di Aldo A. Mola
Il reciproco riconoscimento URSS - Regno
d'Italia
Tra la primavera del 1944 e il maggio del 1945
la storia d’Italia ebbe corsi diversi nel Sud e nel Nord, sino a rendere le due
parti del Paese reciprocamente irriconoscibili. I primi anni di vita dei
neonati e gli assilli delle loro famiglie variarono nettamente secondo i
diversi regimi di occupazione.
A
inizio aprile, appena giunto dall'Urss in Italia via Algeri, il segretario del
Partito comunista italiano PalmiroTogliatti (nome di battaglia “Ercoli”)
propose l'ingresso di tutti i partiti del Ccln in un nuovo governo per una
lotta comune (Istituzioni riconosciute dalle Nazioni Unite, partiti e
“partigiani”) contro i nazi-fascisti. Era la linea di Vittorio Emanuele III e
del governo Badoglio e la sconfessione di Bonomi, del Congresso di Bari, di
Sforza e di Croce.
Però
il Governo Badoglio dovette fare i conti con la Commissione Alleata di
Controllo (ACC), che tardava a restituirgli l'amministrazione delle regioni
liberate dall'occupazione germanica. Forte del ruolo di cobelligerante, mirò ad
agire in autonomia nell'ambito delle Nazioni Unite. Il 12 gennaio 1944 Andrej
Vyshinsky, rappresentante dell'Urss nel Comitato consultivo per l'Italia
comprendente gli anglo-americani, in un colloquio a Salerno con Renato Prunas,
segretario generale del ministero degli Esteri, gettò le basi del ripristino
dei rapporti tra Mosca e il regno d'Italia. Nel corso della conversazione
dichiarò di ritenere «che tutti i popoli siano almeno in parte responsabili dei
loro governi e che il popolo italiano paghi molto duramente gli errori e le
colpe del regime che si era per venti anni prescelto». Il “popolo” non è mai
“innocente”. Condivide le responsabilità della classe dirigente.
Badoglio viveva da mesi difficoltà lancinanti. La riorganizzazione
dell'esercito stentava a decollare. La resistenza armata nelle regioni occupate
dalla Repubblica sociale e dai tedeschi era appena albeggiante. Le “bande
partigiane” meno di 10.000 uomini. Le forze dell'ordine non riuscivano ad
arginare la condotta criminosa di militari anglo-americani ai danni della
popolazione: omicidi, ferimenti, stupri, abusi di vario genere, largamente ma
inutilmente documentati da carabinieri e non sempre denunciati dalle vittime
nel timore del peggio. Gli italiani avevano accolto gli Alleati come
liberatori. Ora imputavano al governo le soperchierie e le ripercussioni della
guerra nella vita quotidiana: inflazione galoppante, razionamento dei beni di
consumo, disoccupazione e criminalità dilagante.
Il 25
febbraio 1944 Badoglio espose la profonda delusione degli italiani in una
lettera al presidente degli USA e a Churchill. L'Italia rimaneva inchiodata
agli strumenti di resa che le erano stati dettati il 3 e il 29 settembre 1943.
Perciò il governo accolse con molto favore la proposta di scambiare
rappresentanti ufficiali, avanzata il 4 marzo dal sovietico Alexander
Bogomolov, subentrato a Vyshinsky nel Comitato consultivo. Quel passo avrebbe
consentito all’Italia di uscire dall'angolo nel quale gli Alleati la tenevano
relegata. Il 7 marzo Bogomolov aggiunse che Mosca chiedeva il consenso italiano
a organizzare una sua base aerea tra Bari e Brindisi, «di modeste dimensioni e
di poche unità e uomini», per agevolare le sue relazioni con i partigiani jugoslavi.
La proposta non ebbe seguito.
Il 13
marzo 1944 fu annunciato ufficialmente il reciproco riconoscimento tra Urss e
regno d'Italia. Una settimana dopo Prunas scrisse a Badoglio che toccava agli
anglo-americani andare oltre il «duro, illiberale, inintelligente terreno della
resa senza condizioni e del paralizzante e asfissiante controllo di ogni
attività del Paese», che si risolveva a tutto vantaggio della «concreta e
progressiva influenza sovietica».
