NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 6 febbraio 2022

CAPITOLO XLVI: Carnera lascia il mondo della lotta libera.


di  Emilio Del Bel Belluz

 

 Il tempo è l’avversario più difficile da combattere, perché scorre inesorabilmente.  Una sera Carnera si guardò alla specchio, ed appariva l’ombra di se stesso. Era stanco, stremato, non ce la faceva più a girare il mondo. Il corpo gli doleva in ogni parte. Il cinese, dalla lunga esperienza, che gli massaggiava la schiena prima e dopo gli incontri gli disse che era giunto il tempo di pensare più a se stesso; il corpo che gli aveva fatto conquistare un titolo mondiale tra i pesi massimi della boxe e una corona mondiale nella lotta libera, ora doveva essere messo a riposo. 

Carnera non gli aveva risposto, ma da tempo aveva compreso che fisicamente non era più quello di un tempo. Era sereno perché economicamente si sentiva al sicuro. Successivamente confidò alla moglie che non ce la faceva più e che era giunto il momento di chiudere con quella dura vita. Pina emise un urlo di felicità perché, finalmente, il suo uomo sarebbe tornato a casa. La sera stessa, Primo ne parlò con il suo organizzatore che gli chiese  di rispettare, almeno, per alcuni mesi le tappe che erano state messe in calendario. Carnera non disse nulla, ma accettò, a malincuore, quello che gli venne detto. Cercava di affrontare con entusiasmo il giorno che si presentava, tentava di non abbattersi, anche se era stanco.  

Primo, quando sognava  la sua vita da pensionato che gli avrebbe permesso di tornare spesso in Italia, era contento.  Quei mesi trascorsero e finalmente ci fu il suo ultimo combattimento. I giornali ne parlarono e i tifosi, la sera dell’ultimo match di lotta libera, avevano riempito ogni posto. Primo entrò nella sala portando con sé la bandiera sabauda, come sempre aveva fatto, perché la considerava un portafortuna ed era espressione del suo legame con la sua patria. 

Chiese ad un fotografo di immortalarlo perché voleva inviare la foto al Re ed amico Umberto II, che conosceva da anni e con cui intratteneva un carteggio. Carnera vinse contro un avversario mediocre, che era a conoscenza di essere l’ultimo lottatore della carriera del campione. La gente lo festeggiò portandolo in trionfo, tra i suoi ammiratori c’erano tanti italiani, che non avrebbero mai potuto dimenticarlo e stavano assistendo alla fine della sua  carriera che era iniziata nel 1928 in Francia e si concludeva nel 1962 in America.  Quella sera nella sua stanza aveva rivisto scorrere la sua vita come in una pellicola di un film, come se dovesse chiudere non solo con la lotta libera, ma anche con la sua esistenza. Guardava dalla finestra le luci che illuminavano la città e si mise a pensare alla sua famiglia. 

Poi desiderò suonare la sua fisarmonica, ma dopo aver accennato alla sua melodia preferita, si addormentò di colpo. Si risvegliò alle prime luci dell’alba, decise di andare a fare una passeggiata per la città, si sentiva stanco ma voleva camminare per rilassarsi. Dopo un’ora  entrò in una caffetteria che aveva le insegne italiane, e in cui si parlava la sua lingua. Il vecchio dietro al bancone lo riconobbe, ma per esserne certo sbirciò la prima pagina del giornale in cui c’era il ritratto di Carnera accompagnato dalla scritta a caratteri cubitali che annunciava il suo ritiro dal mondo della lotta libera. L’oste lo salutò e senza che lui parlasse gli preparò un buon caffè, accompagnandolo a delle  paste che erano appena arrivate dalla cucina. Carnera si sedette, in cuor suo c’era la tristezza di un qualcosa che finiva e affiorava la consapevolezza che una nuova vita stava per ricominciare. 

All’oste, che aveva quasi la sua stessa età, raccontò alcuni aneddoti della sua esistenza. Costui era molto interessato ai racconti del campione, per cui si fece sostituire dalla moglie al bancone e si misero a parlare in disparte. Degli avventori  continuavano ad entrare, erano per lo più operai che iniziavano il lavoro molto presto.  Se qualcuno li avesse osservati, Carnera e l’oste sembravano due amici che si ritrovavano dopo molto tempo. Due vecchi compagni di scuola che erano invecchiati, ma che avevano ancora tanto percorso da fare. L’oste gli raccontava che tanti italiani lo amavano e avrebbero voluto che combattesse per tutta la vita. Per molti uomini Carnera rappresentava colui che era riuscito a riscattarsi. Primo raccontò che una sera aveva conosciuto il campione dei pesi massimi, Rocky Marciano e che questo potente campione si era ritirato dalla boxe imbattuto dopo 49 incontri, ben 46 vinti prima del limite.  Una volta Marciano, quando era ancora bambino, era stato ad una riunione di italiani, aveva visto Primo, era riuscito a toccarlo e a farsi fare un autografo. Questo episodio lo aveva incoraggiato a fare il pugile, e da anni conservava quella foto incorniciata nella sua stanza. Carnera era orgoglioso che questo pugile, nelle cui vene scorreva  sangue italiano, si fosse ispirato a lui. 

