra, proprio davanti alla Basilica. Anche lui non ha una lapide che lo ricordi. Durante la Grande Guerra la Basilica venne trasformata in ospedale, e molti chiusero gli occhi nella casa della Madonna e quelli che si salvarono non avranno mai dimenticato la loro degenza in questo luogo sacro. 
Sulle pareti della cripta, in alto, vi sono delle lunette dipinte, tra cui vi è una che rappresenta la celebrazione della Vittoria della Grande Guerra, vi sono raffigurati dei soldati che festeggiano la fine delle ostilità sventolando delle bandiere ed  in una manca lo stemma sabaudo. I soldati della Grande Guerra andarono a combattere con la bandiera del Re, allora regnava Vittorio Emanuele III, il Re soldato. In una pagina dell’Avvenire dell’1 ottobre 2015, Nazareno Giusti, su Vittorio Emanuele III scriveva: “ Il Re soldato usciva presto al mattino su una  macchina scoperta per recarsi verso il fronte. Spesso, saliva sulle alture da cui, con i binocoli, osservava la situazione sull’Isonzo e poi scattava, scattava foto con la sua Kodak. Il sovrano amava fumare il sigaro che spesso offriva ai soldati e poi si riempiva le tasche di cioccolatini che dava ai bambini. I suoi pranzi e le sue cene erano parchi: un po’ di carne fredda, uova, pane e acqua. Alla sera c’erano gli incontri con gli attendenti e  i comandanti davanti al fuoco. Poi, andavano a letto. Avveniva, allora, un momento di intensa comunione con i soldati : il Re dormiva infatti in una branda militare. E lo fece, va detto, per tutta la durata del conflitto. Il Re andò ad abitare nei pressi di Udine, a Torreano di Martignacco, in quella che verrà poi rinominata “ Villa Italia” e che fu centro di incontri internazionali: vi giunsero il presidente della repubblica Francese, il principe di Galles ma anche Nicola di Montenegro, “il Re pastore”, che, sparito, fu ritrovato assieme ad alcuni avventori in una osteria”. Penso a questo conflitto che costò alla Nazione quasi ottocentomila morti e circa seicentomila feriti. Una guerra che fu lunga e difficile e che disseminò morte e distruzione. 

Una mostra onorerà a Motta di Livenza i suoi caduti. Il manifesto raffigura parzialmente ciò che si potrà vedere nella mostra: un elmetto della Grande Guerra, delle lettere scritte dai soldati, una penna con vicino l’inchiostro e un paio d’occhiali accanto ad una rosa rossa. La guerra può essere rappresentata anche da questi pochi oggetti. Ancora mi viene in mente una poesia che scrisse l’ufficiale Austriaco Walther Maria Neuwirth. Questo ufficiale aveva scritto in un suo libro il periodo trascorso a Motta di Livenza durante la guerra. Ai tempi dell’università mi capitò tra le mani questo vecchio libro con la copertina molto logora. Questo volume era stato pubblicato da una casa editrice molto nota allora, e si snodava in circa duecento pagine di ricordi. Avvertii uno scrittore che viveva a Vienna e con il suo aiuto venne rintracciato l’autore del libro, quasi centenario. Trovai successivamente  la Casa Editrice Hefti che ristampò questo libro, prefatto da me e da Eugenio Bucciol. Assistiti dalla fortuna riuscimmo a far venire il centenario a Motta di Livenza dove presentò questo libro: Isonzo Piave e Montello. Osservando il foro dell’elmetto raffigurato sulla locandina che pubblicizzava il libro, ripensai ad una poesia che scrisse per un soldato nemico Walter Maria Neuwirth.  E’ la prima volta che trovo una poesia dedicata da un soldato al proprio nemico caduto in guerra. 

UN CESPUGLIO  DI  ROSE
Un cespuglio di rose secche
adorna la fossa, abbandonata e quieta,
di un nemico. Monotona sferraglia
la colonna di carriaggi
sull’interminabile strada.
Ogni tanto solo s’alza la bestemmia
di un conducente greve di sonno
che strattona gli stanchi cavalli.
Le alte ruote sprofondano.
Sospinte dal vento della sera
cupe nubi inseguono incessanti il convoglio.
Mi curvo sulla piccola croce
per decifrare il nome straniero,
appoggiato al fucile,
bruno di ruggine,
conficcato nella terra per ornamento.
Vi pende, ammaccato,
il verde elmetto del morto
e tra i fori fruscia il vento.
La pioggia sottile lo investe
ed è come un sommesso lamento del destino
“Riposa in pace, quieto mio nemico.
Io devo proseguire, chissà per quanto ancora.
A primavera rifiorirà la tua pianta di rose.
Forse un giorno verrà la ragazza
che ora ti piange e inconsciamente
staccherà una rosa imbevuta di sangue”.

