NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 8 settembre 2023

VITTORIO EMANUELE III E L'“ARMISTIZIO”

 




di Aldo A. Mola


Il Re fuggiasco?

Il Quaderno n. 4157 di “La Civiltà Cattolica” invita all'ascolto di un podcast sull'8 settembre 1943 e le sue conseguenze. “Dopo aver proclamato l'armistizio – scrive il quindicinale della Compagnia di Gesù – il generale Pietro Badoglio fuggì da Roma insieme a Vittorio Emanuele III alla volta di Brindisi, in Puglia”. All'opposto, aggiunge, benché consapevole di essere bersaglio di Adolf Hitler, Pio XII non si mosse e si prodigò a favore della popolazione. Con tutta la deferenza che si deve alla “più antica rivista in lingua italiana”, l'affermazione è errata e la comparazione tra la condotta del re e quella del papa è improponibile. Sovrano della Città del Vaticano, il Vicario era sommo pontefice della Chiesa cattolica: inviolabile. Vittorio Emanuele III era re di uno Stato in guerra coi tedeschi, ormai nemici, in casa e senza sostegno militare da parte dei vincitori decisi a cancellare l'Italia dal novero delle potenze. Non fuggì affatto. Si trasferì all'interno del territorio nazionale per esercitare i poteri della Corona e salvare la continuità dello Stato.

Per comprenderlo occorre ricordare in quali circostanze e con quali ripercussioni si arrivò alla “resa incondizionata”, altra e peggiore cosa rispetto a un “armistizio”, che è frutto di trattativa. Come noto, di propria iniziativa e con la collaborazione efficace di una ristretta cerchia di militari, alle 17 del 25 luglio 1943 il re revocò Benito Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio. “Fermato” (non “arrestato”) dai carabinieri, il duce scrisse a Badoglio di essere pronto a collaborare.

Nel volgere di pochi giorni il nuovo governo smantellò il regime. Sciolse il Partito nazionale fascista e il Gran consiglio del fascismo e impose alla Milizia volontaria di sicurezza nazionale di sostituire i fasci con le stellette. A quel modo evidenziò di non dovere nulla ai gerarchi che avevano approvato l'ordine del giorno approntato da Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, convinti di ridimensionare Mussolini senza rinunciare al proprio ruolo.

La svolta del 25 luglio fu la premessa di tre obiettivi concatenati: mostrare che l'Italia si liberava dal fascismo, uscire dalla guerra, manifestamente perduta, e arginare la prevista “vendetta” della Germania. Con i suoi mezzi il governo poteva attuare solo il primo dei tre obiettivi. Gli altri due erano nelle mani degli anglo-americani e di Hitler. La defascistizzazione venne facilitata vietando ogni manifestazione di partito. In un paese in guerra occorreva scongiurare insorgenze di fascisti e di avversari della monarchia.


Resa: un ultimatum

Salvaguardato l'ordine interno, Vittorio Emanuele III autorizzò la ricerca del contatto con il Comando alleato per stipulare la fine delle ostilità. Tra le molte “testimonianze” spicca il “Diario” del generale Giuseppe Castellano, militare di piena fiducia del re. Dopo complessi preparativi e scartate altre opzioni, il 12 agosto Castellano partì in treno per Lisbona sotto il falso nome di “Raimondi”. Poiché non conosceva l'inglese fu accompagnato dal console Franco Montanari. Il 15 agosto fece tappa a Madrid ove si fece ricevere dall'ambasciatore inglese Samuel Hoare, che dal 1917 era stato nel servizio segreto militare britannico a Roma, aveva simpatia per l'Italia e propiziò la sua missione. Giunto a Lisbona la sera del 16, Castellano prese contatto con il Comando anglo-americano. La mattina del 19 agosto l'ambasciatore inglese Campbell lo invitò a colloquio per le 22:30. Castellano si trovò dinnanzi l'incaricato d'affari George Kennan e il generale Smith, rappresentanti di Eisenhower, comandante alleato nel Mediterraneo, e il brigadiere britannico Strong. Nessuno gli tese la mano. Smith gli lesse i termini della resa imposta dagli Alleati all'Italia e una pagina con le decisioni del presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, e del premier britannico, Winston Churchill. L'Italia doveva rispondere a Londra e ad Algeri, sede del Quartier generale alleato, entro e non oltre il 30 agosto.

Nella lunga conferenza di Quebec il 18 agosto gli anglo-americani stilarono la Dichiarazione sulle condizioni della “cessazione delle ostilità” da parte dell'Italia. Essa prospettò una modifica migliorativa delle condizioni della resa in misura “dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Con la Dichiarazione gli anglo-americani introdussero un soggetto nuovo accanto (ma non alternativo o antagonista) rispetto al regio governo: il popolo italiano.

