Come un giornalista , finto tenente di vascello, riuscì ad avvicinare il Re in esilio.
dal quotidiano "La notte", sabato 22 settembre 1979
"Sua Maestà la riceverà con molto piacere."
Così mi fece dire, per telefono, il colonnello Tito
Torella aiutante di campo dell'ex re Vittorio Emanuele III, o « conte di
Pollenzo », nel dicembre 1946, ad Alessandria d'Egitto; lo fece dire proprio a
me giornalista. sebbene fosse noto che i giornalisti Vittorio Emanuele III non
li aveva mai amati e che, a maggior ragione, non intendeva riceverne nessuno
durante l'esílio. A trentatrè anni di distanza rievoco l'episodio - del quale
non vado orgoglioso -, soltanto perché la nostra televisione ha portato
vigorosamente alla ribalta la figura dell'ex re, piccolo di statura;
rievocando, debbo necessariamente spiegare grazie a quali circostanze riuscii
ad ottenere il colloquio «impossibile».
Dicembre 1946, dicevo poc'anzi. In quel periodo, di
armistizio ma non ancora di pace, due nostre corazzate, l'«Italia» e il «Vittorio Veneto», si trovavano ai Laghi Amari, ossia a metà del Canale di
Suez, in stato di internamento; comando ed equipaggio continuavano ad essere
italiani, ma alle due navi, già orgoglio della nostra Marina, non era dato di
lasciare l'ancoraggio. Avevo raggiunto l'«Italia» a bordo d'un caccia, il «Mitragliere», che, facendo la spola fra Taranto ed Egitto, avvicendava il
personale delle corazzate; nell'ambito di quell'avvicendamento, assumeva il
comando in prima dell' «Italia» il capitano di vascello Emesto Pellegrini, mio
cugino. Per quanto riguardava me, dovevo svolgere un servizio sulla nostra
gente ai Laghi Amari col pieno consenso del Ministero della
Marina.
La particolare posizione giuridica dell'«Italia» e
del «Vittorio Veneto» non avrebbe ammesso contatti con la terraferma, del
resto non vicinissima, ma in pratica sia gli inglesi - tuttora installati in
Egitto e in special modo lungo il Canale - sia gli egizíani chiudevano un
occhio sullo sbarco pomeridiano dei «franchi» (i marinai liberi da servizio),
a scopo di generico svago e di piccoli acquisti nelle baracche sorte ai margini
del semideserto. Agli equipaggi si permetteva pure, più o meno eccezionalmente,
di recarsi a Suez; se invece il viaggio avesse avuto altre mete, esso avrebbe
violato ogni limite di tolleranza. Tuttavia, nei mesi precedenti qualcuno di
bordo s'era spinto, naturalmente in abito civile, nientemeno che ad
Alessandria, col preciso scopo di visitarvi Vittorio Emanuele III. Interrogai,
e mi venne detto che l'ex sovrano riceveva senza difficoltà gli uf ficiali
della nostra Marina; allora cominciai a intravedere la possibilità di
avvicinarlo a mia volta.
In breve: c'era chi, sull’«Italia». conosceva ad
Alessandria la famiglia Almagià, composta di israeliti italiani che teneva i
contatti con Vittorio Emanuele III attraverso il colonnello Torella;
munito dei mio passaporto ma privo dei
visto egiziano, mi recai al Cairo e quindi ad Alessandria, senza incappare in
alcun controllo; giunto a destinazione mi presentai a casa Almagià, affermando
di essere cugino del comandante Pellegrini, nonché tenente di vascello, ossia
ufficiale di Marina. Questa seconda parte del discorso era, semplicemente falsa.
Ma la prima, ineccepibile, funzionò energicamente. Donde, quel «Sua Maestà la
riceverà con molto piacere», che gli Almagià, una sera, mi comunicarono,
precisando giorno e ora dell'appuntamento.
Eccomi dunque l'indomani mattina, alle undici meno cinque,
in una zona residenziale detta Smuha City, alcuni chilometri fuori del centro.
Fra i rami delle acacie di via Constantin Choremi si profila villa Iela, di
media mole, piccola come villa, grande come villetta, semplice, moderna; il piano
rialzato dà su una terrazza coperta e il primo piano, su un'altra terrazza,
ariosa; sottili tendine bianche velano i vetri. Un muricciolo cinge villa e
giardino; presso il cancello con il nodo di Savoia sta una garitta, un
poliziotto egiziano vigila. E il colonnello Torella è già in attesa, mi
accompagna per una lista di cemento e per pochi gradini sino al piano rialzato,
dove un maggiordomo italiano, in giacca bianca, mi introduce; Torella se ne va,
il maggiordomo sale ad avvertire Vittorio Emanuele.
