Si è sviluppato sul sito del Sole 24 ore un interessante dibattito sull'Unità d'Italia, ormai messa in discussione da tutti con motivi della cui fondatezza è più che lecito dubitare.
Nessuno nega che a guardare con gli occhi di chi vive nel 2010 le cose del 1860/61 possono essere lette con luce affatto diversa.
Da qui alla negazione di ogni ragione "sana" dell'Unità ed al continuo quotidiano insulto nei confronti dei Padri veri della Patria, quelli che furono capaci di giocarsi tutto per il suo bene, al dipinto abbastanza poco credibile di Regni e Ducati rappresentati come il Paradiso terrestre ce ne corre.
Al seguente articolo: L'Unità d'Italia vista da Sud: un'annessione senza dichiarazione di guerra? ha fatto seguito la replica dell'ottimo dr. Alberto Casirati che qui riportiamo per intero.
Dopo la pubblicazione dell'articolo del 31 agosto sull'Unità d'Italia vista da Sud abbiamo ricevuto la lettera del presidente dell'Istituto della Reale Casa di Savoia, il dottor Alberto Casirati, che contesta alcuni degli argomenti proposti nell'articolo. Con ricchezza di argomenti, il dottor Casirati propone le puntalizzazioni dell'Istituo di Casa Savoia su un momento storico che, riconosce, «ha avuto le sue ombre, come ogni esperienza umana» ma che - afferma - ha «costituito per il Sud un'occasione vera di sviluppo». Non riteniamo che le puntualizzazioni dell'Istituto contraddicano la sostanza dell'articolo in cui le tesi anti-risorgimentali vengono sottoposte al giudizio di storici autorevoli. In ogni caso riteniamo che la pubblicazione della lettera possa offrire ai lettori un punto di vista autorevole, per quanto interessato.
Egr. Direttore,
l'articolo del 31 agosto 2010 di Giuseppe Chiellino, dal titolo L'Unità d'Italia vista da Sud: un'annessione senza dichiarazione di guerra? ripropone, seppur garbatamente, alcuni argomenti senza alcun fondamento storico, cavalli di battaglia di chi, per motivi di carattere personale e sfruttando la buona fede di persone all'oscuro dei fatti storici, cerca di sfruttare anche il cosiddetto "150° anniversario dell'unità italiana".
Per amor di verità storica, e per limitarsi ai temi accennati nell'articolo, è necessario ricordare che:
- nel 1861 non fu raggiunta l'unità nazionale, bensì proclamato il Regno d'Italia. L'unità venne completata solo nel 1918, grazie alla vittoria nella "Grande Guerra" (che divenne così la IV Guerra d'Indipendenza italiana) ed il raggiungimento dei confini naturali della Patria;
- le tesi dei nostalgici borbonici ignorano completamente il quadro generale europeo e mondiale del XIX secolo, nell'ambito del quale il processo unitario nazionale dovette per forza di cosa muoversi e dal quale era inevitabilmente condizionato;
- il brigantaggio, che i neoborbonici imputano alla "conquista piemontese", era in realtà già ben radicato nel Sud già due secoli prima. Tanto che i primi a mettere in pratica la repressione armata del brigantaggio furono gli stessi Borbone, che sotto Ferdinando I arrivarono persino ad affidarsi ad uno straniero: il Generale Richard Church. Anche durante il regno di Gioacchino Murat, diversi decenni prima della spedizione dei Mille, il brigantaggio fu aspramente combattuto. Il Colonnello francese Charles Antoine Manhés è ricordato per i suoi metodi violenti e crudeli. I francesi stigmatizzarono in particolare l'utilizzo delle bande da parte dei nobili latifondisti locali, che se ne servivano per tenere i loro contadini in una situazione di sottomissione del tutto simile alla schiavitù. Altro che patrioti!
