Gli eredi di Cavour spietati contro
il brigantaggio Oltre gli stereotipi Il Regno delle Due Sicilie non era così
arretrato come lo si è dipinto: dopo il 1816 vennero compiuti alcuni tentativi
di rinnovamento Oltre il determinismo L' unificazione non era ineluttabile, era
un sogno e un progetto di gruppi politici che si concretizzò attraverso brusche
accelerazioni
Non
è vero che il Regno delle Due Sicilie nella prima metà dell' Ottocento fosse
una sorta di terra cara solo al demonio. Anzi, il regime borbonico «rinnovatosi
nel 1816 sapeva di dover evitare la contrapposizione tra le sue due nazioni,
quella borghese e quella popolare», e perciò «stette ben attento, anche su
pressione dei suoi sponsor europei, a che la restaurazione non si risolvesse in
un altro 1799, in un' apocalisse di stragi, tumulti, saccheggi plebei». Non è
vero che quello stesso regime fosse nient' altro che super reazionario. Anzi,
mise fuori gioco «gli ultras del legittimismo, e a maggior ragione molti degli
elementi di estrazione popolare mobilitatisi in suo favore nel decennio
precedente quali guerriglieri o briganti, e che si mostravano ora restii a
rientrare nell' ordine sociale». Il regno borbonico «si assicurò l' adesione di
un personale militare o in generale burocratico proveniente dal passato regime
murattiano, e di cui fu garantito l' amalgama con il personale che gli era
rimasto fedele negli anni precedenti». E in una logica «definibile in senso
lato, di omogeneizzazione nazionale esso mantenne in vigore le riforme del
decennio francese (1806-1815)». La monarchia sabauda nell' età della
restaurazione fu, quella sì, «codina e reazionaria». Non è vero che i liberali
meridionali dell' epoca si sentirono affratellati dalla comune fede politica
risorgimentale. Anzi, «si scontrarono, si danneggiarono gli uni con gli altri»
eccezion fatta per i momenti in cui dovettero subire la repressione della
restaurazione assolutista dopo il 1821 e il 1849. In Sicilia, il termine
«napoletano» era «aborrito» non meno di quanto lo fosse a Milano quello di
«croato». A Palermo si mantenne sempre viva «la rancorosa memoria del
tradimento borbonico del 1816, la protesta per il gesto tirannico che aveva
abrogato le libertà dell' isola, antiche e nuove». Sono parole di Salvatore
Lupo che si leggono nel libro L' unificazione italiana. Mezzogiorno,
rivoluzione, guerra civile , che sta per essere pubblicato da Donzelli editore.
Lupo parte proprio di qui, da ciò che rese possibile il successo dell'
impresa garibaldina. Cioè dalla dissidenza siciliana nei confronti del Regno
borbonico, dissidenza che si configurava anche come un conflitto tra Napoli e
Palermo, rispettivamente la più grande (322 mila abitanti) e una delle prime
(114 mila abitanti) città italiane: si pensi che il secondo centro abitato
della parte continentale, Foggia, contava appena 20 mila cittadini, mentre in
Sicilia ce n' erano altri due, Messina e Catania, che di cittadini ne avevano
40 mila. A Palermo, poi, le insurrezioni si ebbero in nome del ripristino della
Costituzione filo-aristocratica del 1812. Nel Mezzogiorno continentale i
rivoluzionari, invece, si mobilitarono per la Costituzione di tipo spagnolo,
cioè democratica, vale a dire quella concessa da Ferdinando I dopo la
sollevazione del 1820. Per di più le altre città siciliane erano schierate con
Napoli. «Fu guerra dei siciliani contro i napoletani», scrive Lupo, «e
guerra civile dei siciliani tra loro: alla fine giunse la reazione
assolutistica per tutti». Nel 1848 Palermo fu la prima città d' Europa a
imboccare la via della rivoluzione: avrebbe aderito anche a una Confederazione
italiana, purché - s' intende - in modo «del tutto autonomo da Napoli».
Ferdinando II concesse la Costituzione, poi fece marcia indietro e Messina fu
la città che si distinse per una resistenza davvero eroica. Ma, anche nella
stagione reazionaria che ne seguì, il re si affidò non già a superconservatori,
bensì a personaggi che si distinguevano per essere stati murattiani e
costituzionalisti: Carlo Filangieri, figlio del filosofo illuminista, Pietro
Calà Ulloa e Giustino Fortunato, prozio dell' omonimo meridionalista, che
tornerà nella seconda parte di questo racconto. Il libro di Lupo non si propone
di presentare al lettore rivelazioni o denunce. È piuttosto una rielaborazione
molto acuta di elementi alquanto trascurati dalla storiografia tradizionale.
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