NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 28 settembre 2024

IL TRIANGOLO DEI VETERANI TORINO, ROMA L'ITALIA

 di Aldo A. Mola



Il Re che sperava in una Sinistra duratura

Alle ore 11 di mercoledì 9 gennaio 1878, dopo cinque giorni di notizie ufficiose e di bollettini medici dai toni alterni, Lorenzo Bruno, (Murazzano, Cuneo, 1821-1900), senatore da due anni e archiatra di corte, consigliò che a Vittorio Emanuele II venisse amministrato il viatico della buona morte. Seduto sul letto della sua camera spartana, il Re respirava a fatica, alternando brividi e sudori.

   Ma anche il “suo” governo e le camere erano in affanno. Il 25 marzo 1876 aveva conferito la presidenza del Consiglio ad Agostino Depretis, già ministro fidato, che varò il primo governo “di sinistra”, quindici anni dopo la proclamazione del regno (1861). Prima di lui si erano susseguiti i governi presieduti da Giovanni Lanza e da Marco Minghetti: tre anni a testa. Re Vittorio era convinto che la nuova compagine sarebbe durata a lungo. Per rincalzarsi, Depretis ottenne lo scioglimento della Camera. Le elezioni furono “gestite” dal ministro dell'Interno Giovanni Nicotera, massone, scampato nel 1857 all'annientamento della spedizione capitanata da Carlo Pisacane (“eran trecento, eran giovani e forti...), massacrata a Sezze, presso Sapri, dai contadini che li ritennero banditi anziché patrioti. Usando metodi sbrigativi, Nicotera ottenne ampio successo, ma il governo uscì dilaniato dalle divisioni. Non vi era “una” ma “diverse” sinistre. L'Estrema aveva un piede alla Camera e uno nelle organizzazioni extraparlamentari: leghe, associazioni e reti cospirative in parte ancora mazziniane. Il romano “Circolo dei Diritti dell'uomo”, vivaio di grandi maestri del Grande Oriente e di influenti politici, come Felice Cavallotti, e futuri ministri, attende la narrazione rivelativa della sua azione “coperta”.

   Il 26 dicembre Depretis formò il suo secondo ministero. Durò pochi mesi. Il 24 marzo 1878 si insediò il suo successore, Benedetto Cairoli, esponente del patriottismo garibaldino. Chiamò al governo il bresciano Giuseppe Zanardelli, capofila della sinistra democratica, fautore dell'irredentismo, il dalmata Federico Seismit-Doda, lo storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis, schierato con la Sinistra Giovane, Benedetto Brin, artefice della flotta, Alfredo Baccarini ai Lavori Pubblici e il giureconsulto Enrico Pessina all’Agricoltura: tutti alti dignitari della massoneria, Istituzione sempre più influente, ma appena sfiorata da Cairoli.

   Vittorio Emanuele II fece del suo meglio per incoraggiare la nuova maggioranza della Camera. Utilizzò la nomina di senatori, d'intesa con i governi che si susseguivano. In Senato entrarono esponenti della tradizione garibaldina e del Terzo Partito: Achille Rasponi, Vincenzo Sprovieri, Angelo Bargoni, Giuseppe Manfredi, il fisiologo Paolo Mantegazza e il materialista Jacopo Moleschott, nettamente sgraditi alla Chiesa che li considerava assatanati e li dipingeva persino come pornografi. Più assidui alle sedute rispetto a senatori più anziani e lontani da Roma, i nuovi “patres” avevano il compito di spostare a sinistra gli umori della Camera Alta, diffidente nei confronti di riforme senza copertura finanziaria. Tuttavia, come vedremo, neppure Cairoli durò. Il suo esecutivo era un coacervo di gruppi in contrapposizione costante, preoccupati di non perdere il contatto con il proprio vasto seguito ancora escluso dal diritto di voto, rimasto riservato privilegio di una cerchia ristretta di cittadini, perché la legge elettorale era più o meno quella promulgata nel regno di Sardegna nel 1848.

 

Depretis verso l'ignoto: la morte e i funerali del Re

   Il 12 dicembre 1877 il gruppo presieduto dal radicale Agostino Bertani dichiarò sfiducia al governo Depretis, che “non ha compreso e molto meno attuato il principio della vera libertà” e, “saldo nella sua fede democratica, si costituì in partito separato”. Dopo un incontro tra Cairoli e Quintino Sella, esponente della Destra ma sempre in dialogo con la Sinistra, al termine del pranzo offerto il 16 dicembre dal principe ereditario Umberto a ministri, presidenti delle Camere e prefetto di Roma, il governo annunciò le dimissioni. Il 27 dicembre Depretis fu incaricato per la terza volta di formare il Ministero. Tenne per sé gli Esteri e in un giorno formò la nuova compagine con Francesco Crispi all'Interno. Alla Giustizia andò Pasquale Stanislao Mancini, strenuo fautore della totale separazione tra lo Stato la Chiesa, e alle Finanze Agostino Magliani. L'enigmatico Crispi, massone di lungo corso, era il nome di punta del nuovo governo.

   Appena insediato il suo secondo Ministero Depretis si trovò alle prese con l'imprevisto: la malattia del re, la seconda dopo quella del 1869, quando, sembrando in punto di morte, sposò con matrimonio morganatico Rosa Vercellana. All'inizio del gennaio 1878, al rientro a Roma da una battuta di caccia nelle sue valli piemontesi, ammalato di bronco-polmonite, in pochi giorni il Re si aggravò. La Relazione ufficiale dà conto delle sue ultime ore e dell'amministrazione del Viatico da parte del Cappellano di corte Valerio Anzino, che a sua volta scrisse una Relazione studiata da Aldo G. Ricci. Era l’1:30 pomeridiana del 9 gennaio 1878. Il reverendo fu preceduto dal principe ereditario e dalla principessa Margherita sua sposa e seguito dai dignitari apicali di corte, dai ministri, inginocchiati, compreso Mancini, e dal commendator Nicola Aghemo, cognato di Ludovico Frapolli, già gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Depretis, piangente a dirotto, più che inginocchiato era disteso per terra. Il re salutò tutti con cenni. Poi reclinò il capo. Alle 2:30 cessò di vivere.

   Da quel momento il governo iniziò un viaggio verso l’ignoto. Che cosa fare? Riunito d'urgenza, esso proclamò re d’Italia Umberto, che lanciò il proclama: “Il vostro Re è morto. Il successore vi proverà che le istituzioni non muoiono”. Il 10 gennaio iniziò l'imbalsamazione della salma e venne rogato l'atto di morte con due errori marchiani. Vi si leggeva che il sovrano defunto era nato a Firenze, anziché a Torino, ed era figlio di una Asburgo di Toscana anziché d'Austria. Il problema più assillante era però la sua sepoltura. Il giorno 12 il “consiglio di Famiglia” deliberò la tumulazione al Pantheon. Però, come ha ampiamente documentato Tito Lucrezio Rizzo in “Il clero Palatino tra Dio e Cesare. Profili storico giuridici” (Roma, “Rivista Militare”, 1995), malgrado l'assenso di massima da parte di Pio IX, purché la cerimonia non avesse carattere politico, la soluzione fu a lungo vagliata nei colloqui del Cappellano Anzino con l'altra riva del Tvere. Proprio il 10 gennaio, presentendo la propria fine, il pontefice emanò il “Regolamento da osservarsi dal S. Collegio (Cardinalizio) in occasione della vacanza della Sede Apostolica”. Alcuni cardinali ventilavano la convocazione del Conclave non a Roma ma a Vienna, ad Avignone o addirittura a Malta. Mentre assicurò che il governo avrebbe garantito massima libertà al Conclave, Crispi fece sapere in via riservatissima che in tal caso sarebbe stato difficile per il nuovo pontefice, eletto all'estero, entrare in Roma, “conquista intangibile” della Nuova Italia. Sempre tramite Anzino vennero anticipati a chi di dovere i “cartigli” che avrebbero accompagnato il feretro. I funerali ebbero luogo il 17 gennaio, in forma solenne e senza alcun disturbo.

   Mentre alcuni confidavano di porlo al centro del Tempio, per l'opposizione del Vaticano il feretro fu collocato in via provvisoria nella cappella sulla destra dell'ingresso del Pantheon, in attesa del monumento che nel 1884 lo celebrò, qual è, “Padre della Patria”.

 

I Veterani delle patrie battaglie per la guardia alla tomba del Re

   Chi non rimase con le mani in mano furono i veterani delle guerre patriottiche. La loro lunga e interessantissima storia è documentata per la prima volta nel poderoso volume di Alessandro Liviero “Le origini della Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (BastogiLibri, 2024).

