Cari
amici ringrazio vivamente l'ing. Banti
che, coi suoi collaboratori dà vita nuova a questo Circolo, ringrazio
l'insigne, antico Maestro Volpe il quale mi ha fatto l'onore di una
introduzione alle cose che sono per dirvi, ringrazio voi tutti di essere venuti
numerosi a questa riunione per dare significato e vigore al gesto che noi
compiamo.

Abbiamo
domandato, con altri senatori, al Presidente del Consiglio come il Governo si
preparasse a celebrare la ricorrenza cinquantenaria dell'intervento. Attendiamo
ancora risposta. Perché il Governo risponde sempre e immediatamente ai
comunisti, che pretende di isolare; non si occupa degli altri partiti di
opposizione.
E
in tutto ciò vi è una logica; perché i comunisti non sono l'opposizione, sono
invece uno stimolo per operare il peggio e per impedire il meglio.
Abbiamo
saputo ufficiosamente che si commemora, per ora, la «resistenza»; si ricorderà
la guerra del 1915-18 in
occasione della Vittoria, e cioè nel novembre prossimo o in quello del 1968...
Ma noi non sappiamo quale resistenza si possa commemorare, o celebrare, senza
il retaggio glorioso di una guerra vinta. Intendiamo di una guerra combattuta
contro eserciti stranieri, non di una guerra civile contro Italiani e in
presenza dello straniero!
Non
vi può essere spirito di italianità, non vi può essere alcun senso di
patriottismo nella guerra civile, e noi pensiamo che la guerra del '45 sia da
annoverate tra le lotte civili.
Cari
amici, forse io non arriverò in tempo a sviluppare l'affascinante ma complesso
argomento dell'intervento italiano nel '15.
A
volte sembra facile affrontare certi argomenti, perché il tema è lì davanti a
noi nella sua schietta sostanza; ma è poi difficile riordinare la trama del
nostro dire. Mi sarebbe stato facile, come io speravo, se il nostro Gioacchino Volpe
non si fosse fermato, nella sua meravigliosa storia dell'Italia moderna, esattamente
al 1915 e cioè al punto dal quale io devo cominciare.
Questo
significa che tutta la materia che abbiamo sotto gli occhi o serbiamo nella
memoria è una materia fortemente controversa dalla quale lo storico rifugge
ancora, respingendo la tentazione di affrontare le ricerche e le soluzioni
necessarie.
La
guerra del 1915 non si comprende senza dare uno sguardo approfondito al 1911 e
alla impresa di Libia. E’ dall'impresa di Libia che la nostra generazione ha
cominciato a vedere il nuovo Risorgimento d'Italia: quello del 1911 e non
quello del 1945-46, manifestazione dell'antico dissolvimento d'Italia sotto le
opposte influenze delle invasioni straniere.
Nel
1911 nacque appunto il nuovo Risorgimento d'Italia. Tornò al potere Gíolitti e
tornò con un programma vigoroso e difforme in cui si mescolavano le esigenze
della Sinistra e quelle nazionali; il suffragio allargato, anche agli
analfabeti; il monopolio delle Assicurazioni e la guerra di Libia.
E’
uscito recentemente un volume di Giampiero Carocci sul
«Parlamento
italiano nella storia d'Italia». Vi si riassume una discussione del 1911 alla
Camera tra due eminenti uomini del passato: Antonio Salandra e Giovanni Giolitti.
Giovanni Giolitti difendeva, d'accordo con Nítti, il monopolio delle
Assicurazioni e Salandra lo osteggiava. Vediamo anticipati in quel dialogo
molti contrasti del momento attuale tra la politica socialista e il
liberalismo.
Giolitti
aveva ripetuto, nel costituire il suo quarto ministero il gesto di invitare un socialista
a entrare nel Governo. Il gesto era desiderato da Vittorio Emanuele che nutriva
grande simpatia per Bissolati e fin dal 1902 aveva manifestato il desiderio di
ottenere la collaborazione dei socialisti.
Allora
era stato invitato Turati, ma Turati aveva declinato l'offerta. Nel 1911 fu
invitato al Quirinale il Bissolati il quale chiese di presentarsi al Re in
giacchetta e con il cap pello floscio.