Interprete dell'irritazione suscitata negli anglo-americani dall'intesa
italo-russa, il 25 marzo il vicepresidente della Commissione Alleata di
Controllo, l'inglese Noel Mason MacFarlane, ammonì Badoglio: l'Italia non era
abilitata a istituire rapporti con governi di altre potenze. Il maresciallo
osservò che quel vincolo valeva per l'avvenire, non per il passato; e quindi
non metteva in discussione l'accordo intervenuto con la Russia.
Lo ribadì in una lettera personale in cui
aggiunse che «tutte le dichiarazioni fatte dai Signori Churchill e Roosevelt
nei loro messaggi ed inviti al popolo italiano di marciare con gli amici
anglo-americani sono semplici parole che non hanno avuto riscontro nei fatti
successivi». Linguaggio di militare, rude e chiaro. A sua volta Prunas dichiarò
che «il tentato blocco della politica estera italiana […] è puro e semplice
arbitrio, e costituisce comunque un ulteriore aggravamento delle già durissime
e gravissime condizioni di armistizio». In conclusione, «le relazioni dirette
italo-russe resteranno, qualunque cosa pensino e facciano gli Alleati».
A
inizio aprile Palmiro Togliatti, rientrato in Italia, impose la svolta
politica: la questione istituzionale andava risolta alla fine della guerra. Ora
occorreva rinsaldare il governo e combattere i nazi-fascisti. Allo scopo
bisognava dar vita a un nuovo esecutivo. Il 22 aprile si insediò il secondo
governo Badoglio. I ministri giurarono sul proprio onore dinanzi al re. Il
partito d’azione, ostile verso la Corona, vi contò due ministri (Omodeo e
Tarchiani), a titolo personale. I socialisti rimasero contrari al nuovo corso.
La reazione degli Alleati: isolare il Re
Gli anglo-americani non accettarono la prova di
indipendenza in politica estera data dal governo Badoglio. Puntarono diritti
contro il re. Il 16 marzo, poco dopo il riconoscimento Italia-Urss, il re
espose al governo il suo punto di vista. Precisò che alla liberazione di Roma
avrebbe conferito le prerogative di Capo dello Stato al figlio quale suo
Luogotenente, col mandato di costituire un governo più solido in vista delle
elezioni, da celebrare «a pace avvenuta». Lo stesso giorno il governo tenne una
rapida seduta. Nei seguenti crebbe l'animosità dei vertici italiani nei
confronti degli Alleati. Se ne fece interprete Prunas in un Appunto riservato a
Badoglio: «Non occorre veruna acutezza politica per constatare che la
popolarità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna è nell'Italia liberata in
progressivo e crescente ribasso. Anche perché è una occupazione pesante con
larghi margini di violenze e di arbitrio che superano certamente, e di molto,
il peso delle occupazioni militari in Paesi non ostili.» Rilevò anche che
MacFarlane si era pronunciato per la rapida abdicazione del sovrano, suscitando
l'irritazione di Churchill.
L'imboscata dei quattro anglo-americani
Il 9 aprile, Pasqua di Resurrezione, MacFarlane
fece pervenire a Puntoni la richiesta urgente di udienza alle 11 del giorno
seguente per lui e per i delegati civili statunitense e inglese, Robert Murphy
e Harold MacMillan, accompagnato da Noel Charles, destinato a subentrargli. I
quattro si presentarono alla residenza reale alle 11:30 del lunedì dell'Angelo
e, come riassunse Prunas, comunicarono al re che i loro governi «desideravano
consigliargli amichevolmente ma fermamente che il passaggio della Luogotenenza,
invece che a Roma avrebbe dovuto aver luogo subito». Attendevano una risposta
entro l'indomani. Fu una “imboscata”, secondo il giudizio lapidario riferito a
Puntoni dal re. Vittorio Emanuele III protestò che lo mettevano «con le spalle
al muro» e li congedò ruvidamente. Preoccupati, i quattro chiesero a Prunas un
colloquio nella loro residenza, a villa Cimbrone, alle 10:30 del 12. La
conversazione fu lunga, «spesso agitata e torbida». Rifiutato il testo proposto
dagli Alleati («retorico e bolso» a giudizio del sovrano) il re scrisse il
proclama comunicato da Radio Bari e da radio Napoli alle 13 del 12 aprile e
dato ai giornali. Nel pomeriggio, «triste, avvilito», Vittorio Emanuele III
confidò a Puntoni che il mestiere di re è difficile e pesante. “Brut fardèl” lo
aveva definito Vittorio Emanuele II parlando in punto di morte al principe
Umberto. Vittorio Emanuele III aggiunse che i Savoia non avevano avuto molta
fortuna. Suo bisnonno, Carlo Alberto, era morto in esilio. Suo padre, Umberto
I, era stato assassinato. Solo suo nonno, Vittorio Emanuele II, ne era «uscito
bene».
