NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 26 novembre 2010

Commemorazione di Sua Maestà la Regina Elena



La moglie del Re
di Giovanni Artieri

La Corona non impedì ad Elena di Savoia di essere una madre esemplare e di condurre una tranquilla vita borghese.

Per indicare Elena, Vittorio Emanuele III diceva più spesso «mia moglie», che « la Regina ». Fu notato da molti, durante il lungo regno; anzi questa predilezione verbale servì ad appoggiare la tesi di coloro, nella Corte, che legati ai ricordi di splendore dei tempi di Umberto e Margherita guardavano con occhio sempre devoto e deferente, ma non scevro di una punta critica, la moglie del Re. Per quanti anni si discusse, molto sottovoce ma non tanto che tutta Italia non udisse, sulla regalità e non regalità di Elena. Quanti paragoni, aneddoti, pettegolezzi, furono ammucchiati, tra i rasi e i tendaggi dei salotti del primo Novecento, attorno a quest'argomento.

Margherita, accantonata nella vedovanza dal regicidio del 29 luglio 1900, aveva lasciato dietro di sé un lungo, meraviglioso strascico luminoso di festa, di magnificenze, di prodigalità, di mecenatismo artistico e culturale. Era una cometa splendente, seguita. nel suo arco celeste dai ritmi e dalle armonie dei versi di Carducci, dalle immaginose righe di Gabriele d'Annunzio cronista mondano. Era difficile « tenere » quello stile, e chi ne rievocava i fasti sapeva di esercitare solamente una nostalgia a vuoto; perché i tempi erano cambiati e col regno nuovo si entrava in un altro e diverso clima, quello che venne detto il clima borghese, della grigia e decorosa civiltà « giolittiana ».
Dei resto lo stesso cammino preso dalle ricerche e trattative per il matrimonio del Principe di Napoli aveva condotto non al trovamento di un'alleanza politica, di una principessa capace di rappresentare qualche cosa nello svolgimento della storia d'Europa, ma - e proprio per volere di Vittorio Emanuele quello, puro e semplice, di una fidanzata di una moglie. La distinzione può apparire sottile, ma non è meno valida; dai suoi limiti, del resto, la regina Elena non uscì mai, salvo rarissimi e fugacissimi momenti.

La sola politica, se così può chiamarsi, effettuata da lei, fu quella di dare una consistenza normale e borghese alla espressione « Famiglia Reale ». Coloro che avevano vissuto i tempi di Margherita le rimproveravano dì aver tolto le iniziali maiuscole a quelle due parole; anzi, di aver soppresso l'aggettivo e fatto della Famiglia Reale, la famiglia del Re: come quella di un funzionario o impiegato, se pure esemplare, dello Stato italiano.

Si pensi, in riassunto, agli inizi dei rapporti tra Elena e Vittorio. A quel loro fidanzamento a Cettigne, dove il Principe di Napoli s'era recato quasi solo a scovare quella magnifica bellezza, e proprio nello stile e nello spirito di quei tempi, in cui quando un giovanotto voleva ammogliarsi sceglieva la futura sposa in provincia, dove non erano ancora arrivate le influenze corruttrici della città, dove non si conosceva cosa fosse una chanteuse e non si adoperava il rossetto per le labbra, opus diaboli.

Anche come avvenne la cerimonia: non diversamente che in casa di un capo-divisione di Ministero, sebbene fosse invitato tutto il popolo della capitale del Montenegro, nella breve piazza dinanzi al konak del babbo dì Elena, il vecchio e valoroso gospodaro Nicola Petrovich, circondato dalla famiglia, dai ministri e dignitari, avendo a lato Vittorio Emanuele e la figliuola. Nessuno si impressioni per la presenza di quei ministri e dignitari coi quali, a detta di Edoardo Scarfoglio, il gospodaro Nicola giocava a carte, seduto sul gradini del palazzetto, nei caldi crepuscoli di estate. Si conoscono le parole pronunciate in occasione del fidanzamento dal vecchio principe montenegrino: «Sua Maestà il Re d'Italia ha dato licenza a Sua Altezza Reale il Principe di Napoli, suo figlio, di fidanzarsi con mia figlia Elena. Il Principe mi chiese la sua mano ed lo gliel'ho accordata. Viva Sua Maestà il Re Umberto I».

