NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 11 ottobre 2024

“La Granda”, un’eccezione monarchica

 


Al voto in affanno

 

Al referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 la monarchia prevalse nettamente nell’Italia meridionale, nelle isole e nel Lazio mentre la repubblica vinse con ampio vantaggio in Toscana, Umbria, Marche, Emilia e nell’Italia settentrionale. Per una riflessione pacata su quei risultati occorre partire dal suo panorama generale. Il primo repertorio ufficiale dei voti espressi al referendum monarchia/repubblica e nell’elezione dell’Assemblea Costituente venne pubblicato quasi due anni dopo, in vista delle elezioni politiche del 17-18 aprile 1948, quando tanti malumori per l’esito del referendum, palesemente manipolato, erano stati sopiti o, se si preferisce, repressi.

 

Secondo i computi più attendibili, che fanno perno sui dati demografici del 1938, gli aventi diritto al voto nella consultazione del giugno 1946 erano circa 28.000.000. Alle urne andarono in 25.000 000. Tre milioni di elettori non poterono votare per diversi motivi. Gli abitanti dell’intera XII Circoscrizione elettorale (Venezia Giulia, Istria, Fiume, Zara…) e quelli dell’Alto Adige (o Sud Tirolo, come dicevano gli austriacanti) furono esclusi dalle urne perché quelle terre erano “inquiete”, ovvero “sub judice” sino al Trattato di pace che il 10 febbraio 1947 fu dettato all’Italia in Parigi dalle 18 Potenze vincitrici. Il Decreto legge luogotenenziale (Dll), voluto dal governo presieduto da Alcide De Gasperi e firmato da Umberto di Savoia, principe di Piemonte, Luogotenente di Vittorio Emanuele III dal 5 giugno 1944, promise che gli elettori esclusi sarebbero stati consultati più tardi, il che non avvenne mai più: un brutto vulnus, che cozza con l’art. 139 della Carta.

 

Un cospicuo numero di cittadini furono interdetti perché fautori conclamati del passato regime, che, come noto, era stato approvato dagli elettori nel 1924, 1929, 1934 e che nel 1939 aveva persino fatto a meno del voto. Gli bastavano le piazze piene di italiani plaudenti, come ricorda Ugoberto Alfassio Grimaldi in “10 giugno 1940. Il giorno della follia” (Laterza). La Costituzione repubblicana, in vigore dal 1° gennaio 1948, vietò la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista e l’esclusione dal voto dei “capi responsabili del regime fascista” per non più di un quinquennio dall’entrata in vigore della Carta costituzionale. Ma il regime non era stato solo di gerarchi. Fu una spugna che si imbevve e rilasciò, dai cacumini ai sottoscala.

 

Nel 1946 il voto fu negato non solo su indicazione politica. Nel caos ancora dilagante negli uffici comunali – soprattutto nelle regioni settentrionali, dove i regimi si erano alternati convulsamente: Regno d’Italia, Repubblica sociale italiana, ritorno del Regno in regime di costituzione provvisoria in forza del Dll 25 giugno 1944, n. 151 che rimise ai cittadini la scelta della forma dello Stato – un numero di elettori imprecisato ma sicuramente alto non ricevette il certificato elettorale per motivi burocratici mentre altri ne ebbero due. Le tessere elettorali di Vittorio Emanuele e della Regina Elena, partiti dall’Italia il 9 maggio per l’abdicazione del re, vennero recapitate al Quirinale, a conferma che non erano “esuli”, privati dei diritti politici, ma cittadini di pieno diritto. Vittorio Emanuele lo rimase sino alla morte, il 28 dicembre 1947, quattro giorni prima che la Costituzione, entrata il vigore il 1° gennaio 1948, vietasse loro rientro e soggiorno in Italia, come avvenne per Umberto II, la Regina Maria José e il loro figlio Vittorio Emanuele, alla nascita creato dal nonno principe di Napoli. Molti di quanti non ricevettero la tessera elettorale non si premurarono di chiederla nel timore di vedersela negare per motivi politici, con tutte le possibili conseguenze pubbliche e private; altri perché, per cause belliche o d’altra natura, erano irreperibili.

 

Infine non poterono votare le centinaia di migliaia di militari italiani ancora prigionieri di guerra degli inglesi in Sud Africa, India e altrove, degli Usa in America e di altri nemici: greci, jugoslavi e soprattutto dei russi, che li restituirono con il contagocce, protraendo l’agonia dell’attesa in quanti continuavano a sperare rimanessero vivi. I generali Emilio Battisti della “Cuneense”, Umberto Ricagno della “Julia” ed Etelvoldo Pascolini della “Piacenza” vennero trattenuti dall’Unione Sovietica di Stalin sino al 1950 come “criminali di guerra”.