L’oste gli versò del buon vino che Carnera non disdegnò, e gli chiese se aveva seguito la vicenda del pugile italiano, Bertola che era morto negli Stati Uniti. Quando sentì il nome di Bertola, la tristezza oscurò il volto del campione, conosceva molto bene quella vicenda. Quel povero Cristo di Bertola aveva fatto le valige, era partito dall’Italia con il titolo italiano dei pesi massimi per far la sua comparsa in America. Nel cuore aveva la speranza di diventare campione del mondo dei pesi massimi, voleva fare come lui, scrivere una pagina di gloria pugilistica in America. La gente che lo aveva visto combattere e vincere lo riteneva un grande pugile. Da quando era arrivato in America aveva  combattuto alcune volte senza risparmiarsi, dando prova di una grande bravura.   L’oste fece vedere a Carnera un giornale dove aveva sottolineato la vicenda umana e pugilistica di Enrico Bertola. La guerra era finita da soli quattro anni, tanti avevano visto in quegli anni la fame, le macerie, molti dalla guerra non erano tornati. L’Italia a poco a poco cominciava a togliersi le bende dalle ferite, si contavano i danni e in ogni casa, anzi, quasi in ogni casa vi erano stati dei lutti. 

L’Italia da qualche anno era diventata una Repubblica, dopo il referendum istituzionale del 2 giugno del 1946. Dalla Russia tornavano quelli che la guerra l’avevano conosciuta anche nei campi di concentramento tedeschi, uno di questi soldati era un mio conoscente. Fu proprio lui che mi parlò della vicende umane di Enrico Bertola. Per quelli che non vissero quel periodo, questo pugile dice veramente poco, ma la sua era una storia di un campione dei pesi massimi.  Enrico Bertola nacque il 14 novembre 1922, a Carrara. Dopo una vita pugilistica a grandi  livelli in Italia, dapprima nella categoria dei pesi medio massimi, conquistò il titolo  contro il goriziano Luigi Musina il 31 agosto del 1946, nella categoria dei massimi. In quell’incontro avrebbe dovuto esserci anche la possibilità di conquistare l’europeo della categoria, ma l’Ebu aveva azzerato tutti i titoli  in possesso dei pugili, dichiarando decaduti tutti i detentori, tra cui Luigi Musina che vantava il titolo europeo. Costui  era il pugile che aveva posto fine alla carriera di Primo Carnera, sconfiggendolo ben tre volte e allontanandolo definitivamente dal pugilato. 

Enrico Bertola si impossessò della cintura italiana dei pesi mediomassimi. Dopo una serie di combattimenti come pochi italiani, tra i quali mi viene in mente l’opitergino Giovanni Martin, si impossessò del titolo della massima categoria. L’incontro si svolse a Roma, un anno dopo, proprio contro Giovanni Martin. La decisione più importante della sua vita era quella di affrontare l’avventura americana. Ancora quel conoscente mi narrava le difficili condizioni di quelli che cercavano fortuna nelle Americhe. Erano uomini disperati, che non avevano proprio nulla. Se non le braccia e i calli sulle mani. Contadini per lo più che vedevano nell’emigrazione il miraggio di una vita migliore.  Il pane dell’emigrante era molto duro da mangiare e altrettanto duro era il lavoro. Si cominciava con quei viaggi che non avevano mai fine, imbarcati nelle carrette del mare, stipati in terza classe, in condizioni igieniche difficili, ma avevano una meta da raggiungere quella di fare fortuna, e di spedire qualcosa alla famiglia e ai figli rimasti a casa. Enrico Bertola aveva nello zaino un paio di guantoni, e quel titolo italiano che era come un biglietto da visita negli Stati Uniti. Lo aspettava in America il suo organizzatore, l’uomo che lo aveva ingaggiato. Ma una volta sbarcato  non c’era nessuno ad attenderlo alla banchina e il nostro campione finì in carcere. 

