NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 17 marzo 2024

18 marzo 2024





di Emilio del Bel Belluz

In questo periodo mi capita spesso di pensare a quelle persone che avrei voluto conoscere nella mia vita e che per vari motivi non ho potuto farlo. Un mio sogno era quello di poter andare a Cascais a trovare Re Umberto II, Re d’Italia Questo mio desiderio rimase sempre nel cassetto come quegli amori impossibili che non si possono realizzare perché, non avevo i mezzi per andare a trovarlo, il denaro non mi scorreva tra le mani con molta facilità. La figura del Re Umberto II mi era entrata nel cuore nel momento in cui venni a sapere a scuola cosa fosse l’esilio. Quante volte mi ero rivolto alla maestra delle elementari che si spiegasse cosa fosse questo termine che non apparteneva al vocabolario di un giovane di 10 anni. Questa parola mi faceva soffrire solo a pronunciarla, era una parola intrisa d’ingiustizia. La mia maestra aveva capito una cosa molto importante, cioè che ero una persona che non tollerava nessun torto. La maestra mi aveva spiegato che il Re Umberto II aveva scelto di andare in esilio per rinunciare ad una guerra civile che ci sarebbe di sicuro stata. Il Re che aveva un cuore generoso non aveva permesso che questo si verificasse.  L’insegnante era rimasta colpita dal susseguirsi di domande che gli avevo rivolto, e mi aveva donato un vecchio libro che parlava della monarchia e che mostrava il Re d’Italia in una foto assieme alla sua famiglia. Rimasi colpito nel vedere il volto sorridente del Re e della diletta moglie assieme ai figli; la foto li ritraeva vicino alla loro abitazione. Per quella famiglia così bella non c’era più posto in Italia. La maestra, che a mio giudizio aveva una certa simpatia per Casa Savoia, mi aveva fatto ritagliare quella foto perché la mettessi nel mio quaderno di storia. Avevo frequentato la quinta elementare a Villanova di Motta dove la mia famiglia possedeva una vecchia osteria e un negozio di alimentari. Allora la vita era molto diversa da quella di adesso. Il mondo sembrava più normale e si viveva cullati dalle piccole cose, che per me erano rappresentate anche dai libri di storia. Sono stato anche elogiato davanti ai miei compagni di classe per la mia passione per la storia. L’insegnante mi consigliò di fare una vera e propria ricerca su Casa Savoia, prendendo come fonte coloro che avevano avuto modo di conoscere qualche rappresentante di questa dinastia. Allora decisi di rivolgere delle domande ad uno zio, che era fratello di mio nonno, e che viveva con noi. Il suo nome era Gaetano e aveva combattuto durante la Grande Guerra. Era un bersagliere, ed era stato nello stesso battaglione di Mussolini, Nella sua stanza aveva una foto con il cappello con le piume di cui andava fiero. Nella stessa foto c’era sua moglie Rosa che lo aveva lasciato molti anni prima. Quella foto la posseggo ancora adesso. Il vecchio Gaetano disse che in guerra aveva avuto modo di vedere in più occasioni il Re Vittorio Emanuele III, e il figlio, l’allora principe Umberto che ispezionavano le trincee, intrattenendosi a parlare con i soldati. Non avevano timore di mostrarsi in prima linea, pur di confortare e sollevare l’umore dei fanti. Lo stesso giorno mi mostrò una medaglia che si era guadagnato in guerra per un’azione pericolosa che gli era stata affidata. Lo zio Gaetano aveva sofferto per la morte in esilio del Re soldato e di sua moglie, la Regina Elena, una donna che aveva aiutato i poveri, e che si era sempre prodigata per gli ultimi. Il vecchio zio, all’epoca dei suoi racconti, aveva quasi novant’ anni. Passava le sue giornate a fumare il sigaro e a guardare la televisione. Di Re Umberto II disse che era stato una persona saggia, che aveva un cuore d’oro e, sicuramente, sarebbe stato un buon Re. Il vecchio Gaetano aveva pure amato la figura di Giovannino Guareschi che aveva scritto dei libri e che si era sempre dichiarato fedele verso la monarchia, denunciando i brogli che vi erano stati durante il referendum. Mi parlò di un film dove una vecchia maestra rimproverava il sindaco del paese e i rossi di aver mandato via il Re e la sua famiglia in un’isola. Quella vecchia maestra che morendo aveva chiesto che sulla sua bara fosse posta la bandiera del Re. Quel film lo aveva molto commosso, a tal punto, che una lacrima gli era scesa dal volto. Avevo trascritto in un quaderno tutte le risposte avute dallo zio, come pure vi avevo incollato delle foto inerenti ai reali di Casa Savoia, trovate in un vecchio libro donatomi dal parroco del paese. La maestra rimase molto soddisfatta della mia ricerca e mi premiò con un voto altissimo.  