Castellano tornò a Roma con il testo della “resa”: dodici “condizioni” su vari aspetti collaterali alla “cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane”. Quelle fondamentali erano le ultime tre. “In cauda venenum...”.Vanno rilette: “Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione delle Forze Alleate per la prosecuzione della guerra, e il governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in capo, e in particolare il Comandante in capo stabilirà un governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate”. Era riconosciuta la sovranità del re e del suo governo. Al di là dell'undicesima condizione (“Il Comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione”) la dodicesima lasciava però intravvedere il baratro:“Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito”.


Le “altre condizioni” non furono comunicate a Castellano ma al generale Giacomo Zanussi, inviato a Lisbona da Roma in carenza di notizie da e su “Raimondi”. Sotto la data del 29 agosto Castellano annotò che “su suggerimento di Acquarone il re sembra pronto ad accettare i termini dell'armistizio”. Dopo giorni convulsi e ripetuti contatti e viaggi da Roma alla Sicilia e ritorno, il 3 settembre il generale di brigata Castellano sottoscrisse a Cassibile “per il Maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano” le condizioni presentate dal maggior generale Walter B. Smith per il Comandante in capo delle Forze alleate Dwight D. Eisenhower e illustrate dal generale Harold Alexander, come recita il processo verbale. Alla firma, suggellata dalla cordiale stretta di mano tra il Comandante e Castellano, presenziarono Harold McMillan, ministro residente britannico presso il Quartier generale alleato ad Algeri; Robert Murphy, rappresentante personale del presidente degli USA; Royer Dick, commodoro della Reale marina britannica, capo di stato maggiore del Comandante in capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, maggior generale dell'esercito USA, sottocapo di stato maggior presso il Quartier generale delle Forze alleate; il brigdiere Kenneth Strong, sottocapo di stato maggiore generale presso il Quartier generale delle Forze alleate e Franco Montanari, interprete ufficiale italiano.

Nel corso della riunione furono a lungo discusse l'azione degli italiani contro i tedeschi all'annuncio della resa e le numerose richieste navali anglo-americane. I presenti misero nel conto che Vittorio Emanuele III e Badoglio potessero cadere prigionieri dei tedeschi. Pertanto Alexander chiese che il Re e Badoglio registrassero su disco la proclamazione dell'“armistizio” e che copia della registrazione fosse consegnata agli Alleati, “sicché in caso di emergenza si potrebbe fare l'annuncio”. Proprio per fronteggiare quella emergenza, precisò Castellano, il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, progettava di lasciare Roma, per tenersi pronto annunciare la resa anche da una emittente fuori Roma. Il “disco” con la registrazione sarebbe stata recata personalmente alla sede Eiar di Torino dal generale Ambrosio nel suo altrimenti inspiegabile viaggio proprio nell'imminenza dell’annuncio stesso.


Il verbale della riunione di Cassibile mette a nudo la curiosa “visione” di quanti intendevano impartire lezioni di incivilimento agli italiani. Alexander si dichiarò convinto che “gli italiani dovevano combattere per il loro paese. I contadini italiani armati (da chi? NdA) combatterebbero bravamente con la guerriglia organizzata” e che “non si doveva rimandare nessuna opportunità di uccidere i tedeschi”. Pensava inoltre che i “sindacati operai” avrebbero potuto bloccare o facilitare il transito ferroviario, secondo necessità. Probabilmente vedeva l'Italia come una delle “colonie” di cui aveva cognizione. Castellano non lo assecondò.

Tra le questioni non secondarie affrontate a Cassibile vi furono il giorno e l'ora dell'annuncio della “cessazione delle ostilità”. Al riguardo gli interlocutori di Castellano furono evasivi. Dissero che l’annuncio sarebbe stato dato da Eisenhower alle 18:15 e da Roma alle 18:30, senza però precisare la data. Castellano replicò quanto aveva già chiarito a Lisbona. “Un preavviso di poche ore del giorno D era insufficiente. Gli occorreva un preavviso di parecchi giorni”. Non parlava inglese ma aveva idee molto chiare. Alexander replicò che “non poteva rischiare perdita di sicurezza” e non rivelò dove e quando sarebbe avvenuto lo sbarco anglo-americano sulla costa tirrenica dell'Italia.