Queste furono le pubblicazioni di matrimonio secondo l'uso montenegrino, uguale sia per i principi che per i pastori della Montagna Nera.

Per rispettare questa tradizione, anzi, l'Agenzia Stefani ritardò la trasmissione del telegramma, fino a che il principe Nicola non ebbe parlato. Poco prima della scena sul balcone, nel salone del konak, che poi era una stanza non molto grande, addobbata con mobili di noce e di quercia fabbricati da un ebanista di Bari, Vittorio Emanuele aveva chiesto al gospodaro la mano di Elena, formalmente, parlandogli in italiano. Nicola gli aveva risposto in serbo e poi l'aveva abbracciato e così aveva fatto la moglie, Milena Vucotic'. Quindi la minore delle sorelle di Elena, Vera, di nove anni, aveva offerto un mazzo di fiori alla fidanzata, recitando una poesiola.

Un solo accento di magnificenza in questa sommessa gioia borghese: l'astuccio di marocchino rosso, molto piatto e inciso dello stemma d'oro dei Savoia, che Vittorio estrasse da una tasca interna del suo dolman, aprì con un gesto rapido e porse alla giovane Elena brillava uno dei più bei colliers di diamanti dell'oreficeria fiorentina di quel tempo. L'aveva scelto, per il figlio, lo stesso re Umberto che dì gioielli si intendeva.

Vittorio abitava in un palazzetto a lato del konak, usciva ogni mattina a caccia con un aiutante di campo e un ufficiale del minuscolo esercito montenegrino, accompagnato da giganteschi perianiki, cioè soldati pratici dei luoghi e dei terreni più ricchi di selvaggina.

Spesso era Danilo, il fratello di Elena ad accompagnarlo, per sfoggiare prodezze particolari, come, per esempio, di spaccare un capriolo in due con un sol colpo di scimitarra. Ma Vittorio, per quanto lo consentiva il carattere positivo, sembrava gradire quelle lunghe passeggiate per i monti col fucile spalla solo per il piacere di ritornare a colazione al palazzo, e presentare a Elena un fascetto di fiori di campo. Un'abitudine tenera che non perdette mai, come vedremo, sino agli ultimi giorni della sua vita.

Quasi ogni giorno verso le quattro Vittorio e la fidanzata, con altre persone della famiglia uscivano a cavallo, andavano a trottare dalle parti del Belvedere, sulla strada del lago di Scutari, dinanzi a un panorama vasto e silenzioso. E' questa la sola menzione di Elena come amazzone, che troviamo nelle cronache del tempo.

Naturalmente in quelle settimane felici del fidanzamento montenegrino, ballarono anche; furono, come tutti i fidanzati borghesi di allora, «coppia fissa». Il 31 agosto del 1896, in vista della partenza di Vittorio per l'Italia, venne dal padre di Elena organizzata una festa nel konak. Fu quella la prima volta che la giovane ballò, oltre a un certo numero di polke, il valzer viennese, e naturalmente con lui. Suonarono il Wienerblut di Strauss e, malgrado la disparità di statura, il fidanzato fu bravo.

Dice la cronaca del giornale di Cettigne, Glas Crnogorca (La voce del Montenegro), dal quale traggo queste notizie, che i fidanzati, alla fine del loro giro, non vennero salutati da battimani, perché quest'uso non esisteva nel Paese, ma furono salutati da alte grida di giubilo e il gospodaro Nicola si affrettò a stringere la destra del Principe italiano come si fa dopo un esploit sportivo. Fu ballata la quadriglia. Vittorio ed Elena avevano di fronte il Presidente del Consiglio Bozo Petrovich e una signora montenegrina in costume nazionale. Non si sa come sbagliarono una figura e ne derivò un allegro parapiglia. Fu allora che la giovinetta Elena mostrò molto spirito osservando che nelle quadriglie nelle quali non si sbaglia, ci s'annoia certamente».

