SITO NOSTRO CONVEGNO
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SITO NOSTRO CONVEGNO
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Il 28 novembre 1952, moriva in terra di
Francia, a Montpellier, la Regina Elena, moglie dell’amato Re Vittorio Emanuele
III. La notizia della sua morte raggiunse subito l’Italia, e fu come se il
Paese si oscurasse. Per gli italiani la Regina era stata sempre come una Mamma,
una donna che aveva nel cuore la sua famiglia, ma anche milioni di italiani che
non aveva mai dimenticato. Anche dal suo esilio il suo cuore palpitava per
l’Italia. Da donna di carità si è sempre prodigata fino al’ultimo per il bene dei
poveri.
Il suo percorso umano era iniziato nel lontano
Montenegro, figlia del Re Nicola. Aveva lasciato il suo Paese per sposare il
futuro Re d’Italia. La sua morte fu sentita anche molto in Francia, dove aveva
vissuto gli ultimi anni, il periodo difficile della malattia. Anche in quel
caso aveva affrontato con coraggio la prova che Dio Le aveva dato. Non si era
piegata al male. Aveva tanto amato e frequentato un orfanatrofio di
Montpellier. Vi andava spesso, portando dei doni, e ogni bene alle persone
sfortunate che non avevano più i genitori. Questi bambini la chiamavano Mamma.
Da molti anni si parla di Lei, La si ricorda
nei giornali, e se ne ricavano tante testimonianze, che la dipingono come è
sempre stata: una Madre. Una madre che preferiva spendere il suo denaro nelle
opere di beneficenza, anziché nelle feste mondane. Una volta venni a sapere
che, dopo la sua morte, sulla sua tomba a portare un fiore e una preghiera,
vennero delle suore dall’Italia. La Regina meritava largamente questo amore, e
queste attenzioni. Da alcuni anni riposa in Italia, assieme al suo amato Re Vittorio
Emanuele III. Il suo caro figlio, Re Umberto II, avrebbe voluto che i suoi
genitori riposassero al Pantheon. Questo non è ancora accaduto, ma speriamo che
il Re d’Italia e la consorte possano venire traslati al Pantheon, come da molti
è auspicato.
In questo modo si capirebbe che finalmente si è
fatta pace con la storia. Da anni si sta attendendo che il Papa La elevi agli
onori degli altari, nessuno come Lei lo meriterebbe. Sarebbe per il mondo
cattolico una figura esemplare, il cui operato nelle opere solidali non verrà
mai dimenticato.
In un momento in cui vengono festeggiati i 50 anni dalla restaurazione della Monarchia, l’articolo del prof. Daniel Berzosa, professore di Diritto all’Istituto Europeo di Madrid, rafforza l'idea che la Corona abbia un ruolo da svolgere: essere ponte, canale di consenso e custode della libertà.
Il ruolo di un Re in una Monarchia Parlamentare: cosa può e cosa non può fare? In un mondo in cui i cambiamenti politici possono essere repentini, Sua Maestà, estraneo alle fluttuazioni elettorali, funge da punto di riferimento per la comunità. Cinquant'anni dopo la restaurazione della Monarchia in Spagna, è opportuno riflettere sull'utilità della Real Istituzione. La monarchia parlamentare istituita dalla Costituzione, incarnata dal 19 giugno 2014 da Sua Maestà Re Filippo VI e, dal 29 dicembre 1978 fino a tale data, da Re Juan Carlos I (che, tuttavia, era Re di Spagna dal 22 novembre 1975), è una componente chiave del sistema democratico spagnolo. Cos'è una monarchia parlamentare? Una monarchia parlamentare è il sistema politico della Spagna, un regime di libertà in cui il Re è il capo dello Stato. Grazie a questa disposizione costituzionale, la sua posizione primaria nella nazione non è meramente cerimoniale; egli è parte integrante dell'intera nazione, comprendendo ognuno di noi e tutte le strutture che la compongono. Il Re non è il capo del potere esecutivo né il Primo Ministro. Questa posizione è ricoperta dal Parlamento, dove il potere politico viene incanalato in prima istanza. In Spagna, il Parlamento è noto come Cortes Generales e comprende il Congresso dei Deputati e il Senato, sebbene solo il Congresso sia responsabile di questa elezione. Nelle monarchie assolute, il monarca era la fonte di tutto il potere politico. Nelle monarchie costituzionali, il monarca deteneva il potere che il Parlamento non possedeva. In una monarchia parlamentare, il Re è un pilastro di integrazione e stabilità che contribuisce e incarna la democrazia. Le funzioni del Re: cosa può fare? L'articolo 56 della Costituzione delinea le tre funzioni principali del Re. Le altre sono descritte dettagliatamente negli articoli 62 e 63 della Costituzione, sebbene alcune si trovino al di fuori del Titolo II, espressamente dedicato alla Corona. Il Re è simbolo dell'unità e della continuità storica della Spagna, che trascende i cambiamenti politici e sociali. Non essendo legato ad alcuna ideologia, il Re accoglie tutti i cittadini e promuove la coesione di un Paese pluralista.
[...]
articolo complerto
La lunga carriera politica di Giovanni Battista
Bertone...
“In
illo tempore”, un giorno di primavera del 1968, mentre l'Italia da
almeno un anno era alle prese con sessantottismo e tanti “politici” premevano
per un fumoso “cambio di passo”, una delegazione di democristiani cuneesi andò
a Mondovì per un riservatissimo “colloquio” con il senatore Giovanni Battista
Bertone, classe 1874. Avvocato e molto altro, il novantaquattrenne la accolse
con pacata giovialità. Appena si affacciarono mogi mogi, capito quel che
volevano dirgli, andò subito al dunque. Mostrò ancora una volta la sua tempra
mite e leonina. Sciorinò come niente aneddoti di venti, quaranta, cinquant'anni
addietro. Ricordò la sua prima campagna elettorale. Nel 1909, sessant'anni
prima, aveva guidato con successo un blocco clerico-intransigente nella lotta
per la conquista del comune di Mondovì. Vinse, ma l'esito fu annullato. Il
governo inviò un regio commissario per preparare la riscossa dei liberali. Nel
1911 Bertone prevalse nuovamente. Di lì a poco fu eletto nel consiglio
provinciale di Cuneo per il mandamento di Mondovì-Villanova-Frabosa. Da sette
anni i suoi sessanta componenti (aristocratici, parlamentari, scienziati,
artisti, notabili di ampia fama...) erano presieduti da Giovanni Giolitti
(1842-1928).
Nel
1913, egli narrò agli ospiti, le elezioni alla Camera nel collegio di Mondovì
furono al centro dell'attenzione nazionale perché il “patto Gentiloni” tra
Giolitti e i “cattolici moderati” doveva scongiurare la sua elezione. Vinsero i
moderati, capitanati da Vittorio Vinai, che sconfisse il giolittiano Vittorio
Giaccone. Il socialista Felice Momiliano si fermò a 609 voti contro i 5908 di
Vinai. Quel patto non funzionò nemmeno a Cuneo, dove Gentiloni in persona intervenne
per bloccare i cattolici intransigenti e spianare la strada all'elezione del
trentunenne Marcello Soleri, già sindaco di Cuneo, contro Tancredi Galimberti,
in rotta di collisione con Giolitti e nettamente sbaragliato.
