NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 21 giugno 2015

La Grande Guerra. Conferenza di Ugo D'Andrea. Prima parte

Cari amici  ringrazio vivamente l'ing. Banti che, coi suoi collaboratori dà vita nuova a questo Circolo, ringrazio l'insigne, antico Maestro Volpe il quale mi ha fatto l'onore di una introduzione alle cose che sono per dirvi, ringrazio voi tutti di essere venuti numerosi a questa riunione per dare significato e vigore al gesto che noi compiamo.
            
Compiamo un gesto doveroso nel ricordare primi il cinquantenario dell'intervento nostro in guerra, e compiamo un atto di protesta contro l'ignoranza ufficiale d'una data che noi reputiamo fra le più gloriose per l'Italia moderna.

Abbiamo domandato, con altri senatori, al Presidente del Consiglio come il Governo si preparasse a celebrare la ricorrenza cinquantenaria dell'intervento. Attendiamo ancora risposta. Perché il Governo risponde sempre e immediatamente ai comunisti, che pretende di isolare; non si occupa degli altri partiti di opposizione.

E in tutto ciò vi è una logica; perché i comunisti non sono l'opposizione, sono invece uno stimolo per operare il peggio e per impedire il meglio.

Abbiamo saputo ufficiosamente che si commemora, per ora, la «resistenza»; si ricorderà la guerra del 1915-18 in occasione della Vittoria, e cioè nel novembre prossimo o in quello del 1968... Ma noi non sappiamo quale resistenza si possa commemorare, o celebrare, senza il retaggio glorioso di una guerra vinta. Intendiamo di una guerra combattuta contro eserciti stranieri, non di una guerra civile contro Italiani e in presenza dello straniero!

Non vi può essere spirito di italianità, non vi può essere alcun senso di patriottismo nella guerra civile, e noi pensiamo che la guerra del '45 sia da annoverate tra le lotte civili.
Cari amici, forse io non arriverò in tempo a sviluppare l'affascinante ma complesso argomento dell'intervento italiano nel '15.

A volte sembra facile affrontare certi argomenti, perché il tema è lì davanti a noi nella sua schietta sostanza; ma è poi difficile riordinare la trama del nostro dire. Mi sarebbe stato facile, come io speravo, se il nostro Gioacchino Volpe non si fosse fermato, nella sua meravigliosa storia dell'Italia moderna, esattamente al 1915 e cioè al punto dal quale io devo cominciare.
Questo significa che tutta la materia che abbiamo sotto gli occhi o serbiamo nella memoria è una materia fortemente controversa dalla quale lo storico rifugge ancora, respingendo la tentazione di affrontare le ricerche e le soluzioni necessarie.

La guerra del 1915 non si comprende senza dare uno sguardo approfondito al 1911 e alla impresa di Libia. E’ dall'impresa di Libia che la nostra generazione ha cominciato a vedere il nuovo Risorgimento d'Italia: quello del 1911 e non quello del 1945-46, manifestazione dell'antico dissolvimento d'Italia sotto le opposte influenze delle invasioni straniere.

Nel 1911 nacque appunto il nuovo Risorgimento d'Italia. Tornò al potere Gíolitti e tornò con un programma vigoroso e difforme in cui si mescolavano le esigenze della Sinistra e quelle nazionali; il suffragio allargato, anche agli analfabeti; il monopolio delle Assicurazioni e la guerra di Libia.
E’ uscito recentemente un volume di Giampiero Carocci sul
«Parlamento italiano nella storia d'Italia». Vi si riassume una discussione del 1911 alla Camera tra due eminenti uomini del passato: Antonio Salandra e Giovanni Giolitti. Giovanni Giolitti difendeva, d'accordo con Nítti, il monopolio delle Assicurazioni e Salandra lo osteggiava. Vediamo anticipati in quel dialogo molti contrasti del momento attuale tra la politica socialista e il liberalismo.

Giolitti aveva ripetuto, nel costituire il suo quarto ministero il gesto di invitare un socialista a entrare nel Governo. Il gesto era desiderato da Vittorio Emanuele che nutriva grande simpatia per Bissolati e fin dal 1902 aveva manifestato il desiderio di ottenere la collaborazione dei socialisti.