   La Guardia d'Onore è ora Istituto Nazionale in linea con la Costituzione dello Stato d'Italia, anche se il suo statuto risulterebbe un po' datato perché suoi organi direttivi vengono più nominati “ad nutum” che eletti dagli associati. Nacque il 28 luglio 1878 quando il Comitato principale romano dei Veterani del 1848-1849 si raccolse a Roma nell'ex convento della Missione, deliberò di assumere la guardia della tomba del Re Vittorio Emanuele e dette mandato al Consiglio direttivo di fare le pratiche necessarie. Il 29 luglio il torinese Consiglio generale dei Veterani rese omaggio alla tomba di Carlo Alberto recandosi a “Soperga”. Roma era Roma, ma i comitati e sotto-comitati locali continuarono a svolgere la funzione che da oltre un quindicennio avevano fatta propria: ricordare. Ma non per sé soli. Né solo come tributo ai caduti. Bisognava tener vivo lo spirito del Risorgimento, della “tempesta magnifica” che in un decennio aveva condotto all'unificazione dei “popoli d'Italia” dopo decenni di cospirazioni, moti, insurrezioni e guerre nelle quali confluirono nella “parte giusta” l'Esercito e l'Armata del re di Sardegna i volontari, mazziniani, garibaldini, senza una precisa matrice o classificazione “ideologica” ma accomunati dall'“idea d'Italia”. Essa arrivava dai racconti e, va ricordato, anche dall'entusiasmo suscitato dall'elezione di Pio IX, creduto e celebrato quale campione della Nuova Italia. Un evento niente affatto episodico se persino Giuseppe Mazzini in una “lettera aperta”, rimasta ovviamente senza risposta, come quella nel 1831 indirizzata a Carlo Alberto di Savoia, gli propose appunto di assumere la guida di un'Italia libera da giogo straniero.

   La sterminata ricerca documentaria raccolta da Liviero mette in evidenza la forza dei Veterani, presenti nei siti più disparati, a cominciare dal Vecchio Piemonte, e sempre pronti alle sollecitazioni dei loro presidenti, quali il marchese Salvatore Pes di Villamarina ed Emanuele Chiabrera, che li riorganizzò e sostituì i due vicepresidenti in carica, Giuseppe Garibaldi e Raffaele Cadorna, con Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. La sua fu una “manovra” non occasionale. Costituì un tacito invito a lasciare alle spalle le divisioni delle due anime del Risorgimento. Entrambe avevano fatto e fatto bene. Ma ormai l'Italia doveva guardare avanti, all'insegna dell'unità, come spiegò Giosue Carducci. Erano stati carbonari e massoni a volere che Re Vittorio lasciasse la sua terra lontana e, dopo le note traversie, giungere e rimanere a Roma, in quel Palazzo del Quirinale nel quale non si riconosceva ma si rassegnò a vivere perché così voleva la Storia: un esempio seguito specialmente dal nipote, Vittorio Emanuele, principe di Napoli (1869-1947), futuro Vittorio Emanuele III, che preferì la quiete di Villa Ada, ribattezzata “Savoia”, e a Palazzo andava perché lì era il suo Ufficio.

 

Pietro Galateri di Genola, presidente dei Veterani

   Tra i molti personaggi ampiamente “narrati” da Liviero spicca Pietro Galateri di Genola, “colonnello in ritiro”. Il 2 novembre 1874, dopo anni di presidenza, datò un brevissimo messaggio ai “bravi Veterani delle patrie battaglie” pubblicato dalla “Gazzetta del Popolo” di Torino, diretta da Giambattista Bottero, uno degli artefici principali della coscienza degli italiani: “Una grande sventura domestica mi costringe a separarmi da Voi, cari miei antichi commilitoni. Amatemi pel bene che ho cercato di farvi, e qualche volta pensate al già Vostro presidente”. Solo anni dopo, annota Liviero, si scoprì che Galateri sapeva di essere inguaribilmente  malato. Quando ne fu consapevole, si congedò dal “servizio. Morì due anni dopo, nella solitudine in cui preferì avvolgersi. Rimane tra i protagonisti meno noti e nondimeno fattivi negli anni decisivi per l'Italia. Il suo burbero “auto-ritratto” merita attenzione. Già presidente della Commissione per la Medaglia commemorativa dei Veterani e autore di un opuscolo nel quale propose un premio “a quel bass'ufficiale o soldato dell'esercito italiano che nelle prossime battaglie dell'indipendenza nazionale sarà fregiato per il primo della Medaglia d'Oro al valor militare”, acclamato presidente, Galateri finì per rinunciare alla carica. Come annota Liviero, non volle trasformare i comitati dei Veterani in una delle molte Società di mutuo soccorso, a differenza di quanto fecero i garibaldini. Il 25 agosto 1874 lasciò la presidenza con un messaggio crudo: “A scanso di equivoci, vi prevengo, bravi e cari Commilitoni, che rinunzio alla Presidenza del Comizio testé formatosi in una riunione-banchetto di 29 persone, e che pretende per ciò di rappresentarci tutti noi, con un indirizzo ben diverso da quello da noi lealmente perseguito pendente 12 anni”.

   Per comprenderne il carattere va ricordato che Pietro Galateri era il primogenito di Annnibale, conte di Genola e Suniglia (Savigliano, 1761-1840), solitamente ricordato per la dura repressione dei mazziniani ad Alessandria nel 1831 e per il trattamento spietato riservato ad Andrea Vochieri e non sempre come Cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del Re”. Aveva un passato complesso. Dal Piemonte, dopo la fallita offensiva austro-russa e la sua annessione alla Francia, nel 1800 si trasferì in Russia e vi conobbe l'avvenente moglie di un tenente degli ussari, Anna Ivanvna Cerneeva, di piccola nobiltà e più giovane di quindici anni. Dalla loro relazione nel 1801 nacque Giuseppe, che prese nome di Suniglia. Nel 1806 Annibale sposò Anna, rimasta vedova, con rito sia cattolico sia ortodosso. Dopo il matrimonio, che permise la legittimazione di Giuseppe, nacque Pietro. Entrato nella carriera militare nel 1827, questi ne uscì una prima volta nel 1857 con il grado di maggiore, dopo aver combattuto nella guerra di Crimea. Il 10 maggio 1859 prese servizio nell'esercito della Toscana con il grado di luogotenente colonnello. Raggiunse quello di colonnello alla fusione del toscano nell'esercito italiano. Nel 1861 fu assegnato al comando della Piazza di Teramo, ove si condusse con rigore nei confronti degli anti-unitari e dei “briganti”. Richiamato a Torino nel luglio 1861, lasciò definitivamente il servizio dopo 34 anni, due mesi e due giorni. Fece ricorso contro le mancate promozioni e perse la causa, ma il suo entusiasmo per i Commilitoni non venne mai meno. Nel 1862 pubblicò un libretto “Briganti- Partiti e Vittime. Ossia di chi è la colpa?” (Savigliano, tipografia Racca e Bressa). Una rarità assoluta, di cui si è valso Liviero nella sua ricca opera.

   La nascita della Guardia d'Onore compì uno dei “miracoli” scaturiti dall'emozione suscitata dall’improvvisa morte di Vittorio Emanuele II: l'unificazione tra diverse correnti di patrioti che si erano battute, nelle file degli eserciti pre-unitari e nella vita civile, per la Nuova Italia. La vita “politica”, nondimeno, come abbiamo veduto rimase agitata. Il 6 marzo Francesco Crispi si dimise per l'accusa di bigamia, lanciata da alcuni giornali. Fondata? Infondata? Per difendersi non gli rimase che lasciare la carica. Con lui cadde il governo e alla presidenza salì Cairoli, che però durò solo nove mesi. Dopodiché fu di nuovo la volta di Depretis.

   La Sinistra, un caleidoscopio non sempre dotata di senso dello Stato, non aveva affatto garantito la stabilità di governo auspicata da Vittorio Emanuele II nel marzo 1876. Per buona sorte dell'Italia i governi passavano, i re rimanevano. Ma la strada della Nuova Italia rimase in salita.

lunedì 16 settembre 2024

Saggi Storici sulla sulla Tradizione Monarchica - VIII

 


3) LA FINE DEL MEDIO EVO.

Dopo la morte di Corradino restarono sospesi per molto tempo i legami fra l'Italia e l'impero e cessata ogni possibilità di unione fra questo e regno di Sicilia, i due stati divennero naturalmente antagonisti. Le lotte interne delle altre regioni italiane favorivano in­tanto la sottomissione dei comuni minori ai maggiori e l'accentra­mento del potere nelle mani dei signori più potenti che diede origine alla formazione delle signorie.