Anche
all'epoca in provincia piccole ruggini diventano odi immarcescibili. Bertone
però sapeva guardare lontano. Il 1° settembre 1917 da Frabosa, ove estivava,
rinnovò a Giolitti il plauso per il coraggioso discorso tenuto a metà agosto al
consiglio provinciale di Cuneo: «Quando milioni di lavoratori delle città e
delle campagne, la parte più virile della nazione, torneranno affratellati per
anni dai comuni pericoli, ritorneranno alle loro umili case con la coscienza
dei loro diritti e reclameranno ordinamenti improntati a maggiore giustizia
sociale che la patria riconoscente non potrà loro negare.» Bertone aggiunse:
«Dietro a Vostra Eccellenza vada, silenziosa nel dolore ma ferma nelle sue
aspirazioni, la grande massa del popolo italiano.» Parlava la lingua dei
cattolici che verso fine Ottocento si erano organizzati nella prima “Democrazia
cristiana” ponendo la “questione sociale” in termini non troppo diversi
dall'Estrema sinistra (più equità: la “Rerum Novarum” di papa Leone XIII aveva
più di vent'anni), ma senza toccare quella istituzionale. Da politico già
sperimentato e avveduto, Bertone gli propose anche di varare un accordo tra “La
Stampa” del senatore giolittiano Alfredo Frassati e il foglio cattolico
torinese “Il Momento”: «Si avrebbero così due giornali a disposizione. E parmi
cosa importante», egli osservò.
Gli
premeva fermare i nazionalisti e i rivoluzionari dell'Estrema sinistra che a
metà agosto del 1917 avevano plaudito agli inviati dei soviet e incendiato
Torino. L'intransigentismo clericale apparteneva al passato remoto. Perciò
Bertone, laureato in legge nel 1896, nel gennaio 1919 fu tra i fondatori del
partito popolare italiano guidato da don Luigi Sturzo e ne promosse rapidamente
l'organizzazione capillare, utilizzando anche la rete degli ecclesiastici, preoccupati
da quanto avveniva in Russia e stava dilagando dall'Europa centrale alla Gran
Bretagna, preda di scioperi e dove i conservatori vittoriosi in guerra furono
sconfitti alle urne.
Il 16
novembre 1919 gli italiani vennero chiamati a rinnovare la Camera, sulla base
della legge del 15 agosto: suffragio universale maschile e riparto dei seggi in
proporzione ai voti ottenuti nei collegi, quasi ovunque identici al territorio
delle province. Nel ricordo del “gentilonismo”, su proposta del deputato
giolittiano Camillo Peano la legge adottò il “panachage” (“screziatura”): se in
una provincia, come quella di Cuneo, erano in palio dodici seggi e una lista
metteva in campo undici candidati l'elettore poteva aggiungere un dodicesimo
nome pescandolo tra i candidati di un'altra lista. Un cattolico poteva votare
anche un liberale e viceversa. In provincia di Cuneo il sistema funzionò. Ma a
vantaggio di Bertone i cui elettori non aggiunsero preferenze a favore di
Giolitti, mentre molti liberali votarono anche Bertone, che sommò più suffragi
dello Statista. Finì che i popolari ebbero quattro seggi, come i socialisti,
mentre i liberali ne ottennero appena tre (Giolitti, Soleri ed Egidio Fazio, di
Garessio). Uno andò all'indipendente Carlo Bianchi, di Bra, che si affrettò a
votare con il governo, presieduto dal democratico Francesco Saverio Nitti.
Giolitti masticò amaro ma, tornato presidente del Consiglio, volle
Bertone sottosegretario alle Finanze, a supporto del ministro Luigi Facta, da
trent'anni eletto a Pinerolo. Quando Facta divenne presidente del Consiglio lo
chiamò alla guida del ministero. Nella drammatica seduta del 28 ottobre 1922
Bertone fu tra quanti (Paolini Taddei, Giulio Alessio e Soleri) chiesero di
usare la maniera forte per fermare gli squadristi. Ci voleva poco. Il generale
Emanuele Pugliese, ebreo osservante, comandante della divisione militare di
Roma, pluridecorato, aveva predisposto tutto, come poi documentò in “Io difendo
l’Esercito”, pubblicato a Napoli nel maggio 1946: un libro che tanti “storici”
dovrebbero leggere prima di narrare fiabe su quei drammatici giorni.
Le
cose andarono come è noto: il re incaricò Mussolini, che formò il governo di
coalizione costituzionale comprendente i popolari, con due ministri e
sottosegretari, tra i quali Giovanni Gronchi all'Inustria. Bertone,
accantonato, fu nominato presidente dell'Istituto nazionale di credito per la
cooperazione. Rieletto nel 1924, aderì all'Aventino, ma quando ne constatò
l'inconcludenza, nell'Anno Santo 1925 rientrò alla Camera. Allo scioglimento
del partito popolare si dedicò alla professione forense. “Ars longa...”. La
vita anche, a volte. Per lui lo fu, come evocò alla delegazione in visita a
Mondovì quella primavera del Sessantotto.
Aveva
molto altro da raccontare, a cominciare dal suo rientro nell'agone politico nel
1945, l'elezione alla Costituente nel giugno 1946, la nomina a ministro del
Tesoro in successione nel governo De Gasperi al conterraneo Soleri, morto
prematuramente, il lancio del prestito per la ricostruzione, voluto da Luigi
Einaudi. Senatore di diritto nel 1948, ministro del Commercio Estero e poi
dell'Industria e Commercio, vicepresidente del Senato dal 1951 e presidente della
commissione Finanze e Tesoro nel 1948, Bertone promosse l'unione doganale
italo-francese: un progetto lungimirante che anticipò la linea comunitaria
europea degli anni seguenti. Ovviamente ricandidato e rieletto senatore con
cifra altissima di consensi, egli divenne uno dei profeti dell'Europa ventura.
Di elezione in elezione fu confermato senza rivali.
Ma,
appunto, si arrivò al 1968. Fatto capire agli interlocutori di essere ancora
lucidissimo e pronto a qualsiasi ulteriore prova, prese atto della necessità di
“cedere” il collegio, che anche a Roma consideravano “blindato” per qualunque
politico, anche se non monregalese o cuneese. Il candidato che gli venne
prospettato d'altronde, era degno di lui e della miglior tradizione nella quale
era vissuto e si riconosceva: il biellese Giuseppe Pella.
...e quella del “ragioniere” Giuseppe Pella.
Nato a
Valdengo il 18 aprile 1902 in un famiglia contadina, diplomato ragioniere al
“Sommeiller” di Torino (come Giuseppe Saragat), laureato nel 1924 in scienze
economiche e commerciali con un docente quale Luigi Einaudi, fiduciario di
imprese tessili del suo originario biellese e insegnante di tecnica commerciale
e ragioneria industriale negli istituti tecnici, nel 1935-1936 (gli anni della
guerra d'Etiopia e della proclamazione dell'Impero) Pella fu nominato vicepodestà
di Biella. Iscritto dal 1919 al partito popolare italiano, negli anni centrali
del regime si dedicò alla professione, allo studio e all'amministrazione
civica, che risolve i problemi dei cittadini, senza retorica magniloquente. Nel
1945 aderì alla democrazia cristiana e l'anno seguente venne eletto consigliere
comunale. Candidato quasi di straforo alla Costituente nel collegio
Torino-Novara-Vercelli, come documentano i suoi biografi Francesco Malgeri e
Franco Boiardi, fu eletto e subito
nominato sottosegretario alle Finanze, un ministero che nel disastrato
dopoguerra richiedeva preparazione, competenza e applicazione. Pochi comizi,
concentrazione sulla circolazione della moneta e sui cambi tra la lira, il
dollaro e la sterlina: fondamentali per l'import-export. Ministro dal 1947 nel
V governo De Gasperi, che segnò la rottura tra la democrazia cristiana e le
sinistre, dal 1948 al 1951 fu titolare del Tesoro con interim del Bilancio e
del Bilancio con interim del Tesoro.