Nella vita coniugale di Vittorio e di Elena la pioggia è quasi sempre presente. All'arrivo a Bari, per la cerimonia dell'abiura dalla confessione ortodossa prima del matrimonio, e poi a Roma, pioggia a dirotto. Elena ha 23 anni, Vittorio 27. Essi sono soli, malgrado la folla, le autorità, i soldati, i generali, gli ammiragli, ì parenti. Come saranno soli quarantasette anni dopo, dal 1943 sino alla morte di Vittorio. Elena è triste, sofferente. Quando scese nella cripta della Cattedrale di San Nicola, dal soffitto bassissimo ma splendida di luci, e vi si inginocchiò, Vittorio le era accanto. Il Gran Priore lesse l'atto d'abiura e il nuovo credo della fidanzata. Ella rispose con fermezza: « Credo », ma guardò dalla parte dì lui, del Principe, che la fissava. Non le sorrise, perché Vittorio Emanuele non sapeva né ridere né sorridere, ma le strinse la mano e la prese sotto il braccio, dopo la cerimonia e la firma dell'atto. Poi la lasciò per precederla a Roma, poiché non sarebbe stato corretto viaggiare insieme mentre ancora non erano sposati.

A Roma si svolsero ì riti e le cerimonie spettacolose descritte nelle cronache e nei libri. E furono finalmente soli alla Meridiana di Palazzo Pitti, a Firenze, dove Vittorio era tenente generale, comandante di divisione. Qui le recapitarono la copia di una pagina di D'Annunzio che voleva essere un madrigale magnificente. Diceva: « Ella resuscita nello spirito dei poeti l'immagine della Vittoria che si dislaccia i sandali, e se la memoria dei suoi studi classici soccorre il poeta nell'attimo dell'entusiasmo, ripeterò i versi dell'Ifigenia in Tauride:


O Vittoria molto veneranda
accompagna tutta la mia vita e
non cessare di coronarla... »


Elena mostrò a Vittorio questo singolare autografo osservando ch'era difficile rassomigliare alla Vittoria che si dislaccia i sandali perché la figura manca completamente della testa.

Slava, Elena poteva apprendere facilmente e parlare lingue e dialetti. Così durante trent'anni ella fu l'interprete e traduttrice di suo marito per la lingua russa, per il serbo e per il greco moderno. Riguardava e ritagliava i giornali indirizzati al Re d'Italia da Pietroburgo, da Belgrado, da Atene. Ma imparò per amore di lui anche il dialetto piemontese, sebbene non correntemente e completamente. Quest'è una testimonianza del re Umberto I che notò, una volta, come il Principe si rivolgesse a Elena in piemontese e questa capisse perfettamente ciò che le si chiedeva.

Per quattro anni quello di Vittorio ed Elena fu un idillio coniugale bellissimo, affettuosissimo, ma sterile. Nessuna nube era comparsa all'orizzonte degli sposi, ma questo non bastava all'aspettativa di tutti. Si diceva, persino, che l'amore di Vittorio per la moglie fosse arrivato al punto da mangiare a tavola il borsch alla russa e la castradina di Cettigne, cucinati da lei stessa con le sue mani. Questo potette, probabilmente, avvenire durante il soggiorno all'isola di Montecristo (tra il 1897 e il 1898, in periodi diversi) nell'isolamento selvaggio di quel bellissimo luogo nel quale un padiglione in muratura (riparato in gran parte e per suo gusto dal principe Vittorio, al quale la moglie dava mano senza paura di imbrattarsi di calcina), non offriva certamente i comodi fastosi del Quirinale o dei Palazzo della Consulta.

