NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 20 ottobre 2017

Caporetto, la disfatta che riscattò l’Italia

di Salvatore Sfrecola

Il 24 ottobre 1917 il nostro esercito subì una sconfitta di enormi proporzioni, tuttora al centro delle polemiche tra gli storici
Un evento da ricordare per le molte ombre ma anche per le luci che risvegliarono orgoglio nazionale e senso di appartenenza


Alla vigilia di quel tragico 24
ottobre 1917 nessuno aveva previsto un attacco nell’area di Caporetto, la cittadina, oggi in Slovenia (Kobarid), nell’alta valle dell’lsonzo, sulla riva destra del fiume, tra Tolmino e Plezzo, dove si combattè fino al 27 novembre. In quei giorni le truppe italiane dovettero abbandonare migliaia di chilometri quadrati, il Friuli e parte del Veneto. A rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò di abbandonare. Una sconfitta grave, definita anche «rotta», «disfatta» o «catastrofe», con uno strascico di polemiche che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia.
L’attacco non l’aveva previsto Luigi Cadorna, il comandante generale, «molto scettico» sulla ipotesi di partecipazione germanica all’offensiva nemica che si immaginava in preparazione ma che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata solo in primavera, come disse al colonnello Angelo Gatti, che ne riferisce nel suo prezioso Diario di Guerra: «Passiamo così l’inverno».
Eppure i segnali di una imminente offensiva austrotedesca c erano stati, provenienti da varie fonti (non solodai disertori che potevano apparire inviati ad arte), ignorati dai servizi di informazione.
Li avevano percepiti sia il generale Luigi Capello sia Re Vittorio Emanuele e ne avevano informato Cadorna. Fu sottovalutato anche il significato dell’iniziale cannoneggiamento la mattina del 21, tiri isolati ma con obiettivi precisi, come osservò il Re che ritenne fossero destinati a saggiare la nostra capacità di reazione, preludio del bombardamento che sarebbe iniziato alle 2 del 24 ottobre, inizialmente con i gas. Durò cinque ore, «con grandissima intensità», scrive Gatti. Eppure non ne fu compresa la finalità. «Nulla di importante» commentò il generale Pietro Badoglio. I suoi cannoni, oltre 400, rimasero silenti. E gli fu sempre rimproverato.
Uno dei tanti errori di percezione delle intenzioni degli austrotedeschi i quali percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. Il fuoco delle batterie nemiche aveva creato una breccia che permise il passaggio degli alpini del Wuttemberg guidati da un giovane tenente destinato a una prestigiosa carriera militare. Erwin Rommel. Futura «Volpe del deserto».
Lo sbandamento fu generale. Nella confusione s'immaginava fosse necessario arretrare sempre di più, dall’Isonzo al Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio o, se non fosse bastato, al Po. Una soluzione che avrebbe consegnato al nemico Venezia e Milano, un autentico disastro per la coalizione. Dalla Pianura padana sarebbe stata minacciata anche la Francia. Intanto nel Paese montano le polemiche, le accuse di tradimento e disfattismo, soprattutto contro socialisti e cattolici. Gli alleati, che s’incontrarono a Rapallo il 6 novembre in un clima di sfiducia nei confronti dell’Italia, chiedono la testa di Cadorna.
Ne riferisce Gatti che dà conto dell’umiliazione subita. Infatti francesi e inglesi «si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri. Orlando, Sonnino. Alfieri e Porro attesero così, alla porta come servitori, che gli altri decidessero». Vittorio Emanuele Orlando era il presidente del Consiglio, Sidney Sonnino il ministro degli Esteri, Vittorio Alfieri il ministro della Guerra e Carlo Porro il sottocapo di Stato maggiore. Dovettero limitarsi ad ascoltare le decisioni assunte. E se fu riconosciuto «che la difesa dell’Italia era anche interesse alleato», con apporto di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi diventeranno 6 e 5), il primo ministro i nglese Lloy d George impose come condizione «assoluta» la creazione di un Consiglio interalleato composto dai 3 presidenti dei Consigli dei ministri.
In questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il nostro esercito, il re «l’unico a non perdere la testa», come ha sottolineato Rai Storia, mai tenera nei suoi confronti - volle si resistesse sul Piave. A Peschiera sul Garda. L’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i generali che si erano incontrati a Rapallo, presenti Paul Painlevé. primo ministro di Francia, i generali Ferdinand Foch e Henry Hugue Wilson e Lloyd George (che ce ne ha lasciato la cronaca), il Re,. parlando in inglese e francese, si guadagnò «il rispetto di tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto della situazione, realisticamen-te». Lloyd George «ne rimase impressionato» (M. Silvestri. Caporetto - Una battaglia e un enigma). Il suo ruolo fa determinante nel richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che cancellò dal proclama, che Orlando gli aveva preparato, l’incipit enfatico che non era nel suo stile («Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re»). Invece esordì: «Italiani, siate un esercito solo!»