Pressoché estraneo alle diverse correnti che (spesso per avidità di
potere più che per motivi ideologici) dividevano il partito e dedito a
governare la complessa macchina ministeriale, Pella venne apprezzato sia da De
Gasperi, Giuseppe Paratore, Ezio Vanoni, Giuseppe Saragat, socialdemocratico,
sia da quanti lo avevano conosciuto interlocutore efficiente nel decisivo
viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d'America. Presidente del governo di
quell'Italia in affanno (emerge bene dai verbali del Consiglio dei ministri
curati da Aldo G. Ricci, editi dal Poligrafico dello Stato), De Gasperi andò
oltre Atlantico con il cappotto prestatogli da Attilio Piccioni e le valige
omaggiate da Giuseppe Brusasca, mentre sua figlia Maria Romana fungeva da
interprete perché il padre parlava bene latino e tedesco ma non l'inglese,
lingua dei vincitori.
Al
governo, Pella perseguì la linea condivisa da Einaudi: non stampare altra
moneta, lasciare che il mercato si regolasse da sé esaurendo speculazioni e
inflazione, applicare rigorosamente il principio enunciato in Costituzione:
«Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi
tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve
indicare i mezzi per farvi fronte» (articolo 81: da rileggere attentamente in
questi giorni).
A
fianco di De Gasperi nel suo nono e ultimo governo, un monocolore democristiano
con l'appoggio esterno del partito nazionale monarchico, il 17 agosto 1953, con
sorpresa generale, Pella fu nominato presidente del Consiglio. Einaudi lo
scelse senza le consultazioni già allora di rito. Il Capo dello Stato decise ai
sensi del secondo comma dell'articolo 92 della Costituzione: «Il Presidente
della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta
di questo, i ministri.» Non era una novità nella storia d'Italia. Era già tutto
scritto nello Statuto Albertino del 1848 e nel regio decreto 14 novembre 1901.
I Costituenti lo ribadirono. Einaudi proseguì nel solco. Monarchico e liberale,
egli non era stato il primo candidato della Democrazia cristiana alla
presidenza della Repubblica dopo Enrico De Nicola. Volente o nolente De Gasperi
gli aveva inizialmente preferito il repubblicano veemente Carlo Sforza,
scartato dopo tre votazioni fallite. Fu il giovane Giulio Andreotti a informare
Sforza (notò che aveva già pronto sul tavolino il discorso di
insediamento) e subito dopo annunciò a
Einaudi che sarebbe stato il nuovo candidato della maggioranza di governo
uscita dalle urne il 18 aprile 1948. Einaudi gli fece notare che era
claudicante. Ma questo era l'ultimo dei problemi per uno Stato che doveva
risalire lentamente la china. Importante era vedere con chiarezza la meta e
“tenere la rotta”...
Nella
pienezza dei poteri costituzionali, da consegnare interi al successore quando
fosse arrivato il momento, Einaudi nominò dunque Pella, che si trovò a
presiedere un monocolore democristiano con l'astensione di liberali, monarchici
e repubblicani. Tenne per sé gli Esteri, che volevano dire lo Stato e,
indirettamente, le sue forze armate, e il Bilancio. Affidò a Fanfani l'Interno,
la Difesa a Paolo Emilio Taviani, al suo primo incarico in quel ministero
chiave, il Tesoro a Silvio Gava, le Finanze a Ezio Vanoni. Per molti i loro
nomi oggi sono persi nell'oblio che oscura i difficili anni della
Ricostruzione. Vanno invece ricordati perché quegli uomini furono artefici del
“miracolo economico” degli anni immediatamente seguenti.
La questione del confine italo-jugoslavo
Nel
settembre 1953 Pella affrontò la crisi più grave dell'Italia nel dopoguerra. Il
presidente della Jugoslavia, Josip Broz Tito, comunista spietato ma vezzeggiato
da occidentali (soprattutto gli inglesi) perché in tensione con Stalin, il
peggiore, accennò a manovre annessionistiche: intendeva occupare la “Zona B”,
amara “eredità” dei giochi militari-diplomatici dell'ultima fase della seconda
guerra mondiale, costata la rettifica della frontiera italo-jugoslava ai danni
dell'Italia e la prolungata contesa, chiusa solo nel 1975 con il Trattato di
Osimo, tardivo sotto tutti i punti di vista.
Nell'inerzia di chi avrebbe dovuto tutelare i diritti del Paese, che dal
1949 aveva aderito alla Nato, alleanza difensiva, Pella non esitò a decidere la
mobilitazione militare. Il mite economista mostrò un volto tanto inatteso
quanto necessario e decisivo. Venne osteggiato dalle sinistre e da parte della
stessa democrazia cristiana e tacciato di deriva nazionalistica, quasi che
l'Italia confinasse con pacifisti e non avesse al proprio interno fautori
dell'Unione sovietica e nostalgici dell'arrivo dell'Armata Rossa a sostegno
della mitica”rivoluzione” e del rifiuto oltranzista dell'“Occidente”. Lo
spostamento di alcune divisioni verso la frontiera non fu un azzardo: ebbe
vastissimo plauso dall'opinione pubblica degli italiani e risultò la premessa
per il sofferto definitivo ritorno integrale di Trieste all'Italia nell'anno
seguente.
Nato
come “di amministrazione”, il governo si trovò presto in bilico. I primi a non
sostenerlo furono appunto i democristiani che lo consideravano appena un
“amico”. Il 12 dicembre Pella venne implicitamente sfiduciato dal discorso di
Mario Scelba a Novara. Dopo altri contrasti, il 18 gennaio 1954 rassegnò
le dimissioni. Gli subentrò Amintore Fanfani che resse poche settimane e spianò
la strada al governo presieduto da Scelba che il 10 febbraio 1954 incluse
socialdemocratici e liberali, con Saragat vicepresidente. Scelba tenne
l'Interno e affidò le Finanze a Roberto Tremelloni.
Alcuni
ritennero che la carriera politica di Pella fosse drasticamente finita. Invece
egli tornò vicepresidente del Consiglio (con Adone Zoli), due volte ministro
degli Esteri (con Zoli e Antonio Segni) e Ministro del Bilancio nel III governo
Fanfani (il primo con astensione dei socialisti). Dopo che, nel 1968, gli fu
trovato un collegio “sicuro”, quello di Mondovì, a scapito del nonuagenario
Bertone, nel 1972 Pella venne chiamato alle Finanze da Giulio Andreotti. Poi
finì sempre più ai margini in Italia. Ma dal 1956 presiedette l'Assembla
generale della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e lavorò sempre più
alla costruzione dell'Europa ventura. Morì il 31 maggio 1981.
Le vite parallele di Bertone e Pella insegnano che occorre tempo per apprendere bene ed esercitare al meglio il mestiere della politica e del governo, senza limiti di durata del mandato. Lo decidono le capacità personali e il consenso degli elettori. Gli statisti più fattivi risultano anche i più longevi, meno sensibili alle sirene dell'ideologia e più attenti alla “ragioneria”, che deve fare i conti con la realtà interna planetaria.
di Aldo A. Mola
Nell'altorilievo in bronzo sovrastante lo scranno del presidente della Camera dei deputati a Monte Citorio lo scultore Davide Calandra pose al centro la Monarchia costituzionale, fiancheggiata dalla Diplomazia e dalla Forza, il cui impiego, insegnò Carl von Clausewitz, è la prosecuzione della guerra con altri strumenti. Nella Festa delle Forze Armate va ricordato chi comandò l'Esercito nella Grande Guerra.
Luigi
Cadorna, come suo padre Raffaele, suo zio Carlo e suo figlio Raffaele, fu
militare nutrito di pensiero politico e istituzionale, con una visione ampia
della storia dei popoli. Fu anche specchio dei nodi irrisolti dell'Italia nata
dalla preparazione risorgimentale ma infine sorta nel volgere di pochi mesi e,
di seguito, impegnata a consolidare i muri portanti a scapito dell’armonia tra
le sue componenti.