Il re
ribadì che avrebbe trasmesso al figlio tutti i poteri della Corona, nessuno
escluso, ma solo in Roma. A giudizio di Prunas, «il proposito di arginare
l'influenza sovietica nell'Italia liberata aveva certamente in gran parte
motivato l'iniziativa anglo-americana». Gli Alleati negavano all'Italia la
libertà di Stato indipendente e sovrano. Il 24 aprile Badoglio rivendicò
fermamente in consiglio dei ministri l'opera di ricostruzione attuata dal
governo. Successivamente accolse il suggerimento di dichiarare decaduto
l'armistizio sottoscritto dalla Francia il 24 giugno 1940 a Villa Incisa e
sconfessò le mire fasciste su Savoia, Corsica, Nizza e Tunisia. Mise anche la
sordina alle proteste contro la condanna delle nefandezze perpetrate dai
marocchini nell'avanzata verso Roma, «fatti che superano di gran lunga ogni
orrore commesso nel corso della guerra da qualunque belligerante, compresi, che
è tutto dire, i tedeschi» (Prunas a Badoglio, 26 maggio).
Il passaggio dei poteri
Alle 10 del 5 giugno il governo si riunì
d'urgenza per deliberare sulla richiesta del re di recarsi a Roma, finalmente
raggiunta dagli americani, per firmare il decreto di trasmissione dei poteri al
figlio, in linea con il proclama del 12 aprile. Vittorio Emanuele III era
disposto a recarsi nella capitale anche in aereo, all'aeroporto di via Salaria,
raggiungere Villa Savoia, sostarvi il tempo necessario per la firma e
ripartirne. In alternativa gli bastava atterrare a Roma, firmare il decreto e
decollare alla volta di Napoli. La discussione fu lunga e vivace. A favore
della richiesta del sovrano si schierarono Croce («opporsi al desiderio del re
avrebbe carattere ingiurioso») e i ministri militari. Contro si pronunciarono
Sforza e Alberto Tarchiani, esponente del partito d'azione. Quest’ultimo si
spinse oltre. Anche a nome del “correligionario” Adolfo Omodeo, dichiarò
di essere «disposto ad accettare un suo [del re] Luogotenente in ogni senso
degno dell'alta carica, purché non fossero né il principe Umberto», a suo
avviso colpevole di aver dichiarato in un’intervista che nessuno si era opposto
all'intervento in guerra, né il duca d’Aosta, Aimone di Savoia, «per evidenti
considerazioni di carattere internazionale». Togliatti, scaltro e abile
nell'incunearsi tra le divisioni degli altri partiti, ammonì che, con tanti
problemi urgenti, non era il caso di riaprire la questione istituzionale. La
pretesa di escludere Casa Savoia dalla Luogotenenza non ebbe seguito. Nella
sessione pomeridiana della riunione di governo Tarchiani propose al Consiglio
di dichiarare nell'occasione del passaggio dei poteri al Luogotenente la «non
responsabilità del popolo italiano nella guerra contro gli Alleati»: l’esatto
opposto di quanto Vyshnisky aveva pacatamente fatto rilevare a Prunas. La
proposta non fu accolta.