A conclusione dell'incontro Castellano fu trattenuto a Cassibile con la promessa di “una sede quanto possibile confortevole”. Eisenhower non presenziò e non firmò. Preferì tenersi al di fuori dallo “sporco affare” o dall’“inganno reciproco”: eloquente titolo, quest’ultimo, di un’opera ricca di documenti e di fondamentale importanza sull'Otto settembre scritta dalla storica Elena Aga Rossi. In mancanza di indicazioni precise, a Roma prevalse la certezza che la fine delle ostilità sarebbe stata annunciata il 12 settembre o addirittura il 16, come Badoglio scrisse in una lettera ricordata da Angelo Squarti Perla nel suo recente e documentatissimo saggio “Le menzogne di chi scrive la storia” (ed. Gambini).

A ingannare furono soprattutto gli anglo-americani, che parlavano a nome delle Nazioni Unite senza però che il loro alleato principale, l'URSS di Stalin, fosse informato. Avevano le loro buone ragioni, perché guardavano al di là del conflitto nel Mediterraneo. In gioco vi era la guerra degli USA contro il Giappone e per la difesa dell'impero coloniale da parte di Londra. I termini della resa, dunque, non dipesero dalla volontà di Vittorio Emanuele III ma dalla Conferenza di Casablanca che, su richiesta di Stalin, aveva deciso l'imposizione della resa senza condizioni.

Lontano da Roma, non dagli italiani

I giorni tra la firma della resa e il suo annuncio furono pochi e convulsi: dal 3 all'8 settembre. Senza bisogno di conoscerne nei dettagli i piani, il re e il governo sapevano bene che i tedeschi non avrebbero avuto alcun riguardo nei loro confronti. Se se ne fossero impadroniti li avrebbero eliminati o quanto meno deportati e sottoposti a umiliazioni. Sarebbe stata una “lezione” per i capi di Stato e di governo tentennanti. Al rientro da Berlino Boris III, zar dei Bulgari e genero di Vittorio Emanuele III (ne aveva sposato la figlia Giovanna), morì di morbo mai spiegato. Avvelenamento?

I tempi e gli spazi per salvare lo Stato erano sempre più stretti. In vista dell'ora e del giorno dell'annuncio, venne deciso l'allontanamento da Roma. Scartato l'aereo, il mezzo di trasporto all'epoca più insicuro e dalle conseguenze irreversibili in caso di “incidente”, fu previsto il trasferimento dei Reali e del governo da Civitavecchia alla Sardegna, saldamente presidiata da forze italiane. Sennonché quel porto divenne insicuro come tante altre piazze ormai sotto controllo o minacciate da vicino dai tedeschi, che dal 26 luglio avevano fatto irruzione in Italia con il pretesto di aiutarla nella lotta contro gli allora comuni nemici.

A ridosso dell'annuncio della resa giunsero a Roma due alti ufficiali per verificare con il Maresciallo Badoglio la fattibilità del lancio di una divisione paracadutata a sostegno di quelle italiane per contrastare i tedeschi che ormai la premevano. Come più volte narrato, Badoglio li ricevette in vestaglia e chiarì che i campi di aviazione vicini alla Capitale non erano in grado di propiziare il progetto. In realtà aveva chiaro che gli anglo-americani non avevano alcuna possibilità di attestarsi nei dintorni di Roma e che tutto si doveva fare tranne che trasformare la Città Eterna in campo di battaglia, senza probabilità di rinforzi di lungo periodo. Come noto, gli americani sbarcarono nella piana di Salerno e incapparono nella tenace risposta dei germanici. A Roma giunsero solo il 5 giugno 1944.

Fecero la guerra che conveniva loro. Essi consideravano l'Italia un teatro secondario del conflitto in corso. Più tedeschi erano trattenuti nel Paese dei Limoni meno essi ne avrebbero dovuti fronteggiare allo sbarco in Normandia, progettato prima ancora di dare l'assalto alla Sicilia e alla Calabria.

La resa fu infine comunicata alle 19 dell'8 settembre. L'annuncio fu preceduto alle 17 da una convulsa riunione (“una specie di consiglio della Corona” annotò Puntoni) nel corso della quale qualcuno prospettò addirittura di sconfessare la firma di Cassibile e sostituire Badoglio. Per intervento del maggiore Luigi Marchesi, che ne ha scritto ripetutamente, “il buon senso finisce per prevalere, si arriva però a una conclusione davvero deludente: l'armistizio è accettato ma Badoglio che rappresenta il governo non impartisce alcuna disposizione per fronteggiare gli avvenimenti che incalzano” (Puntoni). Nel volgere di poche ore il Re e Badoglio misero a punto l'unico piano possibile: lasciare Roma per un lembo d'Italia libero da tedeschi (che vi vennero anzi cacciati con le armi: come avvenne a Bari e in altre città) e non ancora raggiunto dagli anglo-americani, e quindi libero dalla loro diretta ingerenza. Ci volle il comprovato sangue freddo del Re Soldato per affrontare la prova.