 

Una corposa documentazione sulla Corte Suprema di Cassazione, contenente carte sullo svolgimento del referendum, consultata da chi scrive con la guida del suo Sovrintendente Aldo G. Ricci, mette in luce che a una miriade di persone (soprattutto ecclesiastici in servizio presso case di cura) fu impedito di votare con i pretesti più astrusi, così asfissiando il voto sicuramente monarchico.

 

 

 

Votanti e voti validi: l’“unicum” negativo del 1946

 

Comunque, nella seconda e ultima adunanza, convocata il 18 giugno 1946, la Suprema Corte confermò, con piccole modifiche, i risultati già prospettati nella seduta precedente (10 giugno). La repubblica ottenne circa 12.700.000 suffragi, mentre la monarchia si fermò a poco più di 10.700.000. Nell’insieme i voti per l’una o altra forma di Stato sommarono a 23.400.000: 1.600.000 in meno dei votanti. Quei voti mancanti comprendevano schede bianche, nulle, annullate o contestate, che vennero conteggiate solo dopo il 10 giugno, su richiesta del presidente della Corte, Giuseppe Pagano. Prima nessuno si era premurato di computarli analiticamente. Il riepilogo dei voti delle circoscrizioni elettorali venne scritto a penna sul retro di fogli stampati (la carta non andava sprecata), ripartiti grossolanamente su due colonne sormontate da una “R” da una “M”, scritte a penna, sotto le quali furono annotati e sommati solo i voti validi riportati dalle due opzioni. Il computo dei voti non validi avvenne nei giorni 13-17 giugno sulla base dei verbali estratti dai sacchi inviati all’Ufficio Elettorale Centrale dagli Uffici Elettorali Circoscrizionali. Una massa di impiegati lo effettuò con calcolatrici. I dati furono stampati su rotoli sbiaditi tuttora conservati nel citato fondo dell’Archivio Centrale dello Stato. Le somme degli esiti parziali vennero fatte via via a matita sulle strisciate, quando capitava. Da un primo riscontro balza “ictu oculi” che spesso “i conti non tornano”. Ma ormai poco importa. Un voluminoso brogliaccio evidenzia che alla vigilia della proclamazione dei risultati mancavano quelli veramente definitivi di migliaia di seggi.

 

Ma dalle 16 del 13 giugno Umberto II aveva lasciato il suolo patrio alla volta del Portogallo. Partì da Re, senza conoscere l’esito del referendum, che fu reso noto solo alle ore 18 del 18 giugno, quando venne comunicato dalla Cassazione, il cui presidente, Pagano, lo lesse senza però procedere alla “proclamazione” della repubblica, perché non era prevista. Essa “nacque”, dunque, solo per effetto del Dll che aveva regolato la votazione referendaria. Di seguito, Pagano rifiutò di accompagnare il democristiano Alcide De Gasperi al Quirinale, perché disgustato dal “colpo di stato contro la lingua italiana” perpetrato a maggioranza dalla Suprema Corte. Infatti questa un’ora prima dell’apertura dell’adunanza conclusiva con dodici voti contro sei (fra i quali il suo) aveva deciso che per “votante” s’intende solo il “voto valido” anziché, come sostenuto dal procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, magistrato integerrimo, il voto espresso da chi si reca al seggio, ritira la scheda, si reca in cabina, ne esce e la riconsegna: votata, annullata, bianca o poi dichiarata nulla dagli scrutatori. Che per votante si intende chi va a votare, non solo i voti validi, è l’interpretazione adottata in tutte le elezioni politiche e amministrative dal 1948 in poi, così come era avvenuto nel regno di Sardegna e in quello d’Italia dal 1848 al fatale referendum del 1946, che costituisce dunque un “unicum” negativo nella storia elettorale italiana.

 

 

 

Ma quando nacque la repubblica italiana?

 

Il 19 giugno 1946 uscì il primo numero della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”. La quale Repubblica, invero, era già stata proclamata e festeggiata varie volte nei giorni precedenti. La prima fu nella notte tra il 10 e martedì 11, quando nel corso di un affannoso consiglio dei Ministri il socialista Pietro Nenni ne propose l’immediata instaurazione e fece proclamare festivo il giorno medesimo. Non se ne fece niente. La pressione per la svolta crebbe però di ora in ora. Per saperne di più basta leggere l’edizione critica dei Verbali del Consiglio dei Ministri curata da Aldo G. Ricci: un’opera poderosa e assai più interessante dei “romanzetti storici” sempre più dilaganti, perché le fiabe hanno la meglio sulla verità storica documentata sulla base degli archivi.