In alta Italia, sempre maggiore Importanza veniva assumendo lo stato sabaudo, che sotto sovrani illustri come Umberto       beato, (*) (1129-1189) Tommaso I (1178-1233) e Amedeo IV (1197-1253) ave­va avuto parte non indifferente nelle lotte politiche acquistando nuo­ve città come Pinerolo e Cuneo. In Lombardia cresceva la potenza di Milano, presto dominata dai Torriani mentre a Verona si consolida­va la signoria degli Scaligeri, più a sud la famiglia degli Estensi con Obizzo II acquistava la signoria ereditaria e perpetua di Ferrara, Modena e Reggio. A Venezia crebbe il potere della nobiltà di fronte al Doge, concretandosi con   l'istituzione del Maggior Consiglio (1172) e di altri organi collegiali: i Pregadi, la Quarantia e il Senato e in seguito al tentativo rivoluzionario di Baiamonte Tiepolo, il Consiglio dei dieci, incaricato della sicurezza dello stato e dell'inquisizione politica.

Firenze fu in quell'epoca insanguinata e divisa dalle lotte fra guelfi e ghibellini, poi fra guelfi bianchi e guelfi neri, sempre seguite da vendette e proscrizioni e tutte le città principali parteciparono a tali lotte fra le due fazioni, mentre Carlo d'Angiò assumeva il ruolo di capo della fazione guelfa in Italia contro i ghibellini fautori dell'Impero governato da Rodolfo d'Asburgo. (1273)

Le lotte italiane continuarono acerbe nonostante l'intervento pacificatore dei Papi, alcuni dei quali furono favorevoli ed altri contrari a Carlo d'Angiò, finché una rivolta scoppiata in Sicilia contro gli Angioini non provocarono la scissione del suo regno perché un parlamento siciliano proclamò re dell'isola Pietro Re d’Aragona, genero di Manfredi; ne nacque un’aspra guerra tra Angioni e Aragonesi che fu combattuta soprattutto per mare e che terminò con la pace di Caltabellotta conclusa fra Carlo II figlio di Carlo D’Angiò e Federico figlio di Pietro III, la quale la Sicilia sarebbe restata a Federico fino alla sua morte dopo di che sarebbe tornata agli Angioini che mantenevano i territori continentali. (1302)

Si verificò in quel tempo, l'importantissimo evento storico conosciuto con il nome di cattività avignonese, cioè lo spostamento della residenza dei Papi da Roma ad Avignone, città della Francia meridionale già appartenente agli Angioni e da questi poi venduta al Patrimonio di San Pietro; questo periodo durato dal 1309 al 1376 fu considerato in Italia di schiavitù per il Papato tenuto prigioniero dai re di Francia, ma in realtà fu non differente da altri periodi, anche se l'influenza francese si fece sentire spesso specie per l'elezione dei cardinali e del pontefice. L'assenza del papa dall'Italia provocò però uno stato pietoso di abbandono in Roma, ridotta a poche migliaia di abitanti e nocque a tutto l'equilibrio politico della penisola. Roma abbandonata e ribelle ai rappresentanti pontifici, si eresse a comune e in essa dominò per qualche tempo il tribuno Cola di Rienzo, vittima poi delle sue stesse follie e crudeltà che ne provocarono la caduta e la morte a furore di popolo.

L'Impero in questo periodo fu praticamente assente e quando l'imperatore Enrico VII di Lussemburgo scese in Italia per prendere la corona imperiale e sedare in qualche modo le lotte delle fazioni, trovò l'ostilità dei Torrigiani a Milano che furono cacciati e sostituiti dal vicario imperiale Matteo Visconti, di Firenze e del re Roberto di Napoli. L'imperatore, in cui il grande. Dante Alighieri cacciato da Firenze dall'avversa fazione dei guelfi neri tanto sperava per un riordinamento della situazione italiana, si accinse a marciare contro gli Angioini ma morì a Buonconvento presso Siena il 24 agosto 1313, lasciando l'Italia nell'anarchia. Il suo successore Ludovico il Bavaro si pose in contrasto con il papa Giovanni XXII e aggravò le condizioni d'Italia con la sua discesa e con la nomina di un antipapa, da lui chiamato Nicolò V.

Un qualche ordine venne ristabilito con l'incoronazione dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, eletto dai principi tedeschi ostili a Ludovico ed alla morte di questo riconosciuto da tutti, ma la sua influenza in Italia fu passeggera poché rimanendo in, pieno accordo con il Papa egli ben poco si occupò delle cose d'Italia, tutto rivolto ai problemi d'oltralpe.     

Nel 1337 venne a morte Federico re di Sicilia ma contrariamente ai patti di Caltabellotta lasciò il regno in eredità al figlio Pietro II a cui successe poi il fratello Luigi; a Napoli invece alla morte di Roberto nel 1343, salì al trono la nipote Giovanna I il cui regno fu funestato dalle guerre fra i partigiani suoi e del marito Principe Andrea d'Ungheria; alla morte di questo la regina fu anzi accusata di assassinio e Re Luigi I d'Ungheria fratello di Andrea la costrinse alla fuga in Francia, con il secondo marito Luigi di Taranto, e prese possesso del regno di Napoli lasciandovi un luogotenente. Successivamente si venne ad un accordo e fu incoronato Re, Luigi di Taranto che regnò insieme alla moglie (1352) e questo permise ai sovrani napoletani d'intervenire nelle vicende siciliane per tentare di riconquistare l'isola, riuscendovi in parte, ma la guerra che ne nacque terminò nel 1372 con il riconoscimento di Federico III d'Aragona a Re di Sicilia, sia pure come vassallo di Napoli e del Papa.

Il fallimento della politica egemonica degli angioini favorì la costituzione e il rassodamento delle signorie italiane; in Lombardia la signoria dei potenti Visconti aveva sostituito i Torrigiani, i della Scala si erano rafforzati a Verona e a Mantova si erano insediati i Gonzaga.

Altre signorie erano quelle dei Carrara a Padova, dei Pepoli a Bologna, dei Manfredi a Faenza, degli Oderlaffi a Forlì, dei da Polenta a Ravenna, dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro ad Urbino. A repubblica continuavano a reggersi solo Genova, Venezia, Lucca e Pisa, sia pure queste ultime spesso insidiate da Firenze, dove dopo violente lotte fra popolo minuto e popolo grasso, cioè borghesia, con un periodo signorile del condottiero francese Gualtiero di Brienne, detto il Duca d'Atene, cominciava a sorgere la potenza dei grossi banchieri.

Agitata la vita dello stato pontificio dove il potere dei comuni si alternava a quello delle grandi famiglie della campagna romana, rese più forti dall'assenza del papato, relegato ad Avignone.

Tale stato di cose provocò la formazione delle Compagnie di ventura, cioè di milizie mercenarie che al servizio dei signori combattevano per loro; dapprima comandate e composte prevalentemente da stranieri, furono poi guidate anche da condottieri italiani, fra cui celebri restarono Bartolomeo Colleoni, Erasmo Gattamelata e il Conte di Carmagnola. La loro presenza rappresentò però uno dei periodi più tristi della nostra storia nazionale perché segno di una deplorevole decadenza politica e morale.

 

(*) Umberto III fu il primo dei principi di Casa Savoia fra quelli elevati agli onori degli altari; egli apre una serie di beati e di venerabili a cui appar­tengono: il B. Bonifacio di Savoia Arcivescovo di Canterbury, il B. Amedeo IX duca di Savoia, la B. Margherita di Savoia Acaia vedova del Marchese di Monferrato e suora domenicana, la B. Ludovica di Savoia figlia del B. Amedeo e suora francescana; sono inoltre morte in concetto di santità, le venerabili Maria Clotilde regina di Sardegna e moglie di Re Carlo Emanuele IV, Maria Cristina figlia di Vittorio Emanuele I e moglie di Ferdinando II re di Napoli, Francesca Caterina e Maria figlie di Carlo Emanuele I e Maria Clotilde figlia di Vittorio Emanuele II comunemente detta « la Santa di Moncalieri ».

sabato 14 settembre 2024

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

 

Gli italiani salutano il Re al loro arrivo a Palma di Maiorca


Sul sito dedicato  a Re Umberto II, nel 120° anniversario della nascita, la terza parte dell'articolo in occasione dell'incontro con gli Italiani a bordo della Motonave Ascania nel porto di Palma di Maiorca.

www.reumberto.it




martedì 10 settembre 2024



CUNEO CRONACA - Il 15 settembre 1904 nasceva al Castello Reale di Racconigi il principe ereditario Umberto, ultimo re d'Italia. In occasione dei 120 anni dal lieto evento, l'Ufficio Turistico di Racconigi propone domenica 15 settembre, alle 15:45, una visita alla residenza che sarà arricchita da alcune curiosità riguardanti l'infanzia del giovane Principe di Piemonte a Racconigi e del suo legame con la città mantenutosi anche dal lontano esilio.