Il
Regno d'Italia che, mutata la forma istituzionale, continua nella Repubblica,
nacque nel marzo 1861 dal concorso della diplomazia e della spada sotto le
insegne dei sovrani sabaudi. Alla sua base ebbe lo Statuto, promulgato da re
Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo 1848, poco prima della guerra
contro l'impero d'Austria, ricordata come prima guerra per l'indipendenza e
l'unità nazionale. Quel cammino fu continuato e coronato da suo figlio,
Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia, e, dopo gli anni di Umberto I
(1878-1900), da Vittorio Emanuele III, durante il cui regno lo Stato raggiunse
il massimo di espansione territoriale con il confine al Brennero e al Quarnaro
e con l'annessione di Fiume.
Le
premesse del percorso che condusse alla proclamazione del Regno furono il regio
editto del 27 novembre 1847, che rese elettivi i componenti dei consigli
comunali, provinciali e divisionali, e lo Statuto che trasformò la monarchia
amministrativa in “rappresentativa” e istituì il Senato di nomina regia e
vitalizia e la Camera dei deputati elettiva. Quelle riforme generarono
l'avvento di una vastissima e partecipe classe dirigente, politica e
amministrativa. I “mandamenti” per l'elezione dei consiglieri provinciali e i
collegi uninominali per quella dei deputati propiziarono la scelta di candidati
di pregio, fermo restando che i parlamentari non rappresentavano i votanti ma
“la Nazione in generale” e che “nessun mandato imperativo poteva loro darsi
dagli elettori”: un cardine ribadito dall'art. 67 della Costituzione, che
recita: “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita e sue
funzioni senza vincolo di mandato”.
Lo
Statuto precisò altresì che il Capo dello Stato “comanda tutte le forze di
terra e di mare”, come fu poi confermato anche dalla Carta repubblicana. Esso
non fu altrettanto chiaro laddove enunciò che il re “dichiara la guerra, fa i
trattati di pace, di alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle
Camere tosto che l'interesse e la sicurezza dello Stato il permettano...”. Lo
Satuto non rilevò la differenza tra deliberare, dichiarare e proclamare la
guerra: tre “momenti” separati per la diversità dei suoi “attori”. Lo percepì
subito il quarantenne conte Camillo Benso di Cavour. A sostegno del governo
nell'intervento in guerra contro l'Impero russo a fianco di Gran Bretagna,
Francia e impero turco egli volle non solo la sanzione del Re ma anche il voto
delle Camere.
Lo
Statuto tacque su corpo diplomatico e assetto delle forze armate, evocati solo
nell'elenco delle categorie dalle quali il sovrano traeva i membri del Senato:
i “ministri di Stato” (altra cosa dai “ministri Segretari di Stato”), gli
ambasciatori e gli ufficiali generali di terra e di mare dopo almeno cinque
anni di nomina nel grado. Tacque altresì sul comando dell'Armata sarda. Il nodo
Re-ministro della guerra-comandante dell'Armata era e rimase ingarbugliato perché
per Statuto il potere esecutivo apparteneva “al re solo”. Però il sovrano non
era “responsabile”; lo erano i ministri. Le leggi e gli atti del governo,
sanzionati dal sovrano, non avevano vigore se non muniti dalla firma di un
ministro. Il nodo (o “equivoco” come scrisse Piero Pieri nella “Storia militare
del Risorgimento”) del comando in guerra venne temporaneamente risolto il 7
febbraio 1849 con la nomina del generale polacco Wojchiech Chrzanowski al
comando dell'Armata “sotto la sua responsabilità, in nome del Re”, come
“general maggiore dell'Esercito”, “con “comando effettivo”, però affiancato da
Alfonso La Marmora, ministro della Guerra dal 2 febbraio. L'ambiguità si
ripresentò nel 1859, allorché il regno di Sardegna, aggredito dall'Austria,
entrò in guerra, forte dell'alleanza con Napoleone III, e nel 1866, quando i
generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini, comandanti delle due armate
schierate contro l'impero d'Austria, operarono senza l'indispensabile
coordinamento.
Come
ha evidenziato il generale Oreste Bovio nella “Storia dell'Esercito italiano”,
la legge 29 giugno 1882, n. 831 istituì il Capo di stato maggiore
dell'esercito. Le sue attribuzioni furono stabilite col regio decreto del 29
luglio seguente. Ne furono titolari Enrico Cosenz (1882-1893), Domenico
Primerano (sino al 1896, dopo Adua), entrambi già allievi della borbonica
Scuola Militare Nunziatella di Napoli, e il torinese Tancredi Saletta. Quando
questi fu collocato a riposo per limiti di età, il 27 giugno 1908, il generale
più anziano e quindi vocato alla successione (“l'anzianità fa grado”, recitava
un efficace brocardo) era il cinquantottenne Luigi Cadorna (Pallanza, 4
settembre 1850-Bordighera, 21 dicembre 1928), maggior generale dal 10 agosto
1898, tenente generale dal 10 gennaio 1905 e al comando della Divisione
militare di Napoli dal 28 marzo 1907. Come egli stesso scrisse in “Pagine
polemiche” e ribadisce lo storico Perluigi Romeo di Colloredo Valls
(2021), con procedura inconsueta la “successione” fu subordinata ad
“accertamento”. Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 aveva stabilito che
tra le questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione da sottoporsi al
Consiglio dei ministri vi fossero «le nomine e destinazioni dei comandanti di corpi
di armata e di divisioni militari; le nomine del capo di stato maggiore
dell'esercito e del primo aiutante di campo di S.M. il Re, del presidente del
tribunale supremo di guerra e marina, del comandante generale dell'arma dei
reali carabinieri; le nomine di comandanti in capo di forze navali e dei
comandanti di divisioni all'estero; le nomine e destinazioni dei comandanti in
capo dei dipartimenti marittimi».
In
vista della sostituzione di Saletta, da tempo malato, l'8 marzo 1908 il
generale Ugo Brusati, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, chiese a
Cadorna di dichiarargli “schiettamente” se davvero subordinasse la nomina a
capo di stato maggiore all'ampliamento per legge dei suoi poteri soprattutto in
vista della guerra che ormai aleggiava in Europa. La risposta fu netta: «S(ua)
M(aestà) che dallo Statuto è creato Comandante Supremo, è pur dallo stesso
dichiarato irresponsabile. Ma il comando non può neppure esistere senza un
responsabile il quale perciò non può essere che il capo di S(tato) M(aggiore).
Ma la responsabilità ha per necessario correlativo: 1. La libertà d'azione
nella condotta delle operazioni; 2. La libertà d'azione nella preparazione
della guerra in ciò che ha rapporti colle operazioni; 3. La esclusione dagli
alti comandi di coloro che non ispirano la necessaria fiducia.» Cadorna, pur
non intendendo mettere in discussione le prerogative statutarie del sovrano,
osservò che il decreto legge 4 marzo 1906 aveva definito i poteri del capo di
stato maggiore in tempo di pace ma non in guerra. «A deliberare – concluse –
dev'essere uno solo: il responsabile.»
Perciò
il 1° luglio 1908 capo di stato maggiore venne nominato Alberto Pollio, nativo
di Caserta, di due anni più giovane di Cadorna. Imperando Giolitti, che impose
a Vittorio Emanuele III l'immediato collocamento a riposo di Vittorio Asinari
di Bernezzo per alcune sue parole di sapore irredentistico, Cadorna ritenne
ormai improbabile l'ascesa al vertice dell'esercito. La sua esclusione da
comandi operativi negli anni seguenti ne suscitò reazioni sdegnate. Il 23 agosto
1912, a proposito della ventilata nomina del generale Ragni a governatore
civile e militare della Libia, scrisse al figlio Raffaele: «Nominare un altro
senza neppure dirmi crepa sarebbe un vero schiaffo datomi in piena guancia».