 

Le posizioni erano chiare, nette e inconciliabili. Da un canto il governo aveva fretta di rompere gli indugi e voltare pagina. Con sorpresa degli osservatori esteri, malgrado i toni della campagna elettorale, spesso esasperati, violenti e persino volgari (contro il re si scagliò anche un generale che non merita menzione), le votazioni del 2-3 giugno si erano svolte in un clima complessivamente sereno. Anche i primi giorni degli scrutini non avevano dato adito a manifestazioni pro o contro uno o l’altro contendente. Poi, però, il clima iniziò a surriscaldarsi. Numerosi ricorsi chiesero la nullità radicale del referendum. Tra i molti due prevalsero. Uno, presentato dall’on. Enzo Selvaggi, chiese il chiarimento del conflitto formale e sostanziale tra “votanti” e “voti validi”. La questione era già stata posta al presidente del Consiglio De Gasperi, da Selvaggi e dal presidente del Partito liberale italiano, Giovanni Cassandro, “maestro di color che sanno”. “Fondare” la vittoria dell’una o altra opzione sui soli voti validi comportava di conferirla a una minoranza. Il vincitore doveva mostrare di avere il consenso almeno della metà più uno dei votanti, il cui numero doveva essere correttamente computato e comunicato dal ministero dell’Interno. Il suo titolare, Giuseppe Romita, era dichiaratamente repubblicano e, come scrisse nelle memorie, si era proposto da sempre la demolizione della monarchia sabauda. Un secondo rilevante ricorso, propugnato dal liberale Edgardo (Eddy) Sogno, valoroso comandante partigiano, chiedeva la nullità del referendum per l’esclusione dal voto della XII Circoscrizione elettorale. Ora dopo ora la tensione crebbe. In un colloquio con il generale Adolfo Infante, aiutante di campo di Umberto II, il pacioso contrammiraglio americano Ellery Stone disse che la Commissione Alleata in Italia, di cui era Capo, non intendeva intromettersi nella questione monarchia/repubblica: un “affare interno” dell’Italia ed egli doveva preoccuparsi dell’opinione pubblica del suo paese (filo-repubblicana). Aggiunse che i monarchici, se ritenevano di averne, dovevano far valere i loro diritti “con le loro mani”. Alla “far west”, insomma, anziché in punto di diritto. Quali rischi questa linea comportasse si vide a Napoli ove una dimostrazione popolare di monarchici inermi contro la sede del Partito comunista italiano fu bersagliata da colpi d’arma da fuoco, sia degli “assediati”, sia di forze dell’ordine, che in via Medina causarono morti e feriti. La situazione stava divenendo incandescente.

 

La posizione del Re era e rimase limpida. Il 5 giugno fece partire di fretta la Regina e i figli dal Quirinale per Napoli. L’indomani la sua famiglia si imbarcò sul “Duca degli Abruzzi” di rientro da Alessandria d’Egitto, ove aveva recato Vittorio Emanuele III, ormai “conte di Pollenzo”, con la consorte Elena, e salpò alla volta del Portogallo. Il sovrano però era determinato ad attendere la conclusione formale del referendum: la pronuncia della Corte Suprema di Cassazione, come previsto dalla legge istitutiva del referendum. Garante della legalità il Re non poteva e non voleva sottrarsi alla legge ma, al tempo stesso, chiedeva al governo di rispettarla. Come sopra accennato, l’adunanza del 10 giugno non fu concludente perché risultavano mancanti i verbali di circa 150 seggi. Un’inezia, secondo  molti esagitati. Ma la legge non ammette scorciatoie, soprattutto quando sia in campo niente meno che la forma dello Stato. Dopotutto, proprio perché forti del risultato provvisorio, nettamente favorevole, i repubblicani non avevano motivo di violare la legge con misure affrettate.

 

Invece proprio la fretta fu cattiva consigliera. Alle 0:30 del 13 giugno, con il voto contrario del solo Leone Cattani, il consiglio dei ministri conferì al presidente De Gasperi, democristiano, l’esercizio delle funzioni di Capo dello Stato. De Gasperi le accettò e suggellò a quel modo un greve “patto” con gli alleati di governo che precipitava verso una soluzione forzatamente traumatica. L’Italia si trovò con due capi di Stato, inevitabilmente contrapposti: un contrasto potenzialmente esplosivo poiché i militari avevano giurato fedeltà al Re. Che cosa fare? Informato che gli anglo-americani non ne garantivano l’incolumità fisica, vagliate varie opzioni (sciogliere il governo e nominarne un altro, arroccarsi nel Quirinale, lasciare Roma per una città nettamente monarchica), Umberto II decise di lasciare l’Italia e protestare contro il “colpo di Stato”, ridimensionato a “gesto rivoluzionario” nel Proclama lanciato agli italiani dopo la partenza da Ciampino alle 16 del 13 giugno. De Gasperi replicò con una prolissa dichiarazione polemica poco apprezzata anche Oltre Tevere.