[...]
Racconigi si racconta a 120 anni dalla nascita di Umberto II, ultimo re d'Italia- Cuneocronaca.it

lunedì 9 settembre 2024

FARE LO STATO: VITTORIO EMANUELE II (1861-1878)

 


di Aldo A. Mola

 

Il Re e i suoi ministri: Cavour, Casati, Rattazzi...

La storiografia è stata ingenerosa nei confronti di Vittorio Emanuele II. È comprensibile. Il primo Re d’Italia si attirò l’odio inestinguibile dei laudatores degli Stati preunitari, soprattutto i borbonici, dei papisti, dei tardofederalisti, dei veteromazziniani, dei proto e postsocialisti e poi di quanti, passeggiando nei corridoi di biblioteche e di chiostri, spiegarono che, loro sì, avrebbero fatto l’Italia meglio di quanto seppero farla “Monsù Savoia” e i suoi generali e ministri, rudi e buzzurri.

   Si dimentica o viene lasciato sotto traccia che per unire l'Italia Vittorio Emanuele II gettò tutto sul tavolo della storia. Il colloquio di Plombières tra Cavour e Napoleone III il 20-21 luglio 1858 fu importante, ma va ricordato che esso prese corpo solo con la firma del trattato di alleanza tra regno di Sardegna e impero di Francia sottoscritto a Torino il 26 gennaio 1859 dal principe Gerolamo Napoleone, suggellato dalle nozze tra l'ultimogenita del Re, Clotilde, e il napoleonico “Plon-Plon”. Va aggiunto che sin dalla genesi dell'alleanza il Re accettò di cedere alla Francia non solo la contea di Nizza ma anche la sua originaria Savoia: un sacrificio che non era solo di chilometri quadrati ma nelle scelte di quanti dovettero optare tra nuova cittadinanza e memoria di secoli di storia.

    Riconoscere la centralità del Re non comporta alcuna sottovalutazione del ruolo svolto da Cavour, che rimase il suo punto di riferimento. Significa però constatare che Re Vittorio fu sempre il garante personale della continuità dello Stato in un’epoca nella quale era normale che i ministri cambiassero mentre le decisioni supreme spettavano a imperatori e re. Fu Vittorio Emanuele, non Cavour, a capire che il regno di Sardegna non poteva continuare da solo la guerra contro l’Austria e a sottoscrivere “per quello che lo riguardava” l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) deciso da Napoleone III e Francesco Giuseppe. Con quella adesione non tradì la causa, l’unificazione italiana, che non rientrava negli obiettivi immediati di nessuno dei suoi ministri, a cominciare da Cavour, ma ne consolidò le premesse, conscio che il Regno di Sardegna doveva muoversi negli spazi via via permessi dal concerto europeo. Ogni spostamento di confini esigeva il consenso delle potenze e non doveva generare “rivoluzioni”.

   Nel piccolo e ancora informe regno sardo-lombardo il governo La Marmora-Rattazzi in pochi mesi varò leggi poi estese a quello d’Italia e rimaste in vigore per molti decenni, come la riforma della scuola di Gabrio Casati e quella di comuni e province dovuta a Urbano Rattazzi. Il Re fu il cardine della politica estera imperniata su rapporti personali. Non esitò a valersi anche di reti cospirative. I commissari e i dittatori nei ducati padani e nel granducato di Toscana godevano della fiducia del sovrano. “Italia e Vittorio Emanuele” era l’insegna della Società Nazionale di Daniele Manin, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giuseppe La Farina e soprattutto di Giuseppe Garibaldi, che, generale dal 1859, sbarcato in Sicilia, a Salemi si proclamò dittatore in suo nome.

 

Perché “II”?

Vittorio Emanuele deluse Francesco Crispi e i tanti che alla proclamazione del regno volevano che mutasse l’ordinale Secondo in Primo perché Re della Nuova Italia. Avevano le loro ragioni. Il cambio comportava una cesura. Avrebbe conferito al Parlamento un ruolo costituente, almeno per evidenziare un “prima” e un “poi”. Voleva anche far intendere che il Re non aveva fatto tutto da solo. Ma anche la continuità aveva i suoi fautori, e prevalse. La legge istitutiva del regno fu un capolavoro di equilibrismo: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia» (14 marzo 1861). Il sovrano divenne Re del Paese che possedeva e rimase tale «per grazia di Dio», a norma dello Statuto, legge «fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia». Per la legge 17 aprile 1861 Vittorio Emanuele II firmò leggi e decreti come «Re per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia». L'evocazione della nazione fu l'atteso riconoscimento del concorso dei “popoli d'Italia” alla realizzazione dell'impresa che fino alla sua vigilia sembrava impossibile. Per la prima volta nella storia, inclusa quella “augustea” che non comprese le tre grandi isole, l'Italia era uno Stato unitario, indipendente, sovrano. Riconosciuta anche dall'Impero austro-ungarico, suo nemico storico, nella conferenza diplomatica di Londra (1867) essa sedette a pieno titolo nella Comunità internazionale.

   Per ascendere a Re d’Italia Vittorio Emanuele debellò sovrani e annesse terre dello Stato pontificio: le Legazioni dell’Emilia Romagna prima, Marche e Umbria poi (“fate, ma fate in fretta” suggerì Napoleone III agli emissari di Re Vittorio, che lo informarono dell'imminente invasione). Il conflitto però non rimase circoscritto alla sfera del potere temporale. Investì il primato della chiesa nella vita pubblica. Da scontro con il papa-re divenne contesa con il Pontefice. Vittorio Emanuele II era e fu sempre figlio devoto della chiesa, ma non poté impedire che il governo imboccasse la strada della secolarizzazione della società. Sin dalle leggi Siccardi il sovrano entrò in conflitto con Pio IX, che rispose con le armi in suo possesso: non esitò a scomunicare il re, i suoi ministri e l'intera dirigenza statuale.

   Malgrado l'interdetto pontificio, il Re ora assecondò ora non ostacolò l’azione di quanti mirarono a risolvere la questione romana in maniera sbrigativa: lasciando briglia sciolta, almeno in primo tempo e troppo a lungo, a iniziative militari. Fu il caso dei governi presieduti da Urbano Rattazzi nel 1862 e nel 1867. In entrambi i casi Garibaldi organizzò spedizioni militari nella convinzione di avere il tacito avallo del sovrano e l'assenso del governo. Nel 1862 dallo sbarco a Palermo al suo passaggio in Calabria trascorsero settimane, durante le quali il generale proclamò in tutti i modi il suo proposito: «Roma o morte.» Moltiplicò logge massoniche per iniziarvi i suoi seguaci. Il drammatico scontro sull’Aspromonte nacque dall’ambiguità e dall’illusione di porre ancora una volta l’Europa dinnanzi al “fatto compiuto”. Altrettanto avvenne nel 1867, con il tragico epilogo di Mentana. Entrambe le volte il governo dovette procedere all’arresto del generale rischiando di compromettere l’immagine di Vittorio Emanuele II sia dinnanzi ai democratici, sia agli occhi dei governi esteri, indotti a considerare l’Italia causa permanente di crisi anziché garanzia di stabilità: l’opposto di quanto ci si era attesi dal riconoscimento del regno. All'indomani della sconfitta di Napoleone III a Sedan da parte dei prussiani di Bismarck (2 settembre 1870) il governo Lanza-Sella ordinò l’assalto e l’espugnazione di Roma proprio per scongiurare il peggio: un’insorgenza di garibaldini o, peggio, di mazziniani, che avrebbe causato l’intervento militare internazionale come nel 1849. Anziché coronamento dell’unità Roma rischiava di fare da detonatore di un ventennio di contraddizioni. Perciò il governo s’affrettò a farvi celebrare il plebiscito che ne avallò l’annessione alla corona sabauda.

   Da quel momento Vittorio Emanuele II si trovò più alto e più solo.