Avrebbe risposto con la richiesta “ipso facto” del collocamento a riposo.
Nella Grande Guerra
La
notte del 1° luglio 1914, quattro giorni dopo l'assassinio dell'arciduca
Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo per mano di un terrorista serbo
eterodiretto, Pollio morì improvvisamente a Torino. Su cause e circostanze del
suo decesso furono ricamate insinuazioni e leggende. Dal 20 marzo 1910 Cadorna
era comandante della IV divisione militare (Genova-Piacenza). Ormai prossimo al
congedo per motivi di età, progettava di prendere casa in Liguria. Ma il 10 luglio
fu nominato capo di stato maggiore. Presidente del Consiglio da quattro mesi
era Antonio Salandra, in successione a Giolitti; ministro degli Esteri era il
catanese Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano: il “politico”
italiano più stimato da Vittorio Emanuele III. Nel volgere di poche settimane
esplose la Conflagrazione europea: sequenza di mobilitazioni, ultimatum,
dichiarazioni di guerra. Appena insediato, sulla scia del predecessore, Cadorna
approntò il piano di intervento a fianco di Vienna e Berlino, cui Roma era
legata dal trattato difensivo del 20 maggio 1882. Prospettò l'invio massiccio
di corpi d'armata sul Reno a fianco della Germania per chiudere rapidamente la
partita contro la Francia, inattaccabile dalle Alpi. Quel progetto, pubblicato
da Cadorna nel 1925, rimase “agli atti”.
Mese
dopo mese divenne chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo e che per
l'Italia, vulnerabile su tutti i confini terrestri e marittimi e dipendente
dall'estero per il proprio sistema produttivo e alimentare, sarebbe stato
impossibile rimanerne fuori. Di lì la preparazione e, di seguito, la
“mobilitazione occulta” orchestrata da Cadorna per portare lo strumento
militare al livello necessario.
Senza
informarlo, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, Sidney
Sonnino, dopo lunga segreta trattativa fecero sottoscrivere dall'ambasciatore
d'Italia a Londra Guglielmo Imperiali l'“arrangement” del 26 aprile 1915. Solo
il 6 maggio Cadorna fu sbrigativamente informato che l'Italia doveva
intervenire entro due settimane. Ministro della guerra era il maggior generale
Vittorio Zupelli. Il suo predecessore, Domenico Grandi, il 23 settembre 1914
aveva comunicato al governo le condizioni dell'esercito in vista di una
mobilitazione generale concludendo che non si trovava nel complesso nelle
condizioni desiderabili «per affrontare senza preoccupazione una campagna di
guerra». L'esercito avrebbe fatto «come sempre, il proprio dovere« tanto più se
si fosse sentito «sospinto e accompagnato dal consenso del Paese» il cui
miglior giudice però era il governo. Il governo rispose sostituendolo.
Salandra e Sonnino compirono errori sconcertanti. Nel loro carteggio
ammisero di essere andati oltre il consenso esplicito del re, del governo e
senza maggioranza in parlamento. Impegnarono l'Italia a entrare in guerra entro
30 giorni dalla firma contro «tutte le potenze» dell'Intesa. A differenza di
quanto aveva progettato San Giuliano, fautore di una Quadruplice Intesa,
l'“accordo” (non vero e proprio Trattato) comportò l' “adesione” alla Triplice
Intesa, non l'inclusione “alla pari”. Perciò l'Italia fu tenuta all'oscuro
degli impegni assunti dalla Triplice Intesa al proprio interno. Il peso della
guerra venne scaricato sul capo di stato maggiore, non consultato neppure sui
“compensi” chiesti da Salandra e Sonnino, quasi la difesa dei futuri confini dell'Italia
fosse una variabile della “politica” anziché vincolante sotto il profilo
militare per un Paese dal dominio coloniale vasto, costoso e impegnativo
(Eritrea, Somalia e Libia).
Il
precario equilibrio del governo Salandra-Sonnino fu sull'orlo di precipitare
quando il 13 maggio 1915 il consiglio dei ministri verbalizzò: «Considerando
che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il
concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla
gravità della situazione, delibera di presentare a S.M. il Re le proprie
dimissioni». A mobilitazione ormai avviata, Giolitti, secondo il quale l'
“accordo di Londra” non vincolava lo Stato ma solo il governo, declinò l'invito
a formare un nuovo esecutivo. Nessun altro se ne fece carico. Al Re non rimase
che inviare alle Camere il governo in carica. Il 17 maggio il consiglio dei
ministri approvò «il disegno di legge da presentare alla Camera per delegazione
di poteri legislativi in caso di guerra e per l'esercizio provvisorio». Benché
in larghissima maggioranza contraria all'intervento, il 20 maggio la Camera
approvò la proposta con l'opposizione dei soli socialisti. L'indomani
altrettanto fece il Senato, pressoché unanime.
All'opposto di Giolitti, che prevedeva una guerra di molti anni,
Salandra lasciava intendere, e forse ne era persino convinto, che il conflitto
sarebbe terminato entro l'autunno. Dal canto suo, perfettamente a giorno sulle
condizioni effettive dello strumento militare, logorato dall'impresa di Libia e
da decenni di investimenti inadeguati, come poi scrisse nelle “Memorie” Cadorna
riteneva che l'Italia non potesse affrontare una guerra “grossa” (cioè con
largo impiego di uomini e armi) e “lunga”. Come documentato nell'“Inchiesta
sugli avvenimenti dall'Isonzo al Piave: 24 ottobre-9 novembre1917”, l'Italia
disponeva di una mitragliatrice per ogni chilometro di fronte. Pressoché
inesistente erano l'artiglieria pesante e l'aviazione. Si producevano 2500 fucili
al mese, a fronte di almeno un milione di uomini da mettere subito in campo.
Occorrevano ufficiali e sottufficiali adeguatamente preparati.
Eletta
per la prima volta a suffragio maschile quasi universale nell'ottobre 1913, la
Camera che nel maggio 1915 si era sentita ricattata da Salandra rimase in
agguato. Contro l'opinione (corrente non solo all'epoca) secondo la quale il
Parlamento “non fa crisi” mentre lo Stato è in guerra, nel giugno 1916, dopo la
spedizione austro-ungarica di primavera, la Camera sfiduciò Salandra. Il nuovo
esecutivo, presieduto dall'anziano Paolo Boselli, con sette ministri senza
portafoglio e molti esponenti tiepidi nei confronti dell'intervento, ebbe
all'Interno il siciliano Vittorio Emanuele Orlando che doveva garantire il
sostegno del Mezzogiorno senza “provocare” le opposizioni, in specie i
socialisti. La “politica” risultò sempre più divaricata rispetto alle esigenze
vitali dell'esercito illustrate da Cadorna a Boselli in quattro lettere del 6,
8 e 13 giugno e del 18 agosto 1917 mentre da mesi in Russia, dopo il
rovesciamento dello zar, imperversava la rivoluzione. Con grado invariato,
anche se correntemente detto “Comandante Supremo” e “Generalissimo”, Cadorna
chiese ripetutamente quali misure il governo intendesse adottare per combattere
«i nemici interni, altrettanto se non più temibili di quelli che abbiamo di
fronte» (8 giugno) e così prevenire «il crescente spirito di rivolta tra le
truppe» (13 giugno) anche a cospetto di gravi reati militari, compreso il
passaggio al nemico (18 agosto). Cosciente dei rischi cui erano esposti il
Paese e la Monarchia mentre dilagavano renitenza alla leva e diserzioni, a cominciare
dalla Sicilia, Cadorna non esitò a deplorare: «il governo sta facendo una
politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell'Esercito,
contro la quale è mio stretto dovere protestare con tutte le forze dell’animo.»
