Non so perché gli amici del Circolo Rex, annunciando questa nostra adunata, abbiano voluto qualificare come «Prolusione» le poche parole che io, nella mia qualità di anziano (anzi anzianissimo, forse il più anziano tra quanti sono qui presenti), avrei pronunciato: poche, e innanzi tutto di saluto ai nostri ascoltatori, di ringraziamento al primo conferenziere.
Il
Circolo Rex dedica una serie di conversazioni, che potrebbero anche essere
discussioni, alla prima Grande Guerra, alla guerra vittoriosa di cui ricorre il
Cinquantenario.

Si
è voluto portarla, quest'anno, anche nelle scuole, senza troppo curarsi di
mettere maestri contro scolari o famiglie loro, scolari contro scolari, maestri
contro maestri, insomma Italiani contro Italiani. La cosiddetta Resistenza,
oggi protagonista, è un terreno minato: per tre quarti essa fu guerra civile.
Per tre quarti, di vincitori e armati, contro vinti e oramai disarmati. Quindi,
meno vi si cammina sopra, meglio è.
Invece
noi come ho detto, ci spingererno più indietro nel tempo: all'altra guerra alla
prima grande e fortunata prova dell'Italia unificata, conclusione o
consacrazione del Risorgimento.
Ebbe
anch'essa i suoi momenti grigi o neri. I mesi fra il 1914 e il 1915 furono
quasi di guerra civile con riflessi successivi non benefici su tutto
l'andamento delle operazioni al fronte. Il 1917 vide cedimenti morali all'interno,
diserzioni fra le truppe combattenti, scarso affiatamento fra chi comandava su
l'Isonzo e chi comandava a Roma. E in ultimo Caporetto: che volle dire
dissoluzione di mezzo esercito e arretramento al Piave.
Ma
soldati e civili si ripresero. Obbedirono alla parola del Re: «Siate un esercito
solo». E prima resistettero alle poderose offensive austrogermaniche: poi
presero essi l'iniziativa dell'azione, ripassarono il Piave, liberarono le
province invase, giunsero a Trieste e Gorizia e Trento e Fiume e Zara, cioè ai
«confini che natura pose». Giornate inebrianti, per chi le visse.
Vi
fu la breve crisi del dopoguerra. E poi la marcia parve riprendesse, nella
direttiva segnata dalla vittoria. Nessuno negherà certi attivi del ventennio
seguente, che culminarono nell'impresa etiopica. Quei giorni, anche molti oppositori
del regime applaudirono, persino fuorusciti, mentre altri auguravano
sollecitavano solenni batoste sulle spalle dell'Italia «fascista» da parte
delle Potenze d'Europa. Ma esplose la nuova guerra, venne la sconfitta, franò
il fronte interno in alto e in basso, vi fu il rovesciamento dell'alleanza, per
cui i nemici divennero alleati e, gli alleati nemici. L'Italia fu allora tutta
un campo di battaglia fra stranieri e stranieri, stranieri e Italiani, Italiani
e Italiani; gli Slavi irruppero su la Venezia Giulia e sull'Adriatico, fecero scempio
degli Italiani, sotto gli Occhi indifferenti e tolleranti dei nuovi alleati, e
non senza solidarietà e collaborazione fra Partigiani nostri e comunisti sloveni
o croati; venne il Diktat, e come a
vinti, con scandalo fu imposto da quegli alleati a noi, fra i nostri, anche di
tali che li avevano invocati; venne la mutilazione delle frontiere nazionali,
la perdita delle Colonie, la caduta della Monarchia...
Un
mucchio di rottami.
Ci
torna in mente, a questo punto, la mutevole, alterna vicenda che domina in
tutta la storia della «itala gente dalle molte vite». Conseguenza della
posizione geografica che espone la penisola a tutte le ventate temporalesche, a
tutte le influenze dei Continenti e delle Nazioni attorno? Oppure della
molteplicità e varietà delle sue stirpi, delle sue regioni, dei suoi regimi
politici, con relativa prevalenza di questo o quello e mancanza di stabilità e
di continuità?