Quando venne  a Motta il centenario Walther Maria Neuwirth,  ebbi il piacere di trascorrere con lui alcuni giorni a Villa Luppis, e dalle nostre conversazioni trovai l’ispirazione per scrivere i libri: Da Vienna al Livenza e il Reduce. Mi  è caro ricordarlo, come mi è caro ricordare tutti quei soldati mottensi che morirono durante la Grande Guerra. Alcuni anni fa, rimasi commosso che un mottense trascrisse tutti i nomi dei caduti della Grande Guerra sulla bandiera italiana affinché ne rimanesse il ricordo e ne fece dono al comune di Motta. 
La storia non può dimenticare quelli non hanno una croce, il cui nome solo Dio conosce. La mostra si è prefissata lo scopo di ricordare tutti i caduti nel centenario dall’ingresso dell’Italia in guerra. Nella mostra è stata ricostruita una trincea, dove i soldati dovettero lottare con tutte le loro forze per mantenere le posizioni. Molti di loro morirono, in modo eroico.
Nella mostra è stata allestita anche una ricostruzione di un piccolo ospedale da campo. Con magistrale impegno sono sati recuperati degli strumenti chirurgici di quasi cento anni fa, forse rimasti sepolti nella terra bagnata dal sangue di chi era morto. Osservando questa postazione di primo soccorso, mi è ritornata  alla mente una storia  realmente accaduta tra due soldati nemici, entrambi feriti.
La storia che vado a trascrivere induce a riflettere che la guerra non è solo odio. – Fratelli – “ Nell’angolo di sinistra ho ritrovato, appena sepolti, proprio accanto, due soldati medicati l’altra sera: un sardo e un austriaco. Si erano incontrati sull’estremo ciglio della trincea e si erano lanciate l’uno contro l’altro tutte le bombe che teneva nel tascapane… caddero, uno accanto all’altro, boccheggianti nel sangue. eppure ancora stringevano il pugno, ancora digrignavano  i denti e si insultavano a vicenda. I portaferiti li raccolsero e me li portarono al posto di medicazione, dove li curai in fretta e li caricai ambedue sulla stessa ambulanza; nella barella di sopra collocai il sardo, in quella di sotto il tedesco. Costui, che aveva gran sete, chiese da bere; ma lo chiese in tedesco; e il sardo che stava sopra, sentendo quella lingua aborrita, si rimescolò tutto e si frugò in tasca per cercare se avesse ancora una bomba da lanciare contro il nemico che stava lì sotto. Allora il tedesco ebbe una ispirazione e disse un’altra parola, una parola che non era né tedesca, né italiana, né francese, che tutti capimmo; disse: “ Gesù”. Sentendo il nome Santo di Cristo, il soldato sardo si contrasse nervosamente; i suoi occhi, che prima sprizzavano odio, io li vidi riempirsi di lacrime poi si frugò in tasca, afferrò qualche cosa, abbassò la mano ripiena verso il nemico e lasciò cadere un oggetto… ebbi paura che fosse una bomba e guardai: era un limone!
L’ultimo ristoro che teneva, l’ultima stilla di vita che portava con sé, volle cederla al nemico, contro il quale poco prima avrebbe voluto lanciare una bomba! Quel ragazzo aveva capito una gran cosa. Aveva compreso che al di sopra dei nostri odi e delle nostre lotte nel nome santo di Cristo, stava ancora bella e intatta la grande solidarietà umana, la santa fratellanza cristiana!” Zona di guerra, 12 giugno 1917 Cesare Bonini. Nella mie letture ho cercato la narrazione di episodi come questo e gli ho dato la giusta rilevazione storica. Durante la guerra i soldati, anche se nemici, non smisero di sentirsi fratelli ed uniti dalla figura di Gesù Cristo. Nella mostra c’è anche la ricostruzione di una baracca in i soldati aspettano gli ordini dei superiori e nel frattempo alcuni di loro scrivono ai loro famigliari.
Dopo la guerra vennero pubblicati molti diari e lettere dal fronte, e racchiudevano una grande umanità e spiritualità. Una  di queste lettere è stata scritta da Enzo Valentini, volontario a 18 anni:” 3 ottobre 1915. “ Da due giorni il cannone tace. La montagna dorme nel suo silenzio e nel  suo candore, terribilmente bella.  Fino a poco fa ci pareva di conquistarla contro un nemico che ce la contrastava, oggi sentiamo che noi non conquistiamo, né gli austriaci difendono la montagna, ma la montagna tollera noi e loro. La neve discesa dal cielo su noi e sui nostri nemici… Il grande silenzio ha vinto il frastuono”. Le dure ore di attesa sono interminabili e nel frattempo i soldati pregano, scrivono a casa, il loro pensiero è sempre rivolto alle persone care che attendono loro notizie. Il richiamo al dovere e alla patria è immenso, anche se turbato dal timore di non poter rivedere spuntare la nuova alba. In montagna, le baracche vengono riscaldate dal sole solo qualche ora al giorno, il freddo è un altro nemico da combattere.
Mi commuovo nel leggere la lettera scritta dal soldato diciottenne. La guerra ha forgiato il suo cuore, e rafforzato la sua tenacia,  per lui  quella guerra non poteva essere perduta, e  tutti davano il loro contributo di forza e di sangue. Sicuramente  non poteva mancare nei suoi pensieri la presenza del Signore. Si dice che in montagna si senta di più la vicinanza del Signore, essendo facilitati dal silenzio, la meditazione    e il raccoglimento in  se stessi. Questo soldato è uno dei giovani nati nel 1897 e le sue parole hanno il sapore della saggezza. Credo che in guerra si sia portato un semplice quaderno per scrivere,  per annotare quei momenti per lui così importanti.