Boselli (che aveva “paura fisica” di Cadorna) non rispose.
Orlando attese il suo momento. Questo venne con l'offensiva
austro-germanica del 24 ottobre1917. Il fronte venne arretrato secondo il piano
predisposto da Cadorna anni prima e si attestò sulla linea dalla destra del
Piave al Grappa, debitamente fortificato. Cadorna ribaltò la sconfitta (non una
“disfatta”) in battaglia d'arresto. Va ricordato che due mesi prima, a cospetto
della decisione di Cadorna di passare dallo schieramento offensivo al
difensivo, inglesi e francesi ritirarono i cannoni avaramente “prestati”
all'Italia.
Lo
stesso 24 ottobre, ancora ignara di quanto stava avvenendo al fronte, la Camera
sfiduciò il governo Boselli. All'emergenza militare si aggiunse quella
politica. Mentre Cadorna orchestrava l'arretramento, Orlando, in un colloquio
con il Re, subordinò l'accettazione dell'incarico di formare il governo alla
sostituzione del Comandante Supremo. Al suo posto fu dunque nominato Armando
Diaz, che, a parte aspetti estrinseci, operò nel solco del predecessore,
compresa l'applicazione del codice penale militare, consolidò l'Esercito grazie
allo sforzo del sistema produttivo interno, sorretto dal lancio di nuovi
prestiti nazionali e dall'assicurazione sulla vita dei combattenti per
intervento dell'INA, ideata dal massone Alberto Beneduce, e respinse le
ingerenze del governo sul punto essenziale: il suo comando, la decisione di se
e quando muovere in battaglia. Quando Orlando insisté per un'offensiva
accampando che era meglio una nuova Caporetto che la stasi Diaz non rispose,
consapevole che una seconda sconfitta sarebbe stata catastrofica.
Per
alto senso del dovere verso la Patria Cadorna accettò di guidare la delegazione
dell'Italia a Versailles, sede del comando interalleato. Era stato sempre il
più coerente fautore della conduzione unitaria della guerra europea e, uomo del
Risorgimento, contro i criteri di Sonnino (sino all'ultimo contrario alla
dissoluzione dell'impero austro-ungarico), aveva propugnato l'offensiva
dell'Italia su Lubiana e Zagabria per suscitare la rivolta dei “popoli senza
Stato” che divampò nell'Europa orientale nell'ottobre 1918 e determinò il
collasso degli Imperi centrali. A quel punto, però, Luigi Cadorna era già stato
richiamato in Italia “a disposizione” della Commissione d'Inchiesta sugli
avvenimenti del 1917.
Per
giudizio unanime dei più illustri generali e storici militari dei diversi Stati
in lotta, Luigi Cadorna fu il comandante più capace e lungimirante della Grande
Guerra.
DIDASCALIA: Luigi Cadorna Comandante Supremo.
Su Cadorna v. Pierluigi Romeo di Colloredo Valls, Luigi Cadorna. Una
biografia militare, 2021, con ampia bibliografia; Luigi
Cadorna-Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Luigi Cadorna,
Roma, BastogiLibri, 2020; Luigi Cadorna, La guerra alla fronte
italiana fino all'arresto sulla linea della
Piave e del Grappa, edizione anastatica, con introduzione
di Aldo A. Mola, Roma, BastogiLibri, 2019.
Grazie all’impegno dei combattenti della Resistenza e all’opera del Vescovo Rémond, Nizza e il suo territorio circostante divennero un rifugio sicuro per molti ebrei francesi, anche con l’assenso delle autorità militari italiane.
Chi era Mario Vercellino? Nato ad Asti nel 1879, ufficiale di carriera, combatté nella Prima guerra mondiale, distinguendosi per equilibrio, disciplina e senso di umanità. Durante la Seconda guerra mondiale comandò la 6ª Armata nella campagna di Francia del 1940 e la 9ª Armata in Albania tra il 1940 e il 1941. Nel novembre 1942 fu nominato comandante della 4ª Armata d’occupazione in Francia, con giurisdizione sulla zona sud-est e sulla Costa Azzurra, allora sotto controllo italiano.
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4) LA PRIMA GUERRA MONDIALE.
Alla triplice alleanza, che riuniva Italia, Austria e Germania, si era da tempo contrapposta un'altra formazione di potenze: la triplice intesa, stipulata fra Russia, Francia e Inghilterra; i governi austriaco e tedesco erano da tempo decisi a conquistare con le armi un'egemonia sullo schieramento rivale e soprattutto in Germania si era formata
Un'opinione generale
favorevole alla guerra, che confortava gli indirizzi politici dell'imperatore
Guglielmo II, l'occasione del conflitto fu offerta dall'attentato di Sarajevo,
dove l'Arciduca ereditario d'Austria, Francesco Ferdinando rimase vittima di
uno studente ebreo, Princip, il 28 giugno 1914.
L'Austria chiese soddisfazione
alla Serbia, dove l'attentato era stato preparato, con un ultimatum categorico
che significò la guerra; a suo fianco si schierò la Germania, mentre in aiuto
della Serbia scendevano in guerra Russia e Francia, ed in seguito all'invasione
tedesca del Belgio anche l'Inghilterra.
L'Italia dapprima rimase
neutrale, poichè il carattere difensivo della Triplice non le imponeva di
schierarsi a fianco dell'Austria e della Germania che erano le potenze
attaccanti, ma la sua neutralità fu contrastata da quelle correnti irredentiste
che volevano ad, ogni costo la guerra agli imperi centrali nella speranza di
conquistare Trento e Trieste. Favorevoli alla neutralità furono invece coloro
che, con a capo lo stesso Giolitti, pensavano fosse più conveniente una posizione
d'attesa che avrebbe permesso il conseguimento di maggiori vantaggi; tale
posizione era anche confortata dall'idea del pericolo che avrebbe potuto
rappresentare un tracollo degli Imperi centrali che costituivano un elemento
non secondario dell'equilibrio europeo.
I due partiti degli interventisti
e dei neutralisti si fronteggiarono a lungo ed i primi finirono col
prevalere; le proposte degli imperi centrali furono respinte mentre Giolitti,
che aveva ceduto il potere all'interventista Salandra, le giudicava
soddisfacenti: l'Austria si impegnava infatti a cedere, in cambio della
neutralità, le terre trentine di lingua italiana ed una certa autonomia a
Fiume. Non migliore fortuna ebbe il rappresentante tedesco, Principe di Bulow
che invano tentò di negoziare la neutralità italiana.
Il 24 maggio 1915 la guerra
era dichiarata all'Austria, dopo due mesi dalla firma del patto di Londra in
cui le potenze dell'Intesa promettevano all'Italia il Trentino fino alle Alpi,
la Venezia Giulia e parte della Dalmazia, comprese Zara, Sebenico e le isole.
La lotta cominciò crudele e violenta nei territori veneti di confine che furono
teatro di epiche azioni di guerra per tre anni.