Il conte di Pollenzo
In un armadio a muro della minuscola stanza d'ingresso
si allineano doppiette e carabine di vari calibri; in alto, gli astucci; in
basso, cartucce di marca italiana. (Sebbene Vittorio Emanuele fosse buon
cacciatore, credo che le armi venissero usate dai suoi familiari; egli, invece,
preferiva notoriamente la pesca e continuava a praticarla in Egitto, dove il
mare gli offriva soddisfazioni copiose). Un saloncino arredato con eleganza
s'apre a sinistra; vasti tappeti e le poltrone e un divano creano un ambiente
soffice. Verso le finestre, un pianoforte: sull'altro lato, una grossa radio.
Parecchi soprammobili di pregio, paesaggi, fotografie delle figlie e dei nipoti
di Vittorio Emanuele, re Boris con l'elmetto di guerra. Sulla parete di fronte
all'ingresso campeggia un grande quadro di Umberto II «conte di Sarre» in divisa di generale, su sfondo turchino cupo.
Dal saloncino, una scala conduce al primo piano. Due
minuti, e il «conte di Pollenzo» compare sull'alto di quella scala, ne
discende oscillando un poco per via della statura e dell'età, mi s'avvicina,
stringe la mano a me sull'attenti, mi dà il buon giorno con aria sorridente e
cordiale. So di persone ricevute da lui anche a lungo, ma sempre, in piedi; nel
mio caso. l'ex re mi precede subito in un attiguo e
mi fa sedere dinanzi a lui.
Pellegrinaggio a El Alamein
Di buona cera, diritto asciutto, Vittorio
Emanuele veste un abito a un solo petto di tessuto spigato color nocciola, e un
panciotto grigio di lana pesante, sul colletto bianco rigido la cravatta blu è
ben annodata; lucide a specchio le scarpe, nere, alte. Sembra calvo perché
tiene i capelli quasi rasati, mentre ha discretamente fitti i baffetti bianchi
spiovono sopra il labbro superiore; gli incisivi, un poco giallastri, si sono
radunati nella forma complessiva dì una V. Segni di stanchezza e di vivacità si
alternano negli occhi sempre penetranti; sul volto, le rughe non sembrano
troppo numerose e comunque non infieriscono; le mandibole, invece,
s'afflosciano in due borse che, a mento basso, si inturgidiscono lateralmente.
Curate alla buona, le unghie; mani, con qualche screpolatura e qualche
lentiggine. Vittorio Emanuele ha tracce di accento piemontese nella parlata,
cui s'alternano momenti di cadenza centrale.
Chiestomi di dove sono e saputo che ho
raggiunto l'Egitto con una nave da guerra, il «conte di Pollenzo» avvia il
discorso sulla Marina, accenna alla vulnerabilità delle corazzate di fronte ai
mezzi moderni d'offesa; si rammenta del capitano di vascello Pellegrini - già
comandante dell’incrociatore «Scipione l'Africano» in un vittorioso
combattimento notturno contro motosiluranti statunitensi - anche perché, nel
settembre di tre anni prima, proprio sullo «Scipione» aveva inciso un disco,
contenente il suo proclama al popolo italiano. Poi, la conversazione tocca un
punto affermato da alcuni, smentito da altri; il «conte di Pollenzo» lo
chiarisce parlando a lungo della sua visita a El Alamein nel precedente giugno,
cioè appena arrivato in Egitto, benché non ne avesse avuto l’autorizzazione
ufficiale. «Il permesso tardava, probabilmente ci sono ancora troppe mine
nella zona. Allora partii lo stesso e... non sono saltato, come lei vede».
Vittorio Emanuele esce in una risatina di
tono basso, aspirata come usano gli scandinavi; riprende quindi il tema di prima narrando dei cimiteri di guerra di El
Alamein e sottolineando: «Gli ufficiali inglesi delle Life Guards ancora
dislocati qui in Egitto, ricordano la “Folgore" come una divisione eroica,
me lo ha riferito una mia nipotina».
Torna alle mine ed alla difficoltà di
rastrellarne il deserto; cito la sorte sanguinosa della maggioranza degli
sminatori romagnoli nell'immediato dopoguerra; «mia moglie è di origine
romagnola», soggiungo, e Vittorio Emanuele mi chiede di dove. «La famiglia,
di Fusignano e di Bagnacavallo».
«Già - commenta -, vicino ad Alfonsine e
a Lugo, oh, conosco bene quei posti, li ho girati parecchio». E, date le
tradizioni istituzionali di Romagna, che Vittorio Ernanuele li abbia sulla
punta delle dita non v'e da sorprendersi, ma il collaudo della sua proverbiale
memoria ferrea e della sua conoscenza d'ogni particolare d'Italia non poteva
riuscire più positivo.