Il tutto successe  in una fredda mattina del 1948, lo prelevarono dei poliziotti, cosi’ scriveva Enzo Nardin che lo ricordava molti anni fa dalle colonne di Boxe Ring: “ Non avendo nessuno che garantisse per lui, fu prelevato dai poliziotti, e messo in prigione in attesa di informazioni sul suo conto . Dopo alcuni giorni finalmente rintracciato dall’organizzatore Emil Nanny, che ansiosamente era in attesa del suo arrivo, ignorando che il povero Bertola si trovava rinchiuso in quei tristi locali”. L’America per gli italiani rappresentava  la fortuna di un domani migliore, come avvenne per Carnera. In quegli anni anche Rocky Marciano tirava di boxe. Gli emigranti italiani amavano il pugilato e tutte le storie che ne erano imperniate. Il miglior biglietto da visita era la conquista della cintura italiana tolta a  Musina.  Due titoli conquistati in meno di un anno. Ma tra i sogni di Enrico c’era la possibilità di battersi per il titolo mondiale se avesse superato tutte le i combattimenti contro avversari sicuramente. Ma Enrico cercava oltre oceano la fortuna che in Italia non era arrivata. Il suo stile di vita era semplice, quello di un uomo forte ma non sufficientemente forte per l’America. Dopo essersi ambientato cominciò a battersi con pugili non di primo piano. Il pugilato in America non era quello che lui si immaginava, i facili guadagni erano solo un’ illusione. La solitudine delle camere d’albergo, i difficili contatti umani, e quegli italiani che avevano fatto fortuna si erano dimenticati di lui. Enrico era un uomo coraggioso, basti pensare come scrive il bravo Enzo Nardini nel suo “ Ricordo di Enrico Bertola “ nel libro Il gigante di Carrara . 

Egli ricorda un episodio di coraggio: “ Sopravviene la guerra e anche l’attività di Bertola è ridotta al minimo.  Non per questo, egli non continua a mantenersi in allenamento. Infatti in questo periodo un episodio, durante la sua breve permanenza  a Lucca, quando circondato da  ben quattro tedeschi, che lo volevano prendere per deportarlo in Germania, riuscì a fuggire, dopo averli atterrati tutti con dei colpi ben aggiustati che fecero tramortire gli incauti soldati nazisti. Durante il periodo bellico, precisamente nel 1944, sfidando il pericolo delle  S. S.  e dei  tedeschi della Wehrmacht, si misurò a Carrara contro il pari peso Catenacci, riuscendo a batterlo al quarto “ round”.  In America la vita del  nostro pugile passò attraverso alcuni incontri particolari. In Italia giungono delle notizie riportate dai giornali dove seppure in breve si parla di lui.  Un grande giornalista di boxe come Mario Sanvito nel libro Pugilato pubblicato dalla Sperling e Kupfer editori nel 1950, descrive l’ultimo capitolo della vicenda umana di Bertola. Un Bertola che, dopo alcuni match, si era stancato della vita americana, si era imbattuto in una donna che aveva deciso di portare in Italia. Con il guadagno dell’ultimo incontro sperava di tornare a casa, nella sua  Carrara. In questi anni mi sono molte volte chiesto se questa giovane sia ancora viva e se ricordi il suo grande amore. Ma sono curiosità che vanno dimenticate. L’ultimo avversario, l’ultimo combattimento è l’appuntamento con la morte. Sul ring di Baffalo. “ Anche a Bertola   è stato giocato uno scherzo del genere, ponendo di fronte a lui, un peso massimo, un mediomassimo , Bob Foxwoort, evitato da tutti per la sua micidiale potenza. E il toscano finì al tappeto . 

Poi , povero Bertola, venne per lui l’ultimo combattimento . Il 4 ottobre 1949 egli saliva sul quadrato di Baffalo (Illinois ) per misurarsi con il pari peso Lee Oma , un ebreo d’origine  russa il cui vero nome è Franck Czaiewski, dal passato affatto raccomandabile , avendo fatto conoscenza a 17 anni col riformatorio e poi, per ben quattro volte , con la prigione. E fu appunto in prigione, dove era stato cacciato successivamente per furto , scasso e rapina a mano armata, che Lee Oma  imparò a pugilare, conquistando dietro le sbarre del carcere di Ionia, il poco invidiabile titolo dei detenuti, prima per la categoria dei medi e , poi, dei mediomassimi. Fu questa per Enrico Bertola , l’ultima impresa sportiva . Combattimento duro, che divenne particolarmente  drammatico al 9° e al 10° assalto per il pugile italiano, che riuscì a terminare l’incontro in piedi per un miracolo di volontà. Raggiunto senza aiuto alcuno il camerino, Bertola ebbe un improvviso conato di vomito: commozione cerebrale, senza dubbio. L’ospedale, il trapianto a frugare nel cranio nel tentativo supremo di salvarlo e, dopo 26 ore di agonia , la morte”.


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