Al ministero Salandra,
successe intanto un ministero d'unione nazionale presieduto dal più vecchio dei
deputati, Paolo Boselli il cui primo atto fu quello di dichiarare la guerra
anche all’impero germanico, impegnando l’Italia ancora più a fondo nell’avventura di cui pendevano incerte
le sorti
Il Re dall'inizio della guerra
aveva lasciato Roma, affidando la luogotenenza generale allo zio Tommaso d Duca
di Genova per partecipare fra i suoi soldati alla durissima lotta; per tutta la
durata della guerra egli non lasciò mai le trincee infaticabile animatore della
resistenza ed eroico combattente egli stesso, più di ogni altro convinto della
vittoria del trionfo delle anni italiane. (*)
Il terzo anno di guerra, il
1917, iniziò sotto auspici non lieti: le popolazioni, ormai stanche delle
atrocità belliche e dei gravi sacrifici imposti, desideravano ardentemente la
pace; il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe era morto il 21 novembre 1916
dopo un lunghissimo regno di quasi settant'anni lasciando il trono al nipote
Carlo II che non avrebbe mal visto un'azione tendente ad assicurare all'Austria,
una pace dignitosa; la Russia infine sconvolta dalla rivoluzione comunista che
deponeva e trucidava lo Czar Nicola II e la sua famiglia abbandonava la lotta
firmando con gli imperi centrali la pace di Brest Litowsk. La situazione morale
delle potenze dell'Intesa non era neppure rialzata dall'annunzio
dell'intervento degli Stati Uniti d'America al loro fianco.
Il 24 ottobre le truppe
austriache, disimpegnate dal fronte russo concentrarono le loro forze contro il
confine italiano, riuscendo a sfondare le linee a Caporetto e costringendo le
truppe italiane a ritirare la linea di difesa oltre il Piave. Il territorio
nazionale era in preda al nemico, solo Vittorio Emanuele avrebbe potuto
salvare la situazione e così fu: l'8 novembre nel famoso incontro di Peschiera
con i capi dei governi alleati, fu il Re a ricondurre la fiducia nel valore italiano
stabilendo al Piave la linea di difesa; il Primo ministro inglese, Lloyd George
che presenziò all'incontro, scrisse a proposito del Re: Rimasi impressionato
della grande forza d'animo che egli mostrò. In un momento in cui il suo paese e
la sua corona erano in gioco, non diede alcun segno di timore e di depressione.»
Il Capo di Stato maggiore
Generale Cadorna, fu sostituito da Armando Diaz e il presidente Boselli da
Vittorio Emanuele Orlando; seguendo l'esempio del Re, il paese stremato trovò
la forza di resistere per un anno ancora alle armi nemiche e nel 1918 le sorti
della guerra si rovesciarono.
Furono per prime la Bulgaria e
la Turchia, alleate degli imperi centrali a chiedere la pace separata, poi il
30 ottobre a Vittorio Veneto le truppe austriache furono battute ed il 2
novembre fra Italia e Austria veniva firmato l'armistizio di Villa Giusti;
pochi giorni dopo cessava anche la resistenza tedesca. Le potenze dell'Intesa
avevano vinto.
Così fini la prima guerra
mondiale che segnò anche la fine dell'Impero ,austro-ungarico
diviso nei due stati d'Austria e d'Ungheria con pochi milioni d'abitanti,
Privando l'Europa in un punto nevralgico di un prezioso elemento equilibratore;
la p ace con l'Austria fu firmata nel castello di S. Germano presso Parigi il
10 settembre 1919, quello con l'Ungheria,nel palazzo di Trianon, a Versailles,
4 giugno 1920.
L'Italia non fu però soddisfatta
perché parte dei territori di confine a cui essa aspirava, andò con la Serbia a
costituire il nuovo stato iugoslavo; i contrasti per la Dalmazia e per la città
di Fiume furono vivissimi, mentre il presidente americano Wilson prendeva le
parti iugoslave minacciando anche di disconoscere il patto di Londra a cui non
aveva partecipato. Vi fu un tentativo di risolvere la situazione con la forza,
da parte di Gabriele d'Annunzio che occupò con dei volontari, la città di Fiume
ma il governo italiano spaventato dalle gravi conseguenze che tale gesto
avrebbe potuto avere, sottoscrisse con la Jugoslavia il trattato di Rapallo (12
novembre 1920) col quale Fiume era riconosciuta come città indipendente.
In definitiva l'Italia ottenne
il Trentino e la Venezia Giulia, Zara e l'isola di Lagosta in Dalmazia, ed
infine le isole di Cherso e di Lussino quale completamento strategico
dell'Istria. La guerra mondiale era stata la quarta guerra d'indipendenza che
aveva portato i confini politici italiani, quasi a coincidere con quelli
naturali, completando l'opera intrapresa settant'anni prima da Carlo Alberto,
sotto il regno di Vittorio Emanuele III che era salutato con il nome di Re vittorioso.
I problemi europei non erano
però definitivamente risolti e la loro sistemazione alla pace di Versailles non
era stata soddisfacente per tutti; troppa severità era stata adoperata nei
confronti degli imperi vinti e troppe questioni accantonate coi compromessi,
che sarebbero poi tornate a turbare la pace del continente.
L'eroico comportamento di
Vittorio Emanuele III durante la guerra mondiale, fu da tutti, anche dai
repubblicani, riconosciuto e apprezzato. Infiniti sono gli aneddoti che
ricordano le giornate di guerra del Re soldato, e che hanno il valore di
testimonianza di uno stato d'animo della pubblica opinione, profondamente
sentito. Vittorio Emanuele III che fu grande Re in pace, lo fu ancor di più in
guerra meritando l'appellativo con il quale è passato alla Storia.
La figlia adottiva del Comandante racconta l’infanzia accanto
al grande armatore, tra ricordi familiari, crisi della Flotta e l’amore
intramontabile di Napoli
Di Francesco Di Bartolomei e Simone Ortolani
L’adozione e i primi ricordi della famiglia
Lei è stata adottata dal Comandante Achille Lauro e da sua
moglie Eliana Merolla quando aveva appena nove mesi. Ci può raccontare come
avvenne questa adozione?
Tanya: «Mio padre valutò sicuramente l’età, considerando anche il
fatto che avesse già figli da un precedente matrimonio. Tramite un’amica
thailandese, che conosceva i miei genitori naturali – entrambi thailandesi –
furono predisposti tutti i documenti per adottarmi».
Quali sono i suoi primi ricordi della famiglia Lauro e delle
case del Comandante?
Tanya: «Sono arrivata in Italia nel 1975, avevo solo nove mesi. I
primi ricordi risalgono a quando avevo un paio d’anni. Ricordo bene l’abitudine
di andare a prendere papà al lavoro tutte le sere, fino a quando ha continuato
a lavorare. Si cenava sempre tutti insieme, a casa di papà in via Crispi a
Napoli oppure da noi. Nei fine settimana eravamo sempre a Sorrento. Queste
erano le consuetudini della nostra famiglia».
Il padre attivo nonostante l’età e i regali di Natale
Che tipo di padre era il Comandante, considerando la sua età
avanzata?
Tanya: «Ho avuto probabilmente la fortuna di essere figlia in età
adulta. Quando fui adottata, papà aveva 88 anni. A differenza dei figli del
primo matrimonio, quando lui era era troppo impegnato a costruire la
Flotta, a fare il sindaco, il parlamentare o a gestire il Napoli Calcio, io ho
beneficiato molto delle sue attenzioni: giocava a palla, nuotava in piscina con
me, mi aiutava a fare i compiti. È stato un padre sorprendentemente attivo per
la sua età».
Ho letto che il Comandante la riempiva di regali, ma poi
voleva che li destinasse ai poveri per Natale. È vero?
Tanya: «Non so se arrivassero tutti da lui, ma sicuramente –
essendo la figlia più piccola – dagli impiegati della flotta e da persone a lui
vicine ricevevo molti doni. Ricordo una stanza piena di giocattoli. Papà e
mamma mi obbligavano a sceglierne due e il resto lo davamo alla chiesa per la
“Befana dei bambini”. Questa tradizione si svolgeva sempre nella chiesa di
Monticchio, dove ho fatto la prima Comunione, una chiesetta che papà aveva
contribuito a restaurare. Lì è custodita l’immagine della Madonna a cui era
molto devoto».