Il monte Grappa la Slovenia, gli incidenti
avvenuti a Padova pochi giorni prima, fra popolazione ed inglesi; ecco
altrettanti spunti della nostra conversazione, svoltasi a ruota libera e senza
etichetta, benché al «conte di Pollenzo» si continuasse a rivolger la parola
col titolo di «maestà». A proposito di Padova, il «conte di Pollenzo»
soggiunse: «I pasticci sono inevitabili. se quel soldati si mettono a fare gli
impertinenti». Sicuro, il pensiero di Vittorio Emanuele era palesemente volto
all'Italia; si rammaricava, l'ex re, che i nostri giornali non giungessero in
Egitto per via aerea e che quindi fossero sorpassati dagli avvenimenti; del settimanale
(comunista) di lingua italiana edito al Cairo sino a poche settimane prima,
feroce contro la monarchia, disse sorridendo, con umorismo distaccato: «Era un
po' malignetto, con noi Savoia». Momento di silenzio. Ma Vittorio Emanuele,
nonostante i suoi settantasette anni compiuti, era rimasto rapido nella
percezione e nella parola, per cui rimedio subito al passeggero disagio
abbordando il tema generico della casa: «Vede quanto spazio sprecato, con quel
saloncino e questo salotto. Tanto più che noi non riceviamo mai nessuno».
E si ricomincia a conversare e, di fronte
alla sfacciata comparsa di due mosche, l'ex re commenta sarcastico «fasto
orientale...» riferendosi, come poco prima, alla casa. Ma basta quell'accenno all’Oriente
perché vengano a galla 1’Egitto, i problemi sociali ed economici del mondo
arabo, e quelli religiosi e morali e politici quando, a mia volta, rievoco il
disprezzo per la morte negli antichi conquistatori islamici, attratti dal
miraggio d'un al di là favoloso, Vittorio Emanuele prosegue, col tono
volutamente monotono di chi recita a memoria: «Già, Il paradiso con le Urì
dalla pelle bianca come uova di struzzo sepolte sotto la sabbia del deserto...
In passato, ho studiato molto il Corano, ma chi se ne ricorda più?». Il
medesimo tono di velato rimpianto, di amarezza inconfessata, affiora in una
delle ultime frasi del colloquio: «Adesso io non conto più nulla. C'è mio
figlio che...».
Le undici e venti. Sono passati
esattamente venti minuti. Vittorio Emanuele si alza dalla poltroncina, dà
un'occhiata ai piatti sbalzati del salotto, passa nel saloncino che serve da
stanza di soggiorno, accenna con la mano alle pareti: «Ho portato via dei
quadri...»; rettifica: «Mi hanno lasciato portar via dei quadri...», e mi fa
osservare un buon dipinto di un veliero sul mare forte, dove brillano, sotto il
cielo cupo, soltanto pochi raggi del sole al tramonto.
- Arrivederla, buone cose.
Io, di nuovo, sull'attenti; una stretta di
mano. Il «conte di Pollenzo» ritorna al primo piano salendo la scala
lentamente, con qualche fatica.
L'incontro con Elena di Savoia
Rimasi solo. Non v'era Torella, non il maggiordomo.
Attesi un paio di minuti, incerto, scosso dall'incontro eccezionale: concentrai
lo sguardo sui vari elementi del saloncino, per rammentarli il meglio
possibile. Poi decisi di uscire, scesi in giardino; dalla via Choremi stava
entrando proprio allora Elena di Savoia, in pelliccia nera, eretta, seria;
sembrò sorpresa della mia presenza, ne chiese al maggiordomo, comparso in quel
momento alle mie spalle. Mi presentai; mi tese la mano. Col mio commiato da
villa Iela, non fu finita. Anni dopo, in Germania, incontrai lo scrittore ed
amico; Giovanni Artieri storico dei Savoia; ebbene, durante le sue
conversazioni con l'ex re Umberto II, a Cascais, Artieri lo aveva sentito
rammaricarsi del «tenente di vascello» introdottosi presso il vecchio padre.
Artieri me lo riferì in via di discorso, senza forse sapere di parlar proprio
con il reo; lì per lì rimasi interdetto, addolorato che un episodio ormai vecchio
potesse ancora avere una scia; né osai dire «quel "tenente di vascello"
ero io». Rimediai il 19 marzo 1951, incontrando Umberto II a Cannes, durante
una visita basata sul mondo sottomarino. Nel presentarmi in quella circostanza,
volli infatti sillabare il mio cognome, non senza aggiungere che dovevo farmi
perdonare qualcosa. Sulle prime, Umberto II rimase perplesso, poi mi batté
amichevolmente con la mano su un braccio, rispondendo: «Va bene, va bene, ciao». Sorrideva con cordialità, sembrava un pochino commosso. Suo padre era morto
il 28 dicembre 1947, giusto un anno dopo il colloquio col «tenente di vascello».
Lino Pellegrini