 

Le aperture “a sinistra” e il ricordo di Isacco Artom

Il crollo di Napoleone III e l’avvento della Terza Repubblica francese generò nuove ansie. L’Italia aveva bisogno di sicurezza sul debolissimo confine con l’Impero d’Austria. La Triplice alleanza difensiva con Berlino e Vienna fu stipulata nel 1882, un anno dopo l’imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. Essa era però “
in nuce” sin dal 1870, quando la proclamazione della Terza repubblica Oltralpe alimentò le speranze al di qua e in tanti ripresero a cospirare contro la monarchia. Ancora una volta il Re mise in gioco la Casa. Il secondogenito, Amedeo duca d’Aosta, già preconizzato Re di Grecia, accettò la corona di Spagna a conclusione di una complessa trama condotta in porto anche grazie alle relazioni segrete dirette tra il sovrano e politici eminenti quali il generale Prim, àuspici alti dignitari massonici. Il regno di “don Amadeo Primero” durò poco più di un anno. Fu però sufficiente a mostrare che i Savoia si accollavano responsabilità per la conservazione della pace europea. Maria Pia, una delle figlie di Vittorio Emanuele II, era regina del Portogallo. Nel 1873-75 Vittorio Emanuele II compì visite di Stato a Vienna e a Berlino e ne venne ricambiato.

   Morto Giuseppe Mazzini (1872), la Sinistra storica si separò nettamente dai repubblicani, le cui speranze di riscossa si affidavano a crisi interne gravissime che nessun patriota si augurava. Dal 1867 autorevoli esponenti della Sinistra, come Agostino Depretis e Michele Coppino, entrambi massoni, avevano fatto parte del governo. Con l’avanzata nelle elezioni del 1874 la Sinistra risultò candidata a guidare il Paese. Le guerre per l’unità e l’indipendenza erano definitivamente alle spalle. Mai dimentico di Trento e di Trieste, anche Garibaldi, l’antico condottiero della Rivoluzione, dedicava le residue energie a trasformare Roma in città moderna: argini del Tevere, un porto commerciale, un’ampia area industrializzata... Nel 1875 andò in visita al Re, che lo accolse al Quirinale avendo a fianco il generale Giacomo Medici, l’eroe del Vascello.

   Alla caduta del governo Minghetti-Visconti Venosta (18 marzo 1876) Vittorio Emanuele non esitò a conferire la presidenza del consiglio a Depretis. Lo storico Walter Maturi ha scritto che quello fu il suo “ultimo grande atto politico”. Il Re provò che il Risorgimento era compiuto e la Nuova Italia era unita attorno alla Corona, per la realizzazione della “missione” che Quintino Lanza aveva enunciato dall'annessione di Roma: il trionfo della Scienza. Nel 1877 la Sinistra riorganizzò le proprie file: fissò i termini entro i quali dovevano contenersi le tenzoni parlamentari. Le possibili crisi di governo non avrebbero più investito le istituzioni.

   Il ricordo più commosso e penetrante del “padre della patria” venne confidato da Isacco Artom, antico segretario di Camillo Cavour, al massone Beniamino Manzone, un professore originario di Bra, nel Cuneese, chiamato a Roma nel 1895 per fondare e dirigere una rivista storica del Risorgimento italiano nell’imminenza del quarto di secolo da Porta Pia. Il Venti Settembre 1895 vennero scoperti al Gianicolo il monumento di Giuseppe Garibaldi a cavallo e in piazza Cavour quello dello statista torinese. Artom ricordò a Manzone che le relazioni tra Re Vittorio e Cavour “pur troppo” non sempre erano state cordiali, ma il Re non esitò mai a fare il primo passo per riconciliarsi, anche al prezzo delle “sue simpatie personali”. Aveva quell’alto senso dello Stato che troppo a lungo la storiografia ha sottaciuto. «La morte del Conte troncò pur troppo prematuramente quella provvidenziale collaborazione d’un grande Sovrano e d’un grande uomo di Stato, spettacolo così raro nella storia delle nazioni […]. Morto Cavour, Re Vittorio rimase la sola incarnazione dell’unità italiana. È giusto proclamarlo altamente […] Egli non esitò mai a compiere arditamente la sua grande missione storica. Ricordo un’udienza che egli mi accordò al mio ritorno dalla Danimarca, dove ero stato suo inviato. Era l’epoca infelicissima seguita a Mentana. Mi accolse con grande affabilità. Nel cuor dell’estate, dall’aperta camicia, si scorgeva il suo fulvo petto leonino. Mi strinse con forza la mano e mi congedò dicendomi: Non dubitate, fra breve saremo a Roma!

   Mantenne la parola e suo figlio Umberto I proclamò Roma “conquista intangibile”.

 

Per cementare l'unità nazionale: le “nobilitazioni”

Per cementare l'unità nazionale il Re si valse dell'opera del “suo” governo e delle Camere, che per statuto compartecipavano alla legiferazione. In pochi anni i governi presieduti da Agostino Depretis, Benedetto Cairoli e Francesco Crispi compirono miracoli. Ancora vivente Re Vittorio, Michele Coppino ottenne la scuola obbligatoria e gratuita. Il suo successore all'Istruzione, Francesco De Sanctis, impose l'edificazione di scuole e palestre e l'educazione fisica femminile. Le condizioni degli insegnanti, come di tutti i pubblici impiegati, vennero migliorate. La rete ferroviaria ebbe nuovo impulso. Dopo la devastante epidemia di colera (1867) furono gettate le basi della prima legge sanitaria del regno voluta da Crispi e da Luigi Pagliani, nativo di Genola (Cuneo), che istituì i medici e i veterinari condotti.

   Re Vittorio colse il desiderio profondo di “riconoscimento” dei cittadini che si mobilitavano a sostegno dello Stato Nuovo. Riordinò pertanto gli ordini cavallereschi: quello della Corona d'Italia, meramente civile, suddiviso in cinque classi (cavaliere, cavaliere ufficiale, commendatore, grand'ufficiale, gran croce), quello Militare e quello religioso-cavalleresco della Casa, l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, con identico impianto. Tutto era stato previsto dal Re Magnanimo. Lo Statuto albertino sancì «Il Re può creare altri ordini e prescriverne gli statuti» e conferire altresì «nuovi titoli di nobiltà» (artt. 78-79). Poiché la Nuova Italia non riconobbe le onorificenze attribuite  dai sovrani preunitari, le nuove “ordinazioni” si susseguirono a ritmo serrato a beneficio di magistrati, ufficiali, sindaci, presidenti di consigli provinciali, notabili, imprenditori di successo, segnalati dalla catena ministeri-prefetti.

   Particolarmente sollecito fu l'adeguamento del Regio Senato ad assemblea propriamente nazionale. Dal febbraio 1860 si susseguirono imponenti “infornate” di nuovi patres che, a giudizio unanime, immisero nella Camera Alta gli esponenti più autorevoli del patriottismo degli Stati preunitari. Tra i Lombardi ed emiliani figurarono Giorgio Pallavicino Trivulzio e Manfredo Fanti. Fra i toscani spiccarono Gino Capponi, Raffaello Lambruschini, Cosimo Ridolfi. L'arabista Michele Amari aprì l'infornata di 56 senatori dell'Italia meridionale, seguito da Ruggero Settimo e Benedetto Paternò Castello di San Giuliano. Altrettanto avvenne con l'annessione del Veneto e di Roma. Nominati senatori Giuseppe Verdi, Aleardo Aleardi, artisti e scienziati, Re Vittorio conferì il laticlavio ad antichi cospiratori del 1821, come Giambattista Michelini, al garibaldino Vincenzo Sprovieri e al poeta Giovanni Prati.

   Ma vi fu un terreno sul quale Re Vittorio si mosse con libertà di scelta e singolare lungimiranza: il conferimento dei Collari di Cavalieri della Santissima Annunziata (classe unica), comportante il rango di “cugino del re”. Mentre Carlo Alberto ne aveva insignito esclusivamente cattolici, il 13 luglio 1849 suo figlio conferì il primo Collare a Luigi Napoleone Bonaparte, il presidente della Repubblica francese, che, carbonaro e cospiratore da giovane, aveva appena annientato la Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini, Armellini e Saffi, difesa dall'indomito Garibaldi. Ne fregiò poi i Re di Spagna e Portogallo, principi luterani, Gerolamo Bonaparte, già Re di Westfalia e massone, e vari granduchi di Russia, ortodossi. Tra i regnicoli spiccarono Cavour e il fedelissimo Salvatore Pes di Villamarina. La vera svolta giunse il 24 settembre 1861, quando, da poco proclamato Re d'Italia, conferì il Collare all'imperatore di Turchia, cui seguirono lo scià di Persia e il bey di Tunisi, sino al kedivé d'Egitto, Ismail Pacha: tutti islamici. Il riferimento al culto della Santissima Annunziata cedette il passo alla valenza politica del rango di “cugino del re”. Il sovrano era lo Stato. Da Roma, come già il papa, anche il Re guardò al mondo. L'Italia aveva interessi prioritari: il Mediterraneo centro-orientale, la rotta da Suez alle Indie e oltre, il Medio Oriente… Dopo un anno di regno, Umberto I allargò il compasso. Creò “cugino” Motsu-Hito, imperatore del Giappone. L'Italia stava fronteggiando il rilancio della sericoltura dopo anni disastrosi. Ancora priva di colonie e di “basi”, a differenza degli altri Stati europei, inclusi i Paesi Bassi, aveva urgenza di ottenere protezione per le proprie navi. Nata da poco, quell'Italia giù guardava lontano.

