NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 28 maggio 2017

1867: STATO E CHIESA UNITI CONTRO IL BRIGANTAGGIO


di Aldo A. Mola
Centocinquant'anni orsono Regno d'Italia e Stato Pontificio concordarono nella lotta contro il brigantaggio. Il 24 febbraio 1867 Leopoldo Lauri, comandante dei papalini per la zona di Frosinone, e il maggior generale Luigi Fontana dell'Esercito italiano siglarono a Cassino la “convenzione” che autorizzò i propri militari a inseguire i briganti oltre i confini dei rispettivi Stati. Scese la spada di Dàmocle sui delinquenti che da anni sfruttavano il terreno favorevole per le loro imprese. Senza enfasi e in tono sommesso il governo di Pio IX riconobbe il diritto dell'Italia ad annientare il banditismo, dal 1860 spacciato come opposizione legittimista all'annessione del Mezzogiorno alla corona sabauda. L'accordo fu preceduto dai bandi del delegato apostolico, monsignor Luigi Pericoli, per “la più efficace e pronta repressione del flagello brigantaggio che infesta le province di Velletri e Frosinone”.
Esso maturò in un contesto preciso: in forza della Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864 (che comportò anche il trasferimento della capitale da Torino a Firenze), Vittorio Emanuele II garantiva l'incolumità dello Stato pontificio, dal quale Napoleone III ritirò le sue truppe, ma Pio IX era tenuto a mantenere l'ordine al proprio interno. Il via-vai di “bande” (fossero briganti, fossero insorgenti politici, magari anche mazziniani, protocialisti e anarchici) sul confine tra i due Stati avrebbe legittimato l'intervento italiano. Il papa non aveva riconosciuto il re d'Italia, ai suoi occhi usurpatore, anzi aveva scomunicato lui, il suo governo e parlamentari e tutti gli “agenti” del sovrano, ma non aveva mai “benedetto” il “grande brigantaggio”, ormai privo di supporti internazionali mentre l'Italia si accingeva a sedere per la prima volta nella Comunità internazionale (Londra, aprile 1867). Neppure Pio IX aveva mai pensato di classificare il banditismo come “guerra civile”.
In effetti, per sua fortuna, l'Italia non ha mai vissuto una vera guerra civile. Meno che meno nel Mezzogiorno, che, con il plebiscito del 21 ottobre1860, dichiarò anzi di volere “l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale e suoi legittimi discendenti”: una scelta senza alternative, una prima grande “festa nazionale”. Il Paese è stato ed è teatro di lotte tra bande (e tante banderuole), ma neppure nell'antichità conobbe guerre civili. Le parole hanno un significato preciso: “guerra civile” è quella combattuta tra cittadini di uno stesso Stato per l'avvento di un regime diverso. Fu Teodoro Mommsen a classificare “guerre civili” quelle dell'antica Roma, tra Caio Mario e Lucio Cornelio Silla, tra Cesare e Pompeo: una formula generica, posticcia e anacronistica. La successiva contrapposizione tra Caio Ottaviano Augusto e Marco Antonio fu tra due modelli di Impero: fra l'Egitto di Cleopatra e Roma, tra Potere Sacro e potere elettivo, tra Oriente e Occidente. A suo modo “guerra di religione”, semmai.
Crollato l'Impero Romano, dopo secoli durante i quali fu ridotta a preda di vari potentati e di diverse etnie e dopo la greve età franco-napoleonica (1796-1815), l'Italia risorse con due generazioni di patrioti e di guerre per l'indipendenza, l'unità e la libertà. Ora Fabio Andriola, saggista autorevole, afferma che “il tema del Risorgimento e del Regno delle Due Sicilie è dettata (sic) anche da una semplice constatazione: fu una guerra civile perché combattuta da italiani...” (“Storia in rete”, maggio 2017, p. 38). Avvalora questa interpretazione aggiungendo che nelle vene dei Borbone di Napoli “scorreva sangue italiano (…) come sono italiani quanti guardano oggi a quel regno con nostalgia e rimpianto”.