Infine
il governo fece sua la decisione degli anglo-americani: al re fu interdetto il
viaggio a Roma, in areo o con altro mezzo, per «motivi di sicurezza». Fu così
che la firma ebbe luogo a Ravello. Alle 15:30 del 5 giugno Badoglio accompagnò
MacFarlane, «in pantaloni corti e in maniche di camicia» (come annotò Puntoni),
all''Episcopio, la villa dei duchi di Sangro ove il re dimorava, per
estorcergli immediatamente il decreto istitutivo della Luogotenenza. Vittorio
Emanuele III li ricevette in presenza dell'aiutante di campo e sottoscrisse il
decreto: «Abbiamo ordinato e ordiniamo quanto segue: articolo unico. Il nostro
amatissimo figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, è nominato nostro
Luogotenente Generale. Sulla relazione dei ministri responsabili, egli
provvederà in nome nostro a tutti gli affari dell'amministrazione ed eserciterà
tutte le prerogative regie nessuna esclusa, firmando i reali decreti i quali
saranno controsegnati e vidimati nelle solite forme.» Dopo la firma Badoglio si
inchinò singhiozzando e baciò le mani del re. «Sua Maestà ha accolto il gesto
con molta freddezza e ha invitato il Maresciallo a uscire subito», annotò
Puntoni. Secondo Prunas, il re si limitò a dirgli ironicamente: «Maresciallo,
non si commuova». A MacFarlane, che gli dichiarò tutta la sua simpatia per la
monarchia, Vittorio Emanuele III rispose: «Ci debbo credere perché me lo dice
lei, ma quanto è stato fatto dimostrerebbe il contrario.»
Il Re
trasmise l'esercizio dei poteri in suo nome ma non abdicò alla Corona.
Ivanoe Bonomi: l'Esarchia al governo
dell'Italia
Gli
eventi successivi all'insediamento del Luogotenente “del Regno” (anziché “del
Re” come voluto dal decreto-legge firmato da Vittorio Emanuelle III) sono noti.
Badoglio rassegnò le dimissioni, convinto di formare il suo terzo governo.
Però, passato da Salerno a Roma, il maresciallo incappò nell'opposizione
tetragona dei partiti antimonarchici che indicarono Bonomi quale presidente del
Consiglio (denominazione sostitutiva del mussoliniano “capo del governo”). Mentre
questi si accingeva a formare il nuovo ministero, MacFarlane consegnò a lui e a
Badoglio una durissima dichiarazione: il governo dimissionario doveva rimanere
in carica in attesa che il nuovo ottenesse il benestare delle Nazioni Unite. Il
7 giugno il gradimento fu comunicato a Bonomi dal capitano di vascello Ellery
Stone (futuro contrammiraglio), che, per conto di MacFarlane, gli chiese di
dichiarare per scritto: «In nome del R.[egio] governo italiano accetto tutte le
obbligazioni verso gli Alleati assunte dai precedenti governi italiani dopo la
conclusione dell'armistizio italiano, comprese le lunghe clausole di
armistizio. Certifico che ciascun membro del Governo ha personalmente preso
conoscenza dei termini di tutte tali obbligazioni.» Bonomi dovette dichiarare
inoltre: «Il governo italiano si impegna a non riaprire, senza il consenso
preventivo dei Governi alleati, la questione istituzionale, fino a quando
l'Italia non sarà stata liberata e il popolo italiano non avrà la possibilità
di determinare esso stesso la forma di governo.» “In cauda venenum", Stone
precisò che il governo italiano si impegnava a «non ristabilire nuove relazioni
diplomatiche con altri Stati senza il preventivo accordo con i Governi
alleati».
Il
ripristino dei rapporti italo-russi, ultimo atto rilevante del regno di
Vittorio Emanuele III e segno di indipendenza dello Stato d'Italia, scottava
ancora. L'emarginazione del sovrano e l'apparente trionfo dei partiti
antimonarchici non avevano affatto liberato l'Italia dalle stringenti direttive
politiche e dalle interferenze militari degli Alleati, divisi tra loro nei loro
scopi ultimi ma concordi nell'imporsi al paese vinto.