Aldo A. Mola

 

 

La salma del Re. Al Pantheon o al Campidoglio?

Il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II morì dopo breve malattia polmonare. Aldo G. Ricci ha ricostruito fedelmente la missione svolta da don Valerio Anzino per amministrargli il viatico della buona morte, malgrado gli intralci frapposti da alcuni ecclesiastici rigoristi e interferenze dell'archiatra di corte. Nessuno era pronto al drammatico evento. Il Re si congedò dal figlio commettendogli il “brut fardèl” della Corona. Iniziò una breve, serrata disputa sulla destinazione della salma. Quando il 15 gennaio si seppe che il governo intendeva collocarla al Pantheon, come documenta Alessandro Liviero nell'imponente “Le origini della Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (BastogiLibri, 2024), dal Piemonte i fautori di Superga levarono proteste sdegnate.

   Altri, sempre da Torino, respinsero duramente la scelta. La “Gazzetta del Popolo”, diretta da Giovanni Battista Bottero, scrisse che il Panteon (sic!) è il tempio eretto agli dei dell'Olimpo da un generale predatore (Menenio Agrippa) favorito di Augusto e «sequestrato a favore della vergine dal governo dei papi»: un luogo umido, esposto alle esondazioni del Tevere, ristretto e inadatto a manifestazioni solenni. Se proprio Roma doveva conservare le spoglie del Gran Re, meglio allora il Campidoglio e se non si poteva toccare la piazza michelangiolesca, a peggio andare bisognava ripiegare sull'Ara Coeli, una “nuova Superga” per i Re d'Italia. L'autore non aggiunse che quel tempio era in dotazione dei francescani, l'ordine di fra' Giacomo da Poirino che, avendo assistito Camillo Cavour morente, era stato chiamato a rapporto da Pio IX e duramente sanzionato.

   “Fare l'Italia” era un'impresa ancora ardua. Ma le manifestazioni di cordoglio per la morte del Re Galantuomo provarono che lo Stato era sulla buona strada.


 



mercoledì 4 settembre 2024

Le origini della Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon


“GUARDIA D'ONORE” A TORRE SAN GIORGIO (CN)

Alle h.21 di mercoledì 25 settembre nella Pinacoteca Sismonda - Casa Bonino di Torre San Giorgio (attigua alla Parrocchiale) Alessandro Liviero presenta “Le origini della Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon, 1859-1878” (ed. Roma, BastogiLibri, pp. 590), primo panorama esauriente dell'associazionismo dei veterani delle patrie battaglie, dal quale nacque l'Istituto Nazionale per la Guardia d'Onore alle Reali Tombe del Pantheon. Il pregevole volume, ampiamente illustrato, raccoglie migliaia di documenti: un mondo sconosciuto di passioni civili e di orgoglio di poteva dire: “io c'ero”. Con Liviero (Aosta, 1957), ricercatore di storia, già autore di numerose opere, intervengono Aldo A. Mola, prefatore, e gli storici  Giovanni Rabbia e Alessandro Mella, studiosi del Risorgimento italiano.

L'evento è organizzato dalla Associazione Libertas di Torre S. Giorgio, presieduta da Branca Lore Muller, con adesione di Associazione di studi storici Giovanni Giolitti, Consulta dei Senatori del Regno, Centro Studi Piemontesi e altri sodalizi.

Al centro dell'Opera vi sono anzitutto luoghi e uomini del Vecchio Piemonte, che accolse e valorizzò patrioti da tutti gli Stati pre-unitari e generò l'unità nazionale all'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. 

Segue rinfresco.     




 

martedì 3 settembre 2024

VITTORIO EMANUELE II IL GRANDE RE




                                          

                                          

di Aldo A Mola

 

Il “mestiere” del Re

   Nel 150° della proclamazione del Regno d'Italia (2011) celebrazioni, convegni e narrazioni si concentrarono su Mazzini, Garibaldi e Cavour. Vittorio Emanuele II rimase in seconda fila. In molte regioni e all'estero non se ne parlò quasi o per nulla. Eppure l'unificazione nazionale nacque grazie a lui. Per un giudizio obiettivo, il Re Galantuomo, come anche fu detto, va collocato in una visione panoramica nella sua epoca. Nel centenario dell'annessione di Fiume (1924), che coronò il secolare cammino del Risorgimento, è doveroso riflettere sul ruolo svolto dalla Monarchia Sabauda nell’avvento dell'Unità e dell’indipendenza dell'Italia: due “carte di credito” concesse alla sua persona dal “concerto delle grandi potenze”. Dopo complesse vicende e l'ipotesi di un congresso internazionale per deciderne le sorti, Gran Bretagna e Francia, all'epoca egemoni, imboccarono la scorciatoia: lasciare che gl’italiani decidessero da sé, a patto però che il rappresentante della dinastia più antica del continente se ne facesse garante. Era un Re costituzionale. Vittorio Emanuele II gettò sulla bilancia della storia la Corona, il governo e il parlamento bicamerale che lo sosteneva. Non era solo. Aveva alle spalle una dirigenza vastissima e sperimentata che operava in nome della nazione italiana. Il nuovo Stato non doveva essere succubo di potenze estere né esposto alla possibile vendetta dell'impero d'Austria, escluso dal dominio diretto e dall'influenza esercitata sull'Italia dal 1715, a parte la breve parentesi di Napoleone I.

   Per comprendere come le grandi potenze finirono per accettare l’avvento della Nuova Italia bisogna riflettere sul percorso seguito da Casa Savoia dalla Restaurazione del 1814 al 1859-1860, gli anni decisivi. Ma anzitutto occorre interrogarsi sulla peculiarità del “Re”, una persona “predestinata” dalla nascita, anzi dalle nozze dei genitori, frutto di strategie matrimoniali perfezionate nei secoli. Sin da bambino il sovrano viene educato al “mestiere di Ee”. E' tale in ogni momento. La sua giornata può essere piena di noia o di stravaganze, di esercizi fisici, studio, impegni di corte o personali. È sempre quella di chi detiene la somma dei poteri per diritto ereditario e li trasmette al successore. Tra le sue peculiarità vi è che non spetta a lui stabilire chi ne assumerà la corona. L’erede gli è assegnato dalle leggi della Casa: un figlio o il maschio prossimo in grado, a sua volta formato per “fare il Re”, una “missione” assegnata dalla Storia.

   Nei centocinquant’anni dalla proclamazione del Regno, l’Italia ha vissuto tante prove, anche dure, difficili, amare. La sua unità ha retto. Oggi è propugnata anche da antichi avversari del suo avvento, come la Conferenza episcopale italiana. Ha subìto e subisce critiche, anche severe e talvolta ingenerose, ma nessuno Stato oggi ne mette in discussione la sovranità. L’Italia dunque c’è. I suoi confini politici non coincidono con quelli geografici. Ma questo vale per tutti i paesi del mondo, a cominciare da quelli d’Europa, che non furono disegnati col righello su spazi indefiniti ma sono frutto di processi politici e militari millenari. La Repubblica italiana odierna non ha più il limes raggiunto nel 1924, ma neppure quell’acquisizione compensò le mutilazioni del 1860, quando il regno di Sardegna cedette Nizza alla Francia. Al di là delle rettifiche di frontiera imposte dal trattato di pace del 10 febbraio 1947 la realtà è chiara: l’Italia è uno Stato unitario, indipendente e sovrano, come può esserlo nell'ambito della comunità internazionale, fatta di alleanze, trattati, vincoli, devoluzioni e dal riconoscimento di poteri sovranazionali, riconosciuti a vantaggio della sua sicurezza.

   Tutto ciò conferma la grandiosità dell’opera realizzata da o nel nome di Vittorio Emanuele II di Savoia, ultimo sovrano di Sardegna, primo capo di Stato della Nuova Italia. Com’è scritto sulla sua tomba al Pantheon, egli fu e rimane il “Padre della patria”. Quando venne pensata, quella formula sembrò timida. Non si volle scrivere “Re d’Italia” per non spargere sale sulle ferite di papa Pio IX, che non riconosceva la debellatio dello Stato pontificio attuata da Vittorio Emanuele II nel 1859-1870. A distanza di tempo, constatato quanto sia complesso tenere insieme il Paese, essa risulta più suggestiva e pregnante di ogni altra. Poco conta se e quanto Re Vittorio abbia prefigurato tutti i molteplici passaggi. Di certo si mise in campo di persona, mostrando coraggio e determinazione, e condivise la meta, che non fu un mero ingrandimento dei domini della Casa, ma rispose alle attese di varie generazioni di patrioti: dall’illuminismo di fine Settecento ai liberali costituzionali del 1820-1831, dalle sette segrete ai protagonisti della prima guerra per l'indipendenza.