Comunque,
noi conosciamo anche una Italia o meglio, una Penisola che è, nel tempo stesso,
sede di civiltà etrusca, greca, italica, celta, veneta, ed una Penisola che
Roma unifica e chiama Italia tutta quanta, facendo di essa il centro e il
sostegno di un Impero mondiale; una Italia corsa e ricorsa, devastata, depredata
da barbari d'ogni nome e provenienza, paese di tutti e di nessuno, paese senza
più neanche il nome, o, se mai, non Italia ma Longobardia, capace poi di
espungere o assimilare tutti gli elementi estranei che vi erano confluiti,
prendere un suo volto, ritrovare il suo nome Italia dalle Alpi al Mar Jonio,
ordinarsi in un promettente Regno a sud e in città libere nel Centro e a Nord
che si espandono tutt'intorno per mare e per terra con le loro navi, i loro
commerci, i loro capitali, la loro cultura, e nutrono di sé grandi poeti e
scrittori che la cantano e glorificano nella nuova lingua letteraria, come
Italia, quasi creatori della Nazione. Poi, ancora, un'Italia campo aperto alla
gara delle grandi Monarchie d'Europa, da esse in vario modo e misura dominata o
controllata; ed un'Italia che faticosamente si costituisce a Stato Nazionale e
raggiunge dopo una grande e vittoriosa guerra i suoi giusti confini. L'opera è
appena compiuta, e tutto va a catafascio, la sua riputazione militare, il suo
credito fra le nazioni, la sua compagine morale, le sue frontiere...
Dopo
Vittorio Veneto, il Diktat...
Verrà
anche ora, come più volte nel passato, la nuova giornata? I nostri padri,
proprio da queste mutabili sorti della Penisola, erano confortati, nei momenti
tristi, a sperare in un domani più lieto. Correva nel '500 e '600 il detto: gli
Spagnuoli son superbi del loro passato; i Francesi sono fieri del loro
presente; gli Italiani guardano sempre all'avvenire.
Ebbene,
noi vogliamo oggi ancora guardare all'avvenire, sperare che le nostre ferite si
risanino. Fra esse, quelle alla frontiera di Nord-Est ed oltre l'Adriatico. Lì,
terre già, redente e ora di nuovo irredente; lì Italiani a centinaia di
migliaia o uccisi e gettati nelle Foibe o costretti a cercare rifugio fra noi.
Ad essi noi qui presenti mandiamo un fraterno, augurale saluto.
Ebbene,
possiamo almeno dar loro qualche speranza, per il domani ed anche per l'oggi?
Si tratta non soltanto di ricuperare quel che abbiamo perduto, ma anche di
conservare quel che perduto non è e potrebbe esserlo,-se noi non vigiliamo. C’è
per esempio una certa zona B, che dovrebbe tornare all'Italia e non è ancora
tornata e non sappiamo se tornerà, anzi cominciamo a temere sia già
silenziosamente perduta. La nostra democrazia, sociale e cristiana, con la sua
scarsa sensibilità nazionale, con le sue solidarietà ideologiche oltre i
confini, col suo regionalismo, non ci dà molto affidamento. Abbiamo gli Slavi
proprio alle porte e nel Consiglio Comunale di Trieste: Trieste è in pericolo.
Né solamente Trieste. Sappiamo che sull'altra sponda fermentano ambizioni che
vanno assai lontano... E non parlo dell'Alto Adige, dove l'offensiva contro noi
è già in atto. Né mi sembra che a Roma la difensiva abbia la stessa risoluta
volontà. A Roma non c'è più la
Monarchia ; non più Vittorio Emanuele III che fin da quando
ascese al trono tenne fissi gli occhi sulle terre irredente. Egli «
irredentisch elenkt» (La Pensa
da irredento), riferiva già allora al suo Governo l'ambasciatore tedesco.
Perciò
non possiamo ora parlare di Fiume e Zara senza risvegliare il ricordo di quel
Re fantaccino che il 24 maggio '15 Partì Primo per la guerra, per tre anni e
mezzo visse fra i combattenti, sfangò nelle trincee e
divise
con i fanti il pane bigio; dopo Caporetto, disse agli Italiani e agli alleati
parole di fiducia. E quando, un anno dopo, tornò alla capitale, vi fu accolto
da una incontenibile fiumana di popolo - il Suo popolo - plaudente.
Il
ricordo della guerra vittoriosa è per noi tutt'uno col ricordo di quel Re morto
in esilio e del Re suo figlio: vivo, ma nell'esilio, nella stessa terra
ospitale dell'avo Carlo Alberto.
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