Di un episodio, tuttavia, si ha notizia, che può rassomigliare, se non ad un dissenso fra coniugi, ad un disappunto, ad un nervosismo. E' curiosissimo. Il gran gusto di Elena e di Vittorio furono, com'è noto, i viaggi di mare a bordo dello Yela o del più grande e sicuro yacht a vapore Savoia.

Nel 1899, col Savoia, i principi raggiunsero le alte latitudini dell'Europa. Andarono a Pietroburgo e di qui a Oslo (ma allora si chiamava Cristiania) dove incontrarono la nave Stella Polare al comando di Luigi, Duca degli Abruzzi, diretta al Polo Nord. Comandante in seconda della spedizione era il tenente di vascello Umberto Cagni, al quale la principessa Elena consegnò un singolare messaggio della fidanzata, la signorina Maria Nasi, nipote del generale Nasi, aiutante di campo di Vittorio Emanuele II. Consisteva in uno dei primi rulli fonografici » comparsi in Italia. E sul rullo era incisa la voce della giovinetta.

Il comandante Cagni ricambiò il saluto con lo stesso mezzo. Evidentemente i due fidanzati s'erano muniti di un fonografo incisore. Elena, dunque, al suo ritorno in Italia (abitava a Napoli, nel Palazzo Reale di Capodimonte), consegnò alla signorina Nasi il saluto del valoroso esploratore.

Questa patetica storia era, evidentemente, a conoscenza di Vittorio, che pensò di far qualche cosa di simile anche lui. Ed ecco che un giorno dice alla moglie di ascoltare attentamente, perché dall'altra stanza gli sembrava di udire delle voci care e familiari. Elena ascoltò e balzò in piedi per la gioia. Erano le voci di suo padre Nicola e della madre Milena che la chiamavano per nome: « Yela, Yela... », e le dicevano tante cose affettuose.

Elena si precipitò alla porta. Ma, di là, trovò la tromba di un grammofono e il rullo che girava lentamente sotto l'ago. Non era uno scherzo ma un tratto di tenerezza di suo marito. Pure la delusione fu più forte d'ogni consolazione. E quella fu la sola nube tra loro presto dispersa.

Le biografie della Regina mettono in rilievo, come un tratto tipico della sua personalità umana, l'amore materno. Riteniamo ovvio ripeterci qui e ripetere ciò che abbiamo narrato altrove. Ma non ometteremo una osservazione tipica della donna che, tutta dedicata alla sua missione di moglie e di madre, deplora dolcemente di aver rinunciato a qualche sua precipua ambizione o qualità. Così anche Elena lamentò, ricevendo nel 1902 lo scrittore Alberto Lumbroso e sua moglie: « Da giovane ho suonato con passione il violino..., ma poi... ho preso marito... ». Tutta dedita al mondo familiare, questa limitazione era del resto nella sua natura. Estensivamente ella pensava l'Italia intera come una famiglia nella quale i bambini e i malati avessero il posto di maggior rilievo. Era un modo, anche questo, e quanto cristianamente e regalmente valido, di considerare la sua missione di Sovrana. Una verità, d'altra parte, perfettamente intesa dall'immensa maggioranza del Paese quando si trattò di esprimere un giudizio su di lei, morta in esilio e nella mediocre clinica di Montpellier. Si vide, allora, come la Regina borghese (la moglie del Re che non esitava spesso a mettere il grembiale bianco e guidare le cameriere e il personale di casa; che badava personalmente alle minuzie di un ricevimento, come avvenne per le nozze di Mafalda a Racconigi e che, durante la prima guerra mondiale, fu davvero infermiera della Croce Rossa, nel Quirinale trasformato in Ospedale da campo n. 1) fosse amata dal popolo grosso, quello che guarda ai grandi temi della vita dei potenti e sa cogliere la verità dei caratteri e discernere dalla retorica encomiastica la nuda verità.