   Vittorio Emanuele II ascese al trono il giorno della sconfitta a Novara (23 marzo 1849), quando sembrava che tutto fosse perduto. Suo padre, Carlo Alberto, battuto sul campo dagli austriaci, si riscattò con l’abdicazione e l’immediata partenza per l’estero. Padre e figlio non si videro più. Il sacrificio degli affetti personali è tra i prezzi della Corona. Il regno di Sardegna era isolato. Dieci anni dopo, però, nell’aprile 1859 re Vittorio  scese in guerra contro l’Impero d’Austria. Aveva a fianco l’Imperatore dei Francesi, Napoleone III, e prevalse. Mostrò che i piemontesi sapevano battersi. Due anni dopo, il 14 marzo 1861, il parlamento lo proclamò re d’Italia. Il 29 dicembre 1870, tre mesi dopo la “breccia di Porta Pia”, entrò in Roma. In due decenni la carta politica dell’Italia era cambiata completamente. Nel 1848 vi si contavano otto Stati. Nel 1870 ve n’era uno solo, quello d’Italia. Trento e Trieste continuavano ad appartenere alla corona d’Austria, ma non avevano il rango di regno, com’era stato il Lombardo-Veneto con Napoleone e lo stesso Impero asburgico.

 

La formazione del “Re guerriero”

Dalla nascita Vittorio Emanuele venne preconizzato Re di Sardegna. A Torino regnava Vittorio Emanuele I, settimo dei dodici figli di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonietta di Borbone (Casa di Spagna). Il primogenito, Carlo Emanuele IV dal 1802 era stato costretto a ridursi Re in Sardegna. Dedito a pratiche devozionali, abdicò a favore di Vittorio Emanuele che nel 1814, alla caduta di Napoleone I, fu restaurato sugli Stati di Terraferma, e ottenne l’intera Liguria. Da Maria Teresa d’Asburgo-Este, Vittorio Emanuele I ebbe cinque figlie e un maschio, morto nel 1799 a soli tre anni. In Casa Savoia valeva la legge salica, cioè la successione di maschio in maschio secondo le patenti emanate da Vittorio Amedeo III nel 1780-1782 regolanti le nozze dei principi del sangue, ottimamente illustrate da Andrea Borella nell'“Annuario della Nobiltà Italiana” (2015-2020). La Corona era dunque destinata a suo fratello minore, Carlo Felice. Nel marzo 1821 Vittorio Emanuele I abdicò per non concedere la costituzione vigente in Spagna, chiesta dai “liberali” (aristocratici, militari e autorevoli borghesi) e già introdotta nel regno delle Due Sicilie. In attesa che Carlo Felice rientrasse da Modena, ove era ospite del cognato, la reggenza fu assunta da Carlo Alberto (1798-1849), discendente da Tomaso di Savoia, principe di Carignano, figlio di Carlo Emanuele I, duca dal 1580 al 1630. Questi concesse la costituzione con la riserva dell'approvazione del Re e la conferma della libertà dei culti ammessi, contrariamente a quanto previsto dalla Carta spagnola, ma poi non condivise la “rivoluzione piemontese” capitanata da Santorre di Santarosa. Su ordine perentorio di Carlo Felice, il principe lasciò il Piemonte alla volta della Toscana il cui granduca era un Asburgo. Sposato con Maria Cristina di Borbone (ramo Due Sicilie), il nuovo Re di Sardegna non aveva eredi diretti. Il maschio prossimo era Carlo Alberto, suo parente di tredicesimo grado, il cui diritto al trono era stato in discussione nei primi tempi della Restaurazione non tanto perché i genitori avessero mostrato simpatie per la Francia rivoluzionaria e perché era stato conte dell'impero napoleonico, quanto perché il Regno di Sardegna faceva gola a tutti. Però la devoluzione della sua corona a Vienna avrebbe portato l'impero asburgico a confinare con la Francia: motivo scatenante di una nuova guerra per l'egemonia europea. L’impero russo, la Gran Bretagna, la Prussia e persino la piccola Svizzera per molti motivi non sarebbero stati a guardare, non tanto per mire dirette sui domini sabaudi ma per i danni derivanti dall’ingrandimento dell’una o dell’altra potenza continentale. Proprio i princìpi cardinali del Congresso di Vienna (1815), cioè il ripristino del legittimismo e l’equilibrio tra le potenze, spianarono la via al riconoscimento di Carlo Alberto quale principe ereditario.

   Dopo i fatti del Ventuno, Carlo Alberto rimase “sotto osservazione”. Carlo Felice fu scostante nei suoi confronti. Era però anche il modo più sicuro per tenere la Casa al riparo da interferenze esterne. La formazione dei figli di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e Ferdinando, divenne un affare di Stato. Il primo nacque a Torino il 14 marzo 1820, il secondo il 15 novembre 1822. Pochi mesi dopo la nascita del primogenito, la sorella di Carlo Alberto, Maria Elisabetta, andò sposa all’arciduca d’Austria, Ranieri d’Asburgo. La strategia matrimoniale procedeva su spazi vastissimi, in secolari, come ricorda il dovizioso “Album di famiglia. I Savoia e le Case Reali di Francia” curato da Gustavo Mola di Nomaglio (Centro Studi Piemontesi, 2023). 

   Rientrato dal lungo forzato soggiorno in Toscana (maggio 1824), Carlo Alberto affidò i figli a due savoiardi, la governante Nicoud e il sacerdote Andrea Charvaz, poi vescovo di Pinerolo e Cavaliere  della SS. Annunziata. Con la Consorte, Maria Teresa d'Asburgo-Lorena, si occupò personalmente della loro educazione. Tradusse dal tedesco i Contes moraux pour l’enfance. Nel 1830 Carlo Felice nominò governatore dei giovani principi il cavaliere Cesare Saluzzo di Monesiglio e suo vice Giuseppe Gerbaix de Sonnaz, integrati da un sottogovernatore e da un viceprecettore, padre Lorenzo Isnardi, appartenente alla congregazione degli scolopi, noti per aperture “liberali”. La giornata dei principi non era oziosa. Dalle 5 del mattino alle 9 di sera si susseguivano devozioni, lezioni, studio, esercizi fisici, incontri protocollari e un’ora con la Regina, talvolta con il padre.   

   Vittorio Emanuele non brillò negli studi. Si applicava poco e male. Nel 1832 gli esaminatori scrissero: “può dirsi […] non abbia saputo niente di niente”. I principi studiavano religione, grammatica e letteratura francese e italiana, lingua latina, economia, nozioni di fisica, chimica e agronomia, geografia, arte militare e strategia, storia della Casa. I docenti erano tutti di prim’ordine, destinati a cattedre universitarie, se già non le ricoprivano: Angelo Sismonda, Giuseppe Dabormida, Agostino Chiodo, il grecista Boucheron e Carlo Sobrero, colonnello d’artiglieria, zio di Ascanio, inventore della nitroglicerina e a sua volta zio della moglie di Giovanni Giolitti, Rosa. A differenza del fratello minore, il principe ereditario prestava scarsa attenzione, non memorizzava, si mostrava svogliato, ricordava poco. Ma si destava quando si parlava d’armi e di storia dei Savoia, di sistemi difensivi, fortificazioni, battaglie, armi, cavalli...

 

Riforme e Statuto

   Nell’agosto 1847 il ventisettenne Duca di Savoia sedette per la prima volta nel Consiglio della Corona. Dall’elezione di Pio IX (1846) l’Italia era percorsa da aperte pulsioni liberali. Massimo d’Azeglio aveva pubblicato il Manifesto per un’opinione nazionale. La borghesia premeva per le riforme. Al conte di Castagnetto il duca confidò che bisognava mettere un freno e avvertì: “Vedo che la repubblica s’avvicina”. Non sbagliava. Nell’autunno 1847 Carlo Alberto concesse libertà di stampa ed elezione dei consigli comunali e divisionali, ma sindaci e intendenti di province e di divisioni rimasero di nomina regia. In poche settimane fiorirono quotidiani di tutte le tendenze. La gara per le elezioni assorbì entusiasmi che diversamente si sarebbero riversati in altre direzioni e avrebbero messo in discussione le prerogative della monarchia. Nel gennaio 1848 la pressione crebbe di tono. L’8 febbraio Carlo Alberto annunciò l’imminente promulgazione dello Statuto: una decisione che divise la corte tra chi la riteneva un passo saggio e ponderato, una concessione anziché un cedimento, e chi la considerava invece anticamera di rivolgimenti incontrollabili. Tra i motivi di allarme nelle file dei moderati vi fu la violentissima campagna di opinione contro la Compagnia di Gesù, accusata di complottare ai danni dello Stato. I gesuiti furono costretti a lasciare il Regno. Il 17 febbraio un Regio editto riconobbe parità di diritti civili e politici ai valdesi. Seguì la piena parificazione degli ebrei.