Da allora «Caporetto», nel linguaggio comune, evoca un fatto negativo gravissimo, una sconfitta senza rimedi, la «disfatta per antonomasia», scrive Stefano Lucchini in un libro, A Caporetto abbiamo vinto, che ricostruisce, «attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro impatto sull’opinione pubblica». Eppure, dopo le polemiche di quei giorni e all’indomani della vittoria, si volle in qualche
modo archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione dell’Italia di Vittorio Veneto». Ne è prova l’attribuzione del grado di Maresciallo d’Italia contemporaneamente al generale sconfitto. Luigi Cadorna, ed al vincitore, Armando Diaz.
E se è vero che «a Caporetto non abbiamo vinto» è altrettanto vero che quella battaglia ha segnato una svolta fondamentale, che ha posto le basi della ripresa delle operazioni militari e della vittoria. Immediato fu il risveglio delle migliori energie, della politica, delle forze armate e dell’intero popolo italiano. Fu «uno scatto di orgoglio nazionale» (Pierre Milza, Storia d’Italia). Cambiarono molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo. Dai rapporti tra il governo e i vertici dell’esercito che, con il nuovo comandante generale, Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e credibile nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e degli Stati maggiori alleati.
Le cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la vastità delle terre perdute e il numero dei profughi, furono essenzialmente militari, come fu evidente di lì a breve anche dalle prime risultanze della commissione d’inchiesta.
Cause individuate nella inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati a concezioni superate, come l’attacco allarma bianca. L’aveva codificato il comandante generale Cadorna: attacco frontale e intervento aggirante della cavalleria, nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di questa Arma dopo che l’invenzione della mitragliatrice aveva reso improponibili le cariche di lancieri e dragoni che con tanto onore avevano combattuto nelle guerre dell’8oo.
Non che i comandanti degli altri eserciti fossero più moderni. Esclusi i tedeschi, che
avevano maturato la consapevolezza delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano subito perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili assalti a posizioni fortificate, come quelli al famoso «formicaio» nel film Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, un valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.
Giocarono un ruolo essenziale negli eventi tragici di Caporetto non solamente la mancata previsione dell’attacco e di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata confusione nella catena di comando, la disorganizzazione di molti settori dell’esercito, la sottovalutazione del previsto dispiegamento di divisioni tedesche tratte dal fronte russo. Le comandava un valoroso generale prussiano Otto von Below, reduce da molte vittorie e con provata capacità strategica. Con un piano di guerra originale che rompe con la dottrina e le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e che farà meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglofrancesi, sul fronte di Arras - LaFère, nelle Fiandre.
Con lui generali di prim’ordine, con carriere brillanti, come Albert von Berrer, Herman von Stein e Konrad Krafft von Dellmesingen, che di quegli eventi ci ha lasciato una descrizione particolarmente accreditata tra gli storici.
Il resto è noto. Si contarono 35.000 tra morti e feriti, 300.000 prigionieri, 400.000 sbandati; la perdita di un’ingente quantità di armi, cannoni, mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni, automezzi e strutture del l’apparato logistico. Senza contare il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di profughi, l’abbandono delle case, delle aziende, degli animali. Solamente la III Armata comandata da Emanuele Filiberto duca d’Aosta si sganciò con ordine dal nemico. Fu così pronta alla controffensiva di primavera tanto da meritare, nel bollettino della Vittoria, il 4 novembre 1918,l’aggettivo di «invitta».

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