Lasciati dove sono gli alberi genealogici delle varie dinastie europee (solo da Carlo Alberto i Savoia predilessero la propria “italianità” rispetto a precedenti opzioni: tutt'uno con la sostituzione dell'“azzurra coccarda sabauda” col “tricolore italiano” ideato da Luigi Zamboni e Gianbattista De Rolandis), occorrono alcune precisazioni di metodo e di merito per evitare che dilaghino nuove fiabe nella “narrazione” della storia d'Italia.
Richiederebbe molto spazio ma basta un rigo per ricordare la separazione logico-cronologica fra “italici” (abitanti del luogo geografico detto Italia) e“italiani” (cittadini del regno d'Italia dal marzo 1861). Persino i fautori delle leggi razziali proposero di considerare “italiani” quanti documentassero di avere antenati residenti in Italia dall'inizio dell'Ottocento. Per secoli gli abitanti dello “spazio Italia” si scannarono a vicenda, sia per conto dei dominatori di turno sia per appetiti propri. Ma le loro erano lotte di fazioni, non “guerre civili”. Certo, anche Alighieri e Petrarca invocarono l'“'Italia”. Ma Dante se l'aspettava dall'imperatore Arrigo VII; Petrarca la sognava mentre era ad Avignone, alla corte del papa “captivo”. Come detto, seguirono secoli di dominazioni straniere e di umiliazioni. Gli “italiani” servirono i potenti di passo. Succubi.
Tra il 1859 e il 1860, grazie alla sequenza di eventi, parte preparati da tempo parte fortuiti, ed anche con patenti violazioni del diritto internazionale (che del resto era agli albori ed è tuttora un cerotto sulle ferite aperte dal braccio di ferro tra potenze grandi e/o piccole, basta che siano armate e temibili), Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna, acquisì gran parte dell'Italia Centro-settentrionale e le Due Sicilie.
Fu una guerra “tra italiani”? Fu una “guerra civile”? No.
Anche se è ben noto, va ricordato che nel 1859 l'Italia era frantumata in sette diversi Stati. Il  “Lombardo-Veneto” era parte dell'Impero d'Austria. Il ducato di Modena e Reggio e il Granducato di Toscana avevano sovrani due Asburgo. Il ducato di Parma e Piacenza, “a noleggio”, era tornato a un Borbone, la stessa Casa che ancora regnava sulle Due Sicilie: re spergiuri, usi a promulgare e a revocare costituzioni.  Loro unica sponda era rimasta Isabella II di Borbone, regina di una Spagna da decenni insanguinata dalla lotta dei fautori di don Carlos contro cristinisti e isabellini: non guerra civile, ma dinastica. Altrettanto era avvenuto in Portogallo. L'intera Europa era un groviglio di lotte di potere spacciate per “nazionali”, sulle cui pulsioni vennero catapultati, per imbrigliarle, sovrani eterodiretti: Saxe-Coburgo, Hohenzollern... Nel 1870 Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, fu eletto re di Spagna dalle Cortes di Madrid, per meditata pressione del generale Prim, vittima di un attentato mortale proprio mentre il nuovo sovrano vi metteva piede (l'evento è stato ricordato ieri a Reano, vicino a Torino, che ha conferito la cittadinanza onoraria al Principe Amedeo, Duca d'Aosta, capo della Real Casa di Savoia, e a suo figlio, Aimone, Duca delle Puglie, presente il presidente della Consulta dei Senatori del Regno).
Il “riassetto” dell'Europa orientale andò avanti per secoli nelle terre già soggette ai turco-ottomani. Meglio un qualunque euro-occidentale che un “governatore” del Sultano. Lì non ci furono “guerre civili” ma d’indipendenza, con il sostegno estero e pattuizioni internazionali, pilotate dalle Grandi Potenze - Francia, Russia, Prussia - e infine accettate obtorto collo dalla Sublime Porta di Istanbul.