   La svolta vera però venne dall’estero. Il 22 febbraio Parigi insorse. Luigi Filippo, il Re borghese, riparò in esilio. Nacque la Seconda Repubblica. Per il Piemonte fu un giorno difficile. Anche il moderato Camillo Cavour, che avanzava dubbi sul Senato di nomina regia e vitalizio, capì che non si poteva andare molto oltre lo Statuto, elargito motu proprio anziché estorto. Il pilastro portante della monarchia rimaneva l’Armata: ufficiali orgogliosi di secoli di fedeltà alla Casa e ai suoi simboli, a cominciare dall’Azzurra Coccarda.

   Il 4 marzo il re promulgò lo Statuto. Da consultiva la monarchia divenne rappresentativa. Il 23 Carlo Alberto dichiarò guerra all’Impero d’Austria. Vittorio Emanuele, comandante di una divisione di riserva, fece brillantemente la sua parte, mostrando tempra generosa e pugnace, da Pastrengo (30 aprile 1848) a Custoza (23 luglio) e, alla ripresa del conflitto (marzo 1849), a Mortara e Novara. Nella battaglia le perdite degli asburgici furono superiori alle piemontesi, ma l’Impero asburgico, pacificato dopo mesi di rivoluzioni e la feroce repressione dell’insurrezione in Ungheria, aveva riserve immense mentre il Piemonte era allo stremo. Il Re abdicò e partì per l'esilio. Vittorio Emanuele ebbe la Corona, senza alcuna cerimonia. Carlo Alberto morì a Oporto a fine luglio, volgendo le ultime parole ad Alessandro Riberi, il medico inviatogli dal padre: “Vi voglio bene, ma muoio”.

“Italia e Vittorio Emanuele”

Vittorio Emanuele disprezzava quanti discutevano mentre lo Stato era in pericolo. L’insorgenza di Genova fu repressa duramente. I governi non avevano dato prove brillanti. Il parlamento neppure. I problemi erano immensi. Anzitutto la stipula del trattato di pace con l’Austria che pretendeva un’indennità di guerra di 200 milioni e di occupare la cittadella di Alessandria con 20.000 uomini e 2.000 cavalli a carico del vinto. Il re sostituì Gabriele de Launay, generale notoriamente reazionario, con Massimo d’Azeglio, facendo così intendere che la corona contava sul sostegno dei liberali. Aveva bisogno di mostrare la compattezza del Paese. La Camera, però, anche con le elezioni del 15 luglio 1849 rimase teatro di dispute improduttive. Azeglio fece scudo al re, che la sciolse e con il proclama del 20 novembre, firmato dal sovrano, esortò a eleggere deputati consapevoli dell’emergenza. Fu ascoltato. Il 5 gennaio 1850 il trattato di pace con l’Austria fu approvato. Il “Piemonte” poté iniziare a risalire la china.

   Da molti l’iniziativa del Re viene bollata come indebita ingerenza nelle scelte dei cittadini. I critici del monarca non dicono se quella Camera, eletta da una quota modestissima di cittadini, rappresentasse davvero gli interessi generali e permanenti della popolazione né quale sarebbe stata la sorte del regno se il trattato non fosse stato approvato. Nel 1850 il “Piemonte” non aveva amici e neppure alleati. Non solo. È vero che era asilo di politici scampati alla repressione negli Stati i cui sovrani avevano strappato le costituzioni concesse nel 1848, ma essi erano una pattuglia rispetto a quanti all'estero guardavano con sospetto Torino, considerata centrale di destabilizzazione politica. Pesavano soprattutto le leggi contro i privilegi del clero e il conflitto tra il governo e il potere ecclesiastico, culminato nell’arresto  dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dal regno benché Collare dell’Annunziata e quindi “cugino del re”.

   Vinte alcune battaglie, Azeglio perse la guerra. Fallì la sua proposta di legge sul matrimonio civile, preludio al riconoscimento del divorzio. Il quarantenne Camillo Cavour s’intese con l’esponente di spicco della sinistra pragmatica, Urbano Rattazzi (nacque il “connubio” di “centro-sinistro”) e subentrò ad Azeglio, che il re tentò invano di sostituire con un ministero cattolico moderato (Cesare Balbo e Ottavio di Revel). Asceso a presidente del Consiglio, Cavour intrecciò politica estera (alleanza con Gran Bretagna, Francia e impero turco contro quello russo: la guerra di Crimea) e abolizione degli ordini contemplativi. A differenza della sinistra di Rattazzi, il re era favorevole alla guerra, ma contrario alla politica ecclesiastica di Cavour, che si dimise quando il vescovo di Casale, Luigi Calabiana, propose di versare al governo un milione di lire a sostegno del “basso clero” in cambio dell’incolumità dei conventi. Il Re esitò. Era sgomento per la morte repentina della regina madre, della moglie, del fratello Ferdinando e dalla malattia, risultata incurabile, dell’ultimogenito, il duca del Genevese. Stava per cedere ai clericali. Però anche Azeglio, che nutriva poca simpatia per Cavour, lo esortò “con le lagrime agli occhi e inginocchiato ai suoi piedi” a riprendere il programma liberale. Vittorio Emanuele non trovò nessuno disposto a sacrificarsi in cerca di una maggioranza. Cavour tornò presidente: espressione del Parlamento, non della sola volontà del sovrano. Il re ne guadagnò, perché da quel momento fu il governo a rispondere al Paese. Nondimeno le decisioni supreme, politica estera e conseguentemente la guerra, rimasero nelle mani del sovrano.

La Società Nazionale, formata da antichi cospiratori e patrioti intemerati, ne fece la stella polare della rinascente Italia. Alcuni continuarono a seguire Giuseppe Mazzini. Giuseppe Garibaldi, secondo a nessuno, alzò invece l'insegna “Italia e Vittorio Emanuele”. Il R
e rispose alle attese dei conservatori, per i quali egli rappresentava la Dinastia; dei liberali di varia osservanza; di migliaia di sacerdoti che avevano letto e condiviso Vincenzo Gioberti e inneggiato a Pio IX; e dei giovani che credevano nella fratellanza dei popoli d'Italia.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA.  

 

 

A Mafalda, principessa e sorella italiana

 



 Alla Principessa Mafalda di Savoia nell' 80esimo anniversario del suo martirio nel campo di concentramento di Buchenwald. Omaggio ad una donna italiana.

Vi era un disegno

imperscrutabile, immenso

Mafalda ne custodiva il lume

fulgente, nel suo cuore.

Fiamme di virtù

furoreggiavano,

la sensibilità splendeva

nel grembo d’ogni suo pensiero,

amabili gesta

ornavano di semplicità

la sua indole caritatevole,

radiosa fino all’ultimo respiro.

Sempre forte nella Fede

strinse a sé ogni sospiro

mentre menti crudeli

si avventavano sull’anima sua,

ed il suo corpo inerme

non desiderava altro

che l’abbraccio

strappato con l’inganno

degli amori suoi più diletti.

Mai si affievolì la speranza,

è sempre figlia, moglie, madre

principessa d’Italia,

ben oltre quell’anelito che segnò

la fine dalla sua vita terrena

e fu l’inizio

del suo celeste viaggio.

Mai crudeltà umana

può sopprimere ideali supremi

né si avvizziscono virtù

donate da Dio,

mai disprezzo annienta

il nobile amor di Patria,

né la bontà sfiorisce

serrata nella morsa della sofferenza.

“Ricordatemi

non come una principessa

ma come una vostra sorella italiana”

sussurrò Mafalda,

senza smarrimento né timore

né titubanza,

erano parole scaturite

dalla grandezza del suo Spirito.

Le palpebre socchiuse

poi un ultimo sguardo

corse lontano,

mai tanta viltà le strappò

gli affetti più cari,

Ella li sentiva accanto!

Chi ha Fede confida nell’eterna Patria

ove sventola per sempre

il vessillo dell’amore.

Beatitudine l’accolse,

stille d’ogni suo sacrificio

divennero inestimabili gemme,

tesori di un altro regno

dove brillano le anime pure

forgiate

dalla misericordia

e dal coraggio.

 

Monia Pin