La famiglia Lauro e le reazioni al secondo matrimonio
Come reagirono gli altri membri della famiglia al matrimonio
di suo padre con sua madre?
Tanya: «I figli del primo matrimonio non erano favorevoli: un uomo
che sposa una donna di cinquant’anni più giovane e adotta una bambina…
comprensibilmente non fu una situazione facile, soprattutto per mia madre.
Credo che negli anni abbia fatto di tutto per essere accettata dal resto della
famiglia, dimostrando con atti concreti di non essere interessata ai beni di
papà, ma di amarlo in modo disinteressato e sincero. Finché papà fu in vita era
“la moglie del Comandante”, quindi intoccabile. Col tempo, si sono ricreduti e
le hanno voluto molto bene».
La crisi della flotta e la politica
Ha ricordi del commissariamento della Flotta e della
crisi finanziaria?
Tanya: «Ero molto piccola, avevo sei anni, ma ricordo che fu anche
l’inizio del declino della salute di papà: il commissariamento arrivò proprio
nell’ultimo anno della sua vita. Alla villa di Sorrento, dove passavo molto
tempo, ricordo tutti i mobili numerati, destinati all’asta. Questa immagine mi
è rimasta impressa».
In uno speciale di Mixer – La Storia siamo noi, il
commissario liquidatore della Flotta Simonetta Marsiglia ammise che
non vi fu la volontà delle banche di salvare le aziende del Comandante, al
sorgere delle prime difficoltà economiche: «Non si è capito se fu per un
fatto politico o per il timore di non potere più rientrare dei loro soldi».
Ercole Lauro, figlio primogenito, sostenne che una delle cause principali del
declino fu appunto la collocazione politica di suo padre, non allineato né con
la Dc né con il Pci. Lei cosa ne pensa?
Tanya: «Sì, credo sia vero. Anche mamma era convinta che, se papà
fosse stato allineato ai partiti dominanti, la Flotta non sarebbe stata
fatta fallire: il sistema politico ha infatti salvato aziende in condizioni
economiche peggiori.
C’era però anche un altro fattore: papà aveva una personalità molto forte ed
era un accentratore. Questa attitudine fu decisiva nella crescita
della Flotta, grazie alle sue idee, intuizioni e forza di volontà. Ma negli
ultimi anni, quando aveva più di 90 anni, divenne un limite: aveva poca fiducia
in chi lo circondava e credeva di poter ancora gestire tutto in un mondo ormai
cambiato. Eppure non era circondato da incapaci, ma i suoi collaboratori non
avevano l’autonomia necessaria per affrontare una situazione sempre più
complessa».
Relazioni con la Famiglia Reale e il Napoli Calcio
Lei ha ricordi dei rapporti tra il Comandante e Re Umberto II
o la famiglia Savoia?
Tanya: «Ero troppo piccola. Nel 2006, però, mamma incontrò
pubblicamente il Principe Sergio di Jugoslavia, nipote di Re Umberto II, che
era venuto a Sorrento a rendere omaggio alla tomba di papà».
La vicenda di Achille Lauro ha segnato la storia del Napoli
Calcio: durante la sua presidenza la squadra vinse la Coppa Italia. Celebre
l’acquisto del calciatore svedese Hasse Jeppson per la cifra record di
centocinque milioni di lire, che gli valse il soprannome ’o Banco ’e Napule.
Alla sua prima caduta in campo, un tifoso esclamò: «È caduto il Banco di
Napoli!». Il Napoli fu vicino alla vostra famiglia dopo la morte del
Comandante?
Tanya: «Direi proprio di no, nemmeno quando mamma era in vita. Ho
però un ricordo personale: la domenica papà ci portava a vedere il Sorrento
giocare».
Trasferimento a Roma e popolarità
Dopo la morte del Comandante vi siete trasferiti a Roma.
Perché?
Tanya: «Ci trasferimmo anni dopo la morte di papà, il 15 novembre
1982. Mamma non voleva più vivere a Napoli, per via dei ricordi. Roma era
abbastanza vicina a Napoli, dove vivevano i suoi fratelli e i miei cugini, ma
allo stesso tempo un luogo che le permetteva di staccarsi da un passato troppo
doloroso».
Che percezione ha della popolarità che suo padre continua ad
avere?
Tanya: «Da bambina ricordo quanto fosse amato dai napoletani e dai
sorrentini. Ho dei flash: quando tornavamo da Sorrento e passavamo per il
porto, c’era sempre qualche poliziotto che voleva scortarlo a casa, ma lui
diceva all’autista: “Seminalo”. Il giorno dei suoi funerali mi resi davvero
conto dell’affetto del popolo napoletano».
Ci racconti di quel giorno.
Tanya: «Ricordo una folla enorme. Arrivai in chiesa dopo mamma e le
guardie del corpo mi sollevarono sopra la gente, come ai concerti, per farmi
entrare. La folla mi toccava come fossi un ex voto: “La figlia del Comandante”.
Solo allora mi resi conto di quanto fosse amato».
Rivalutazione culturale e mediatica
Si assiste oggi a una rivalutazione della figura di Achille
Lauro.
Tanya: «È una figura che nell’immaginario collettivo resta
celebrata. Viene visto come un antesignano di Silvio Berlusconi: lo ha
preceduto nell’industria, nell’editoria, nella politica e nel calcio».
Prima di Berlusconi, Lauro fondò anche, con Andrea Torino,
una televisione, Canale 21…
Tanya: «Qualche anno fa una persona che stava lavorando sugli
archivi di Canale 21 mi inviò un video che mi riguardava: fu molto commovente».
Come giudica oggi la figura pubblica di suo padre?
Tanya: «Le polemiche politiche degli anni ’50 e ’60 hanno lasciato
il posto a una valutazione più obiettiva dei suoi meriti imprenditoriali.
Chiunque, in buona fede, non può che riconoscerli. È probabilmente la più
grande figura imprenditoriale del Sud Italia nel Novecento».
L’eredità e l’affetto dei napoletani
Il Comandante è stato una leggenda per i napoletani: dal
celebre «Viva Lauro!» pronunciato da Totò al Musichiere alla
canzone scritta da Mario Merola, Il Comandante. Cosa prova di
fronte a tanto affetto popolare?
Tanya: «L’amore di tante persone per papà mi riempie il cuore. È
bello che la sua memoria sia rimasta così viva tra i napoletani. Oggi, se
cerchi “Achille Lauro” su Google, esce prima il cantante e non il Comandante,
ma la gratitudine per lui è stata tramandata anche a generazioni che non
l’hanno conosciuto».
Questo affetto è ancora vivo oggi?
Tanya: «Sì. Lo noto anche nei piccoli episodi. Una decina d’anni fa
parcheggiai l’auto a Napoli e il parcheggiatore, mentre giocava a scopa,
buttando il re di denari disse: “Io mi gioco Achille Lauro”. Non sono banalità:
fanno capire quanto fosse ancora vivo il ricordo, nonostante fossero passati
tanti anni dalla sua morte. Anche al cimitero capita spesso che persone mi
chiedano: “Posso accendere una candela? Mio padre o mio nonno lavorava per il
Comandante, gli saremo sempre riconoscenti”».
Eppure Napoli non gli ha ancora dedicato una strada o una
piazza. Che ne pensa?
Tanya: «È una vergogna. Non lo dico da figlia, ma da cittadina: per
tutto ciò che ha creato per i napoletani non è giusto. È un dato di fatto che
strade e piazze vengano intitolate a persone con meriti molto inferiori ai
suoi».