L'unione del Mezzogiorno alla corona di Vittorio Emanuele II nel 1860 fu tutt'altra cosa, anche se coeva. Ricordiamo i fatti, fondamento di ogni valutazione. Il 6 settembre Francesco II di Borbone, abbandonato da gran parte dei sudditi (a cominciare da molti ufficiali) lasciò Napoli e si asserragliò tra Capua e Gaeta per organizzare l'offensiva contro Giuseppe Garibaldi, che l'indomani arrivò in treno nella capitale con appena sei persone al seguito e ne prese possesso, come ricorda Aldo G. Ricci in “Obbedisco” (Ed. Palombi). L'autorità del re era evaporata da quando, assunto il controllo della Sicilia, passato in Calabria e spezzata l'ultima resistenza borbonica a Soveria Mannelli, Garibaldi mostrò di rappresentare l'Ordine Nuovo. La sua impresa non era “guerra civile” ma detonatore dell'insorgenza della Sicilia contro il Borbone, come nel 1820 e nel 1848, quando l'Assemblea dell'Isola del Sole conferì la corona a Ferdinando di Savoia, secondogenito di Carlo Alberto. memore che Vittorio Amedeo II ne era stato Re dal 1713.
Il 2 ottobre Garibaldi sconfisse i borbonici al Volturno: una battaglia vera, campale e di manovra. Il Borbone rimase assediato in attesa di aiuti dall'estero: Napoleone III? La Spagna? Un Congresso europeo? In settembre, previa dichiarazione di guerra, l'esercito di Vittorio Emanuele II avanzò nell'Umbria e nelle Marche e travolse l'esercito pontificio a Castelfidardo col viatico di Napoleone III che aveva raccomandato “fate, ma fate in fretta”. Fra Terra del Lavoro, Molise e Abruzzi bande di borbonici e di popolani aggredirono i “liberali”. Il 30 settembre ne massacrarono molti a Isernia. Il 3 ottobre Vittorio Emanuele assunse il comando dell'Esercito ad Ancona e avanzò verso Sulmona-Isernia. Con aspri combattimenti, il 20 ottobre un corpo dell'Armata sarda agli ordini di Enrico Cialdini sbaragliò i borbonici comandati da Luigi Scotti-Douglas e sorretti da “bande” contadine, forzò il passo del Macerone e irruppe verso Gaeta. Il 26 Garibaldi, a Vairano Catena, presso Teano, salutò “il primo re d'Italia” e gli “passò le consegne”. Giunto a cavallo, Vittorio Emanuele II, proseguì verso Napoli per assicurare ordine e stabilità. L'Eroe si ritirò a Caprera. La sua “missione” era conclusa.
Francesco II di Borbone ordinò la resistenza. Quel conflitto può essere classificato in vari modi: un re contro un altro, il Borbone contro i patrioti, anche meridionali, che da decenni chiedevano l'unità nazionale. Nessuno, però, né allora né poi, parlò di “guerra civile”. Arroccato a Gaeta, Francesco II non si arrese. Dopo un lungo assedio e il pesante bombardamento della città fortificata, il 15 febbraio ne partì con la consorte, Maria Sofia di Wittelsbach, sorella dell'imperatrice d'Austria, Elisabetta (“Sisi”, erroneamente detta Sissi), sul vascello inviato da Napoleone III: alla volta di Terracina, donde proseguì per Roma, accolto dal papa come sovrano. Non abdicò mai. In suo nome ufficiali e volontari accorsi da vari paesi europei (Spagna, Francia, Austria, Svizzera...) organizzarono l'opposizione armata contro il regime avallato dal plebiscito, proclamato dal Parlamento nazionale il 14 marzo 1861 e via via riconosciuto da potenze estere.