Da grande sognavo di scrivere anch’io un libro che potesse dare luce sull’operato di Casa Savoia, caduta nell’oblio. Dopo la licenza elementare mi portai dietro quel quaderno e continuai ad incollare quei pochi articoli sui Savoia che trovavo nei giornali che venivano recapitati a casa mia. La fedeltà a Casa Savoia durerà per tutta la vita. Quante volte avrei voluto mettermi su un treno e raggiungere Re Umberto II, a Cascais. Mi sarei presentato davanti alla sua Villa Italia chiedendogli di stringergli la mano, e di poter avere da lui una foto con dedica, o magari un libro. Questo sogno lo cullai per sempre. Quello che realizzai in questi anni fu una fedeltà assoluta al suo ricordo. Quando morì non ebbi nessun dubbio. Dovevo andare ai sui funerali, e ci riuscii, anche se con molte traversie. Raggiunsi la Francia con la morte nel cuore, e da quel momento non lo dimenticai mai. Ogni anno e per quarantun anni ho scritto un ricordo per l’anniversario della sua morte che ho pubblicato nei giornali amici, quelli che ti hanno dato spazio, esprimendo la mia fedeltà e devozione al Sovrano. Quest’anno ho scritto questo articolo.  Il 18 marzo del 1983 moriva il Re d’Italia S.M. Umberto II, in terra d’esilio, all’ospedale di Ginevra. Ero tra coloro che presenziarono ai suoi funerali, in una giornata in cui il cielo aveva deciso di piangere come quelle migliaia di italiani che avevano sfidato ogni difficoltà pur di esserci.  Il sovrano che era morto dopo una lunga malattia era considerato un grande uomo, una persona che aveva come priorità assoluta il bene del suo Paese. Durante la lunga malattia che lo aveva colpito, e che faceva presagire nessuna possibilità di guarigione, aveva chiesto di poter far ritorno alla sua amata patria che gli aveva dato i natali il 15 settembre 1904. Questa richiesta rimase inevasa, la repubblica non ebbe nessun rispetto per il Re, per una persona che era stata 37 anni in esilio: una condanna che nessuna ragione politica poteva giustificare. Il giorno delle esequie, in terra straniera, si distribuì un volantino che conservo nel mio studio vicino alla foto del Re Umberto II. Questo foglio scritto da quel galantuomo di Sergio Boschiero, allora segretario dell’U.M.I. diceva: “Il Re è morto: Viva il Re! S.M. il Re Umberto II è morto. Voleva rivedere l’Italia ma anche la morte ha stroncato il più grande desiderio della Sua vita. È morto da italiano e da Re come da italiano e da Re era vissuto. Ha sempre e solo parlato di fratellanza, di giustizia, di pace: per questo è stato condannato all’esilio”. Quelle parole riassumevano la vita di un uomo che aveva provato tutto, sopportato tutto, provato nel male, ma non si era mai arreso. Quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo non possono che tesserne le lodi, e quelli che hanno letto la sua biografia non possono che apprezzare il suo modo di agire e l’amore che aveva per la sua terra. In esilio visse in Portogallo, a Cascais, allora un piccolo paese di pescatori dove tutti lo stimavano e lo conoscevano. Era sua abitudine intrattenersi con quelli che lo cercavano, con coloro che bussavano alla sua porta e gli chiedevano aiuto. Alla domenica si recava alla messa nella piccola chiesetta del paese, e all’uscita molti poveri lo circondavano e gli chiedevano aiuto, e per tutti aveva qualcosa da dare. La sua generosità era risaputa da molti e a quella messa si davano convegno quelli che il destino non aveva reso felici. La sua fama tra quelle genti non conoscerà mai tramonto. Quello che si fa con il cuore rimane.  Sono trascorsi 41 anni dalla sua morte e non si è fatto nulla di concreto per farlo riposare in Italia, al Pantheon, assieme a sua moglie, la regina Maria José nonostante sia stato un Re mandato in esilio per evitare una guerra civile e abbia fatto parte di una dinastia che ha scritto mille anni di storia italiana. Il nostro Paese sembra aver scordato la sua storia, e le sue radici. Anche quest’anno molti italiani andranno in Francia a rendergli omaggio, con una tristezza maggiore, perché lo scorso anno a quella commemorazione vi stava anche il figlio S.A.R. Vittorio Emanuele IV, che il buon Dio ha chiamato a sé. Dopo i funerali del Re Umberto II, nel suo scrittoio di Cascais, trovarono due citazioni che aveva scritto di proprio pugno. La prima faceva riferimento alla Lettera di San Paolo ai Corinzi:”

 

«Poco importa a me d’essere giudicato da voi, da un tribunale umano; anzi, non mi giudico neppure da me stesso. Infatti non ho coscienza di alcuna colpa; non per questo però sono giustificato; mio giudice è il Signore». La seconda riportava le parole di Pietro I, Valica del Montenegro: «lo mi avanzo pieno di speranza alle soglie del / Tuo Divino Santuario / la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato / dai miei passi mortali. / Alla Tua chiamata io vengo tranquillo …»

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