Il
Re fu felicissimo di riceverlo in giacchetta e con il cappello floscio. Ma
anche Bissolati non poté accettare, non perché non lo volesse ma perché temeva
di arrivare solo e senza alcun seguito di compagni.
Giolitti
accolse nel Governo i radicali: Credaro, Nitti, Ettore Sacchi. E dette
così al suo Ministero un programma più accentuato di sinistra. Contro il suffragio
allargato ricordo un saggio di Gaetano Mosca e l'atteggiamento del «Corriere
della Sera» di Albertini, che prevedeva il fatto da me ripetuto molte altre
volte senza ricordare quanto aveva scritto Albertini: che il suffragio
universale avrebbe messo fuori gioco, o relegato alla opposizione il vecchio
Partito Liberale, il quale aveva compiuto il Risorgimento e governava il Paese
dal 1848, o quanto meno dal 1861, sia pure nelle sue varie espressioni.
Ma
Giolitti serbava nella manica una carta inattesa, quella della guerra di
Tripoli. Fu questa una grossa benemerenza dello statista piemontese. Da dieci
anni noi avevamo acceso una ipoteca sulla Libia con il consenso di tutte le
Potenze: Francia, Inghilterra e Russia oltre l'Austria e la Germania nostre alleate.
Era passato un decennio e questa nostra ipoteca si andava logorando, perché non
si possono lasciare dei vuoti geografici, per troppo tempo, senza che ad altri
nasca il desiderio di occuparli. Osservatori politici e giornalisti notavano
che Inglesi, Francesi e Tedeschi si facevano vivi, da qualche anno, sulle coste
libiche per ottenere dal Governo ottomano concessioni innocue: per esempio, la
pesca delle spugne, o il permesso di collocare impianti radiotelegrafici, oppure
di utilizzare dei porti di appoggio alle linee di navigazione; e persino di
compiere scavi e ricerche. Insomma Francesi,
Inglesi, Tedeschi si interessavano ai porti e alle ferrovie.
Anche
l'Austria progettava di creare nuovi Consolati su tutto il territorio della
Libia. Non solo ma la Francia
in Tunisia e nel Sahara, l'Inghilterra in Egitto, cercavano di limare i margini
del territorio libico a proprio vantaggio.
Giolitti
pensò giustamente che era venuto il tempo di sciogliere questo nodo, se non si
volevano perdere i diritti faticosamente acquisiti. Egli ebbe anche l'occhio a
un fenomeno interno, ottimamente descritto nel terzo volume della citata opera
di Gioacchino Volpe: il fenomeno del nazionalismo.
Io
speravo di vedere oggi fra noi uno dei maggiori attori, un protagonista dei
nazionalismo: Luigi Federzoni*, al quale mando, a nome di tutti voi, un saluto
molto cordiale.
Il
nazionalismo era nato nel 1910 con una concezione totalmente nuova della vita
italiana, rispetto a quella che era la posizione dei partiti e dei gruppi
democratici o liberali, senza dire, naturalmente del socialismo.
Non
era la riproduzione, in Italia, del nazionalismo francese, come è stato detto
più volte dai suoi critici. Enrico Corradini, che ne fu certamente l'uomo più
notevole, non conosceva a abbastanza il francese. Veniva da studi e scuole
classiche, dove voi sapete che il francese si insegnava male o non si insegnava
affatto. Comunque Corradini non leggeva l'« Action Française » e non leggeva né
Maurras, né Daudet, né Bainville. E’ inutile aggiungere che quando io nel 1928 mi recai a Parigi a
intervistare Maurras mi accorsi subito che egli non aveva mai letto nulla di
Enrico Corradini.
Il
nazionalismo francese era un movimento che si ispirava alle regole della antica
Monarchia, e conduceva una lotta di tutti i giorni contro il sistema
democratico della Terza Repubblica; non si può negare che esso anticipasse i
tempi, se si considera quello che è avvenuto della III e della IV Repubblica e
quello che avviene ora con il gollismo e la V Repubblica.
Il nazionalismo francese era per la pace e non aveva nessuno slancio verso l'avvenire. Maurras finì a Vichy con Pétaín e con i tedeschi: terribile ironia del destino.
* Mancato in Roma, alla sua eletta famiglia e all'Italia, il 24 gennaio 1967.
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