Allora era stato invitato Turati, ma Turati aveva declinato l'offerta. Nel 1911 fu invitato al Quirinale il Bissolati il quale chiese di presentarsi al Re in giacchetta e con il cap pello floscio.
Il Re fu felicissimo di riceverlo in giacchetta e con il cappello floscio. Ma anche Bissolati non poté accettare, non perché non lo volesse ma perché temeva di arrivare solo e senza alcun seguito di compagni.

Giolitti accolse nel Governo i radicali: Credaro, Nitti, Ettore Sacchi.  E  dette così al suo Ministero un programma più accentuato di sinistra. Contro il suffragio allargato ricordo un saggio di Gaetano Mosca e l'atteggiamento del «Corriere della Sera» di Albertini, che prevedeva il fatto da me ripetuto molte altre volte senza ricordare quanto aveva scritto Albertini: che il suffragio universale avrebbe messo fuori gioco, o relegato alla opposizione il vecchio Partito Liberale, il quale aveva compiuto il Risorgimento e governava il Paese dal 1848, o quanto meno dal 1861, sia pure nelle sue varie espressioni.

Ma Giolitti serbava nella manica una carta inattesa, quella della guerra di Tripoli. Fu questa una grossa benemerenza dello statista piemontese. Da dieci anni noi avevamo acceso una ipoteca sulla Libia con il consenso di tutte le Potenze: Francia, Inghilterra e Russia oltre l'Austria e la Germania nostre alleate. Era passato un decennio e questa nostra ipoteca si andava logorando, perché non si possono lasciare dei vuoti geografici, per troppo tempo, senza che ad altri nasca il desiderio di occuparli. Osservatori politici e giornalisti notavano che Inglesi, Francesi e Tedeschi si facevano vivi, da qualche anno, sulle coste libiche per ottenere dal Governo ottomano concessioni innocue: per esempio, la pesca delle spugne, o il permesso di collocare impianti radiotelegrafici, oppure di utilizzare dei porti di appoggio alle linee di navigazione; e persino di compiere scavi e ricerche. Insomma Francesi, Inglesi, Tedeschi si interessavano ai porti e alle ferrovie.
Anche l'Austria progettava di creare nuovi Consolati su tutto il territorio della Libia. Non solo ma la Francia in Tunisia e nel Sahara, l'Inghilterra in Egitto, cercavano di limare i margini del territorio libico a proprio vantaggio.


Giolitti pensò giustamente che era venuto il tempo di sciogliere questo nodo, se non si volevano perdere i diritti faticosamente acquisiti. Egli ebbe anche l'occhio a un fenomeno interno, ottimamente descritto nel terzo volume della citata opera di Gioacchino Volpe: il fenomeno del nazionalismo. 
Io speravo di vedere oggi fra noi uno dei maggiori attori, un protagonista dei nazionalismo: Luigi Federzoni*, al quale mando, a nome di tutti voi, un saluto molto cordiale.

Il nazionalismo era nato nel 1910 con una concezione totalmente nuova della vita italiana, rispetto a quella che era la posizione dei partiti e dei gruppi democratici o liberali, senza dire, naturalmente del socialismo.

Non era la riproduzione, in Italia, del nazionalismo francese, come è stato detto più volte dai suoi critici. Enrico Corradini, che ne fu certamente l'uomo più notevole, non conosceva a abbastanza il francese. Veniva da studi e scuole classiche, dove voi sapete che il francese si insegnava male o non si insegnava affatto. Comunque Corradini non leggeva l'« Action Française » e non leggeva né Maurras, né Daudet, né Bainville. E’ inutile aggiungere che quando io nel 1928 mi recai a Parigi a intervistare Maurras mi accorsi subito che egli non aveva mai letto nulla di Enrico Corradini.

Il nazionalismo francese era un movimento che si ispirava alle regole della antica Monarchia, e conduceva una lotta di tutti i giorni contro il sistema democratico della Terza Repubblica; non si può negare che esso anticipasse i tempi, se si considera quello che è avvenuto della III e della IV Repubblica e quello che avviene ora con il gollismo e la V Repubblica.

Il nazionalismo francese era per la pace e non aveva nessuno slancio verso l'avvenire. Maurras finì a Vichy con Pétaín e con i tedeschi: terribile ironia del destino.

* Mancato in Roma, alla sua eletta famiglia e all'Italia, il 24 gennaio 1967.

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