Gli hobbies della Regina, nel suo amore di moglie, coincidevano sempre con quelli del Re: la pesca, la fotografia, le collezioni. Se Vittorio collezionava monete, Elena collezionò, in magnifici album, francobolli. Non si sa, oggi, dove siano finiti. Così egli non amava la musica e lei vi rinunciò; come, evidentemente per non urtare i gusti di Vittorio, smise di scrivere poesie morali, di valore discutibile ma interessanti come documenti. Ne scrisse una, tradotta anche in latino dal senatore Giuseppe Albini, pubblicata dapprima - nel 1904 - nella rivista russa Nedelia con lo pseudonimo di « La farfalla azzurra », poi in tedesco sulla rivista berlinese Das Aussere, firmata «Elena, Regina d'Italia», e infine tradotta in italiano dal Corriere della Sera che l'ebbe dal suo corrispondente berlinese e la stampò nel numero del 17 luglio del 1905. E' un dialogo tra un Principe e una Principessa, ispirato dagli orrori della guerra.

Nel 1946, nel villino Yela, ad Alessandria d'Egitto, già esuli, già percossi dalla sventura nel trono perduto per loro e per i discendenti, nella figliuola Mafalda morta tragicamente nella prigionia di Buchenwald, nel figlio ed erede Umberto, costretto a sua volta all'esilio, Elena e Vittorio celebrarono le loro nozze d'oro. 1896-1946: cinquant'anni di amore inalterato. Elena era stata per cinquant'anni moglie e per quarantasei Regina d'Italia. In lei, nella sua vita, le due missioni umane quasi si confondevano. Come moglie e come Regina aveva obbedito al concetto un po' grigio, un po' arido, un po' burocratico che il Re borghese s'era fatto del suo compito.

Così quando dal Quirinale, donati i Palazzi Reali allo Stato e all'Opera combattenti, Elena passò alla Villa Savoia, sulla via Salaria, fu più contenta, più a suo agio. Ella era, nella palazzina circondata dal grande parco, più vicina alla sua famiglia, che non nella grandiosità papale del Quirinale, dove l'ambiente dettava altri modi di vivere. A Villa Savoia, come alle Cascine Vecchie e al Gombo di San Rossore, come a Sant'Anna di Valdieri e, anche, a Racconigi, le capitava persino di chiamare ad alta voce una cameriera da una stanza all'altra, da un pianerottolo all'altro o di sentirsi rispondere da un corazziere o da un maggiordomo «Maestà, la Tale non c'è...».

Sapeva leggere nei conti, come Napoleone. A Giovanna, non ancora Regina di Bulgaria, insegnò l'uso della macchina per lavori a maglia e gliene comprò una. A Jolanda insegnava a cucire a macchina già nell'età di sei anni. Così faceva venire in casa una sartina per comporre, scomporre, adattare i suoi vestiti e quelli delle Principesse. Immutabilmente la vita della sua casa fu governata dalla costellazione della Modestia: fisse l'ora dei pasti, le ore di svago, l'ora del risveglio. A Villa Savoia, quando ancora tutta la famiglia era riunita, cioè prima dei successivi matrimoni dei figli, s'attendeva in uno dei salottini del pianterreno che il Re ritornasse dal Quirinale, come il papà dall'ufficio. Al suo ingresso lei, Elena, per prima si levava in piedi e gli moveva incontro; Umberto osservava la posizione di «attenti», militarmente, e poi tutti andavano a tavola. Chiacchiere, risate, qualche interruzione vagamente polemica di Jolanda, la più vivace, o di Umberto, il più informato; al caffé passavano nel salotto. Venivano spesso amici: insegnanti di lingue, parenti di Elena, che aveva alloggiate le sorelle sulla vicina via Panama.

Né il fascismo, col tono di grandezza che voleva imprimere al cerimoniale, riuscì a mutare la vita borghese della moglie del Re: anzi le offrì, con la cerimonia della raccolta dell'oro per la guerra d'Etiopia, l'occasione di scrivere, per accompagnare la sua cara fede nuziale del 1896, quella nobile lettera al «Signor Presidente» che procurò a Mussolini un'arrabbiatura perché, imperterrita, la Regina rifiutava di chiamarlo Duce.