 

All’arrivo in Portogallo il Re scrisse a Falcone Lucifero, ministro della Real Casa, di essere rimasto vittima di un “truc”, un misto di fascinazione e imbroglio. A cospetto della sua condotta pacata, gli era stata fatta intravvedere una soluzione conciliativa. Invece i costituenti si preparavano a rubricare e a combattere i monarchici come nemici dell’ordine dello Stato he essi stessi avevano fondato. Non solo. Era stato Vittorio Emanuele III a revocare Mussolini e ad approvare la resa che nel settembre 1943 aveva salvaguardato il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Italia, riconosciuta co-belligerante delle Nazioni Unite dalla dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre. Di quei meriti indiscutibili non si volle tenere alcun conto, come poi venne calato un velo di silenzio sul concorso dei monarchici alla guerra di liberazione, con il Fronte monarchico clandestino dell’eroico Giuseppe Cordero di Montezemolo, con le tante formazioni partigiane dichiaratamente monarchiche e con il generale Raffaele Cadorna al comando del Corpo Volontari della Libertà.

 

Molti nodi rimasero ingarbugliati malgrado i colpi di mano politici. Lo conferma il Comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri sull’insediamento del Capo Provvisorio dello Stato pubblicato dalla “Gazzetta Ufficiale” del 1° luglio 1946: «Oggi alle ore 13 in un sala di Montecitorio [non al Quirinale, NdA] ha avuto luogo l’insediamento del Capo Provvisorio dello Stato On. Enrico De Nicola, al quale l’On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica, da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio dal giorno dell’annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale» (corsivo dell’Autore). Ma non li aveva assunti il 13 giugno? Chi li aveva esercitati fra il 13 e il 19 di quel mese? Tante cose andavano dimenticate in quei giorni e tante altre andavano sepolte nell’oblio. Enrico De Nicola era presidente della Camera all’insediamento del governo Mussolini, il 31 ottobre 1922, e non aveva battuto ciglio quando, nel suo primo intervento da presidente del Consiglio, il duce aveva detto che avrebbe potuto trasformarla in un bivacco per i manipoli delle camicie nere. Nella stessa seduta De Gasperi aveva pronunciato il voto del Partito popolare italiano a favore del governo Mussolini, nel quale sedeva con ministri e sottosegretari, come Giovanni Gronchi, futuro presidente della Repubblica.

 

 

 

Un’Italia divisa in due, ma con qualche eccezione

 

Al referendum istituzionale i voti validi per la repubblica furono il 39,1% in Sardegna, 35,3% in Sicilia, 32,6% nell’Italia meridionale, 63,5% in quella Centrale e 64,5% nella Settentrionale, ove la monarchia ebbe appena il 35,2% dei consensi, mentre ottenne il 36,2% nella Centrale, il 67,2% nella Meridionale, il 64,7% in Sicilia e il 60,9% in Sardegna. Ma non tutte le regioni dell’Italia centro-settentrionale furono compattamente repubblicane. Nel Lazio la monarchia prevalse nelle province di Roma, Rieti e Frosinone, la terra che aveva sofferto gli orrori delle truppe marocchine. Nella Capitale la repubblica ottenne appena il 46,2% dei voti validi. Tra i capoluoghi di provincia Roma si collocò al sessantesimo per simpatie repubblicane. Dopo averne viste tante nei secoli, preferiva l’“usato sicuro”.

 

Nell’Italia settentrionale a favore della monarchia si schierarono le province di Cuneo, Asti, Bergamo e Padova, nei cui capoluoghi, per altro, vinse la repubblica (56,1% ad Asti, 54% a Cuneo, 52,6% a Bergamo e 51,7% a Padova). Ma a prevalere, in quelle terre del Nord, fu la “provincia profonda”, nettamente distinta dalle altre delle medesime regioni. Erano una retrograda Vandea o una civiltà del buon tempo antico? Mentre ad Asti la monarchia si attestò appena oltre la soglia del 50%, nella “Granda” essa ottenne il 54,2% dei voti validi.

 

Il Cuneese è noto sia come seconda culla dei Savoia, sia come “capitale della Resistenza”. È un’“eccezione” che merita di essere approfondita, perché è anche un osservatorio per capire una terra di frontiera e cerniera d’Europa. Ne parleremo ancora.


Fonte

“La Granda”, un’eccezione monarchica - Civico20 (civico20-news.it)

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