Sino
alla nomina del figlio a Luogotenente generale, malgrado l'assillante assedio
mossogli da anglo-americani, notabili, partiti antimonarchici e Cln, Vittorio
Emanuele III conservò integre le prerogative della corona, rispondenti alla
missione metastorica o “divina” della monarchia, come egli dichiarò alla
principessa di Piemonte, Maria José, che ne rimase sorpresa. Veduto il ruolo da
lui svolto dal 25 luglio 1943 al 5 giugno 1944 appare riduttivo il giudizio espresso
da Renzo De Felice: «Ciò che caratterizzava la personalità di Vittorio Emanuele
era un misto di profondo scetticismo e di estremo realismo, che non di rado
sfociava nel cinismo e che contribuivano a fare di lui un uomo per un verso
estremamente lucido e freddo, per un altro verso solitario e diffidente, che
disprezzava sostanzialmente tutti e viveva la sua funzione come un dovere da
compiere secondo regole rigide, da lui ridotte all'osso del formalismo più
arido e assoluto, sentendone per altro la sostanziale inutilità.» Del tutto
diverso fu il ritratto lasciatone da chi ebbe modo di conoscerlo da vicino.
Fu il
caso dei suoi primi aiutanti di campo. Il generale Ugo Brusati disse ad Angelo
Gatti che Vittorio Emanuele III era «sopra ogni altra cosa costituzionale, […]
re di tutti gli italiani, non di un solo partito. Oltre a larghissima
intelligenza politica, fondata su conoscenza profondissima della storia
d'Italia e degli altri paesi, e militare aveva sopra tutto la conoscenza
profonda degli uomini che gli stavano dattorno […] Di tutti sapeva vita e
miracoli e li vedeva negli atteggiamenti ogni volta mutatisi; ma tutti
accettava, fingendo di dimenticare il passato, quando però sentiva che la voce
della ragione glielo imponesse». Il suo «accorgimento di misurare le parole»
era «scambiato con mancanza di sicurezza».
Anche
più perspicuo è quanto al medesimo confidò il generale Arturo Cittadini
(successivo primo aiutante di campo): «Come prima regola il re si impose di
essere al di sopra di tutti i partiti. Egli è il re di tutti gli italiani, non
di questi o di quelli. […] Il re è proprio il tipo di cittadino borghese
democratico e libero pensatore. Egli intimamente non crede alla vita futura, né
alla ricompensa del Signore. Crede invece, per la sua natura e per ciò che ha
letto e pensato, agli obblighi del dovere e all'immortalità del nome. Ha
sostituito questa immortalità a quella dell'anima: e spesso, parlando cogli
intimi, dice che bisogna fare bene non soltanto per dovere, ma per lasciare ai
figli e ai posteri un nome onorato, che è tutto ciò che di noi rimane in
terra.»
Figlio
e nipote di re scomunicati dai papi, Vittorio Emanuele III venne “isolato” da
partiti che si proclamavano progressisti e propugnavano la cosiddetta laicità
dello Stato. Però poi essi non impedirono che la Costituzione della Repubblica
iscrivesse nei suoi principi fondamentali i Patti Lateranensi
Mussolini-Gasparri dell'11 febbraio 1929, guardati con distacco dagli inglesi,
anglicani, dagli statunitensi, ripartiti in un caleidoscopio di denominazioni
evangeliche e riformate, e dall'Unione sovietica, dichiaratamente atea.
Con
l'eclissi della monarchia rappresentativa, tanta parte del Risorgimento di
Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini venne consegnata al passato
remoto e avviata all'oblio.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA : Palmiro Togliatti (Genova,
1893-Yalta, 1964) nome di battaglia “Ercoli”, segretario del partito comunista
italiano, uomo di fiducia di Stalin, al rientro in Italia impresse la “svolta
partecipazionistica”. In “Elogio della storia” (ed. Oaks) Aldo G. Ricci ricorda
la sua linea durissima a proposito del trattamento degli italiani prigionieri
di guerra in Urss: da “rieducare”. Nondimeno fu protagonista nel passaggio alla
democrazia parlamentare in Italia: un regime diverso da quello stalinista.