Dunque l'insorgenza armata, presto degenerata nel “grande brigantaggio, non fu “guerra civile”: semmai fu la coda del conflitto iniziato con lo sbarco di Garibaldi a Marsala l'11 maggio e proseguito con l'irruzione di Cialdini. Il rifiuto di Francesco II di accettare la debellatio ebbe due conseguenze: anzitutto i militari borbonici catturati e refrattari alla nuova legittimità rimasero prigionieri di guerra, nelle condizioni dell'epoca; in secondo luogo, l'opposizione fu alimentata da tre componenti: nuclei di militari sguinzagliati e finanziati dal sovrano sconfitto in vista di possibile riscossa; antico malessere socio-economico di vaste plaghe oggettivamente arretrate (non certo per colpa dei Savoia), aggravato dal collasso del regime borbonico; clero terrorizzato dalla statizzazione dei beni ecclesiastici e forte di vasto seguito popolano, oscurantista e illiberale,  in terre ove persino la Costituzione del 1848 aveva “vietato” qualunque culto diverso dal cattolico, ai danni di ortodossi, evangelici, riformati e israeliti. Nel Mezzogiorno accorsero inoltre volontari, parte idealisti parte venturieri, taluni fanatici, con le spalle volte alla modernità, per alzare insieme la bandiera del Borbone e quella del papa.
Messo alle strette, il regno d'Italia dovette cauterizzare la piaga del brigantaggio mentre la maggior parte degli Stati stava a guardare, dubbioso che reggesse alla prova. A tutti faceva comodo che l'Italia rimanesse lacerata e sanguinante. Sarebbe stata condannata per sempre al rango di ultima potenza, perpetuamente debole. Tanto valeva sconfessare Risorgimento e unità nazionale. Alcuni, delusi, lo scrissero. Il governo seguì invece la linea dettata dal generale Manfredo Fanti sin dal bando di Isernia del 23 ottobre 1860: applicazione del codice penale militare contro quanti si opponessero alle autorità legalmente costituite. Il 15 agosto 1863 il Parlamento approvò la legge proposta del deputato abruzzese Giuseppe Pica: più attento accertamento della colpevolezza di ribelli e malavitosi, assegnazione dei sospetti a domicilio coatto e mano tesa a quanti volessero rientrare nei ranghi. Pur riconosciuto da importanti Stati (ma non ancora dalla borbonica Spagna), il regno rimaneva in ansia. Non aveva ancora né codici unitari, né una sola banca di emissione della moneta (questa per decenni rimase un sogno). Però dal 1866, dopo l'annessione di Venezia e la fallita insurrezione repubblicana di Palermo, fu chiaro che lo Stato avrebbe retto. Perciò anche Pio IX concluse che i monasteri non dovessero più fare da base o rifugio di criminali e che bisognava trovare un modus vivendi con lo “scomunicato” Monsù Savoia.
Nel 1869 il brigantaggio meridionale risultò praticamente estinto: proprio mentre iniziavano rivolte nell'Italia settentrionale contro la tassa sulla macinazione delle farine e, per una delle tante svolte della Storia (che procede a zig-zag, anziché secondo linee rette), grazie alla sconfitta di Napoleone III a Sedan il governo italiano decise di irrompere nel Lazio e annettere Roma (previo plebiscito) prima che qualcuno vi proclamasse una terza repubblica. Era il Venti Settembre 1870: una data da festeggiare. Neppure Porta Pia fu un capitolo di “guerra civile”: quel giorno venne realizzato il sogno di Camillo Cavour e di due generazioni di patrioti. Vide il coronamento del “miracolo” del Risorgimento, ricostruito da Domenico Fisichella, politologo e storico designato Premio alla Carriera nel 50° del Premio Acqui Storia.
Molto più che di presunte “guerre civili” tempo è venuto di scrivere la storia della cosiddetta“zona grigia”, cioè di quella stragrande maggioranza di Italiani che rimasero spettatori delle tenzoni ideologiche e partitiche e che allo Stato chiesero sicurezza e servizi in cambio dell'esosa fiscalità che li opprime. E' quanto chiedono anche oggi al di là del baccano di tanti “movimentisti” e  “marciatori” senza meta. Occorre fare: in direzione dell'Italia. Anche la chiesa è chiamata a fare la sua parte, come al tempo del resipiscente Pio IX.  

Aldo A. Mola

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