Fu imperterrita anche nella semplicità, nella carità, nella fedeltà. Si pensi che ancora nel 1924 non conosceva la ondulazione artificiale dei capelli, ciò che si dice la «permanente». La iniziò a questo la regina Vittoria di Spagna, moglie di Alfonso XIII, ch'ella visitò a Madrid. Appena a Roma Elena chiamò a Villa Savoia il parrucchiere Alberto Egly, che aveva applicato quel procedimento alla chioma della contessa Guglielmina di Campello, dama di Corte. In questo tempo i suoi capelli erano nerissimi. Il parrucchiere credeva fermamente che la Regina si tingesse, Superando l'esitazione, ne chiese a Elena: «Vostra Maestà si tinge i capelli?». «Neanche per sogno», disse Elena «tocchi tocchi pure».

Quel giorno stesso l'Egly e un suo nipote ritornarono a Villa Savoia con tutti gli ordigni necessari alla «permanente» e mentre la Regina si trovava sotto il casco, entrarono a curiosare il Re e il principe ereditario Umberto Naturalmente Vittorio Emanuele III chiese le più circostanziate informazioni sugli apparecchi, sulla tecnica della pettinatura, dell'ondulazione. Ma quando la Regina, molto riccioluta, fu pronta e tentava di passarsi tra i capelli un pettine di avorio, Vittorio Emanuele le disse, non senza sorridere a bocca chiusa: «Rassomigli a Ras Tafari...», cioè al futuro imperatore Ailè Selassiè d'Etiopia. Ma Elena ribatté : «Adesso mando a ondulare anche te...», e risero tutti. Quanto alla carità di Elena, praticata tutta la vita, senza ripetere ciò ch'è ampiamente detto nelle biografie e nelle apologie, basti ricordare i suoi interventi a favore degli ebrei e ciò ch'ella fece (premendo sulla mano del Re come moglie, stavolta) a favore di noti e ignoti, dal suo medico professor Striccoli a tutti coloro che potevano raggiungerla e comunicare con lei. Basti ricordare, inoltre, l'assistenza personale e continua alle opere (per encefalitici, per madri povere, per tubercolotici, per ex combattenti) che recavano il suo nome e stavano sotto il suo patronato.

E per la fedeltà al suo compito umano, colei che venne chiamata anche la Regina Ciclamino, per il colore preferito, per la profumata modestia della persona che fu tra le più splendide tra le donne d'Europa, ricorderemo un gesto abitudinario, quotidiano e se si vuole anche un po' grigio di Vittorio Emanuele, durante l'esilio di Alessandria.

Il 24 ottobre 1946, nel cinquantenario del matrimonio, il Re esule uscì dalla villetta di Smuha, col suo. aiutante di campo Torella di Romagnano, ma non si avviò subito verso il mare. Indugiò tra i muri delle altre ville, tra praticelli e siepi, e si mise a raccogliere un mazzettino di ranuncoli, margherite, fiori di capperi, orchidee selvatiche; fiori da niente, fiori senza padrone. Era ciò che faceva ogni giorno, solitamente al ritorno dalle sue passeggiate, dalle sue melanconiche partite di pesca, dalle rare escursioni tra gli antiquari della città. «Oggi», disse Vittorio, «è il giorno delle mie nozze d'oro con Elena. Bisogna raccogliere un bel po' di fiori». Poi stette soprappensiero. E disse ancora, come parlando a se stesso: «Cinquant'anni con Elena, mia moglie».

Giovanni Artieri

1 commento:

  1. Alberto Egly era il marito della sorella (Maria) di mia nonna sua fglia, Claudia sposo'
    il sig Avenia,i loro figli, Maurizio,donatella e Ambretta, giocavano con me!

    Aurora Ferrante
    Australia

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