Come annotò Paolo Puntoni, ritenuta impossibile la difesa della Capitale fu decisa la partenza. “Il Re scrive Puntoni – convinto ormai che tutto sia stato predisposto per la partenza del governo al completo, aderisce a malincuore a lasciare Roma. Il suo intento è di garantire la continuità dell'azione del governo in collegamento con gli alleati e di impedire che la Città Eterna subisca gli orrori della guerra”. Alle 5:10 del 9 settembre la berlina guidata dall'autista Giovanni Baraldi lasciò il ministero della Guerra. Recava il Re, la Regina, il tenente colonnello De Buzzaccarini e Puntoni, che sbrigativamente raccomandò al colonnello Mario Stampacchia di distruggere, all'occorrenza, il carteggio riservato e quello segreto. Di seguito mossero la vettura della regina, con a bordo Badoglio, Mario Valenzano, suo nipote e segretario particolare, e il duca d'Acquarone. In una terza presero posto il principe ereditario con il generale Emilio Gamerra e due ufficiali d'ordinanza. Altre automobili seguirono alla spicciolata. La “piccola colonna” (Puntoni) si mosse senza scorta perché il plotone di autoblindo inviato dal Ministero della Guerra al Quirinale era rimasto nella Reggia.

La berlina del Re innalzava lo stendardo del Capo dello Stato. Come è stato ripetutamente osservato, chi fugge non alza le insegne. Il viaggio del re alla volta di Pescara via Avezzano e Popoli non fu una fuga ma il trasferimento dalla capitale per evitare la cattura e assicurare quanto era necessario: la persona e la funzione del re e del “suo” governo, garante dell'esecuzione della resa. Gli Alleati erano implicitamente tenuti a concorrere alla loro sicurezza, ma non consta che se ne siano curati. Nei limiti e nei modi documentati, Vittorio Emanuele III mostrò che la Corona operava in autonomia. Non per caso era stata respinta la proposta che si rifugiasse su una nave dei vincitori, cioè in territorio nemico. Un passo di quel genere avrebbe comportato l'abdicazione dalla libertà di capo dello Stato d'Italia.

È stato osservato che il trasferimento avvenne con gravi omissioni da parte del capo del governo e dei capi di Stato maggiore delle tre Armi. Lo hanno ribadito Filippo Stefani in “8 settembre 1943: Gli armistizi dell'Italia” (Marzorati) e gli autori delle relazioni svolte in numerosi convegni di studio promossi dal Ministero della Difesa e da altre Istituzioni. L'Archivio Centrale dello Stato conserva copiosissima documentazione sulle minute misure via via assunte dagli Uffici competenti per prevenire e scongiurare le conseguenze più gravi. Valgono d'esempio le “istruzioni” impartite per il trasferimento della principessa Maria José, delle tre figlie e del principe di Napoli, Vittorio Emanuele, all'epoca di 7 anni, dal Cuneese al Castello di Sarre e da lì in Svizzera.

In sintesi il Re lasciò Roma ma non l'Italia né gli italiani. Imbarcato a Pescara sulla corvetta “Baionetta” la sera del 9 settembre egli giunse a Brindisi alle 14:30 del 10 mentre già era in corso la lotta armata di liberazione contro gli occupanti germanici. Alle 9 mattutine dell'11 il sovrano presiedette un “consiglio” e dette lettura del messaggio di Eisenhower a Badoglio volto a stabilire subito la collaborazione tra truppe anglo-americane e governo italiano. Il Re rivolse un proclama agli italiani. Non dipendeva da lui arginare la reazione germanica. Si attendeva che il Paese seguisse ma, come vedremo, tra lui e gli italiani si interpose il Comitato di liberazione nazionale, ancora informale, ma decisivo per il futuro della monarchia in Italia. (*)

Aldo A. Mola


(*) Su regìa dello storico Marco Patricelli, il 9 settembre, nella Sala “Gabriele d'Annunzio” del Centro “Aurum” di Pescara, si svolge il convegno “La resa, la fuga, la patria”, con interventi di Roberto Olla, Ernesto Galli della Loggia, Lutz Klinkhammer, Francesco Perfetti, Luciano Zani, Mimmo Franzinelli e dei capi degli Uffici storici delle quattro Armi: gen. Antonino Neosi (Carabinieri), amm. Gianluca de Meis (Marina), ten. col. Edoardo Grassia (Aeronautica), ten. col. Emilio Tirone (Esercito), presente il ministro per la Cultura, Gennaro Sangiuliano.

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