- la tanto decantata "identità meridionale" ha la stessa credibilità storica della Padania: una favola. Basti pensare all'odio nutrito per la dominazione borbonica da parte dei siciliani, che parteciparono, con migliaia di caduti, alla liberazione dell'isola, appoggiando in armi la spedizione garibaldina;
- le casse del regno borbonico erano ben fornite, ma a scapito del popolo: storici meridionalisti affidabili hanno da tempo ammesso le condizioni di vita miserrime della maggior parte dei sudditi borbonici, l'analfabetizzazione imperante e ben al di sopra della media europea d'allora (basti pensare, ad esempio, che numerosi consiglieri comunali della provincia di Napoli firmavano i verbali di consiglio aiutandosi con una stampiglia di legno), l'assenza quasi totale di vie di comunicazione…
- mancava un'istruzione pubblica propriamente detta. Il Prof. Carmine Cimmino, docente napoletano, sintetizza così l'argomento: "I Borbone persero il Regno per necessità storica: Francesco I e Ferdinando II cercarono, con una perseveranza maniacale, di chiudere le genti del Sud in una specie di bolla gigantesca che li isolasse da un mondo che cambiava senza sosta. Accadde così che piccoli gruppi di eccellenza, ingegneri, architetti, medici, raggiungessero posizioni d'avanguardia: ma l'analfabetismo di massa toccava percentuali altissime, e il programma delle scuole pubbliche di primo grado era roba da ridere. Nell'ultima battaglia, sul Volturno, i soldati napoletani si coprirono di gloria, ma pochi di essi sapevano leggere e scrivere; tutti i sodati piemontesi, invece, leggevano e scrivevano con una certa facilità. Questo dato sarebbe sufficiente, da solo, a spiegare il crollo del Regno. La logica della storia è spesso più lineare di quanto si pensi".
- Angelo D'Orsi, professore di Storia del pensiero politico all'Università di Torino, ricorda che "il Regno del Sud era un territorio profondamente depresso ed era almeno un secolo e mezzo indietro rispetto allo sviluppo del resto d'Europa"; gli fa eco il prof. Giuseppe Cacciatore, filosofo salernitano e membro dell'Accademia dei Lincei: "nessuno può negare che quella dei Borbone sia stata una tra le peggiori dinastie europee e contemporanee. E' quella che ha mandato in carcere e al patibolo i patrioti napoletani, che impose il giuramento davanti ai vescovi delle diocesi dei professori universitari per avere il permesso ad insegnare". Metternich previde che la dinastia sarebbe morta di una "infezione" contratta durante i moti del 1820 - 1821: la paura.
D'altra parte, è un fatto storicamente accertato che le sorti del Regno borbonico erano affidate ad una classe "dirigente" composta in massima parte da corrotti e da traditori, pur con alcune lodevoli eccezioni. Lo dimostra anche la repentina decomposizione del Regno dopo lo sbarco dei Mille a Marsala.
Come ogni esperienza umana, anche il nostro Risorgimento ha avuto le sue ombre, ma non v'è dubbio che abbia costituito, per il Sud, un'occasione vera di sviluppo. Se ne ricordarono bene, solo 86 anni dopo, le genti del Sud, quando votarono a grande maggioranza a favore della Monarchia sabauda nel referendum istituzionale.
E' dunque sempre più squallido e meno credibile lo scenario rivendicativo "meridionalista" odierno, che Ernesto Galli della Loggia ben sintetizza dalle pagine del Corriere della Sera del 29 agosto 2010: "Almeno nella sua vulgata di massa, quella del Sud si presenta come una protesta che non tiene assolutamente conto, non fa menzione neppure, di quello che pure tutti gli osservatori imparziali hanno indicato da decenni come tra i principali, o forse il principale ostacolo di qualunque possibile sviluppo del Mezzogiorno. Vale a dire la paurosa, talvolta miserabile pochezza delle classi dirigenti politiche meridionali, specie locali, protagoniste di malgoverno e di sperperi inauditi, ma che continuano a stare al loro posto perché votate dai propri elettori".
Grato di una pubblicazione, porgo vive cordialità.
*Dr. Alberto Casirati
Presidente - Istituto della Reale Casa di Savoia
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