Lo scrivere significava  allontanarsi per qualche istante dalle brutture della guerra e ricongiungersi al calore dei propri cari. Con l’elmetto calato sulla testa, con il fucile accanto, assieme ad altri soldati e con la consapevolezza che ogni attimo di vita è importante perché potrebbe essere l’ultimo. Lo stesso soldato diciottenne scriveva: “16 settembre 1915, ad una signorina. “Una imperturbabile serenità regna dentro di me: è questa la mia forza, quella che mi sostiene in questa guerra di sacrifici quotidiani, in cui più del coraggio è necessaria la dura volontà, la pazienza e la resistenza”. 24 luglio 1915 alla madre. “Ti scrivo dalla penombra della baracca di legno, che è ora la mia casa, mentre fuori piove sulla montagna attediata  di nebbia. Naturalmente nella regione dello spirito, in cui vivo da tempo, la pioggia e la nebbia non hanno nessuna influenza, anzi per contrasto il sereno è più smagliante”. 28 agosto, alla madre. “ La vita che ho fatto finora, non mi ha per nulla demoralizzato, e i disagi e le fatiche, cozzando contro la mia volontà immutabile, come le onde contro lo scoglio, non la fanno né tremare né vacillare. … Dopo la guerra, la dolce erba dei prati invaderà i cammini, le piogge attenueranno i solchi profondi delle trincee, che si copriranno di fiori, e della grande guerra null’altro apparirà che qualche ruga e qualche incavo sul dorso del monte, e qualche frammento di ferro corroso, che la mucca del lento andare urterà con il piede pacifico”. Queste sono intense pagine di eroismo, dettate da un cuore nobile, un cuore che si dona alla patria.  “ Alla morte era già pronto. Il 27 giugno aveva già scritto il suo testamento, in cui prendeva congedo dalla madre” Sii forte, mammina; dall’aldilà, ti dice addio a te, a papà, ai fratelli, a quanti mi amarono, il tuo figlio che dette il suo corpo per combattere chi voleva uccidere la luce”. Venne il giorno in cui la guerra si ridestò anche nel settore agordino. Enzo Valentini uscì all’assalto con la sua compagnia. Doveva traversare un vasto tratto di valle per giungere alla trincea nemica. Correva dinnanzi a tutti. Una pallottola lo colse, e abbatté davanti alla montagna impassibile il giovinetto poeta che l’aveva fusa col momento sublime del suo cuore”.  Adolfo Modeo - Da momenti della vita di guerra-  La morte colse questo soldato nel fiore degli anni, forse anche la sua tomba sarà adornata da un cespuglio di rose rosse selvatiche. La vita di questo soldato verrà ricordata per sempre nel cuore  dalla madre come un fiore che è stato reciso prima del tempo. Il soldato ha bagnato con il suo sangue la terra della nostra amata patria. “ Tutti avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell’ elmetto. Tutti portavano l’insegna del supplizio nella croce della baionetta , e nelle tasche il pane dell’ultima cena, il pianto dell’ultimo addio. (Poesia rinvenuta nelle tasche di un soldato caduto sulle Dolomiti).

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