di
Aldo A. Mola
Abbassare
l'asticella per saltare più alto?
Il
centenario del 1925 scivola via nell'indifferenza dei “media”. La
contrapposizione di “manifesti” pro e contro il fascismo (Giovanni Gentile da
una parte, Benedetto Croce dall'altra) importava ai loro firmatari e ai loro
(non molti) lettori ma lasciava indifferente la generalità degli italiani e
ancor più l'opinione estera. In vista del rinnovo dei consigli comunali e
provinciali eletti nel novembre 1920, Benito Mussolini, capo di un governo
abbastanza sicuro di sé, si domandò che cosa fosse meglio fare. Cambiare la
legge elettorale prima del voto, ieri come oggi, è la tentazione di chi vuol
vincere anche senza avere la maggioranza dei consensi. Basta abbassare
l'asticella per saltare più alto. Mussolini aveva il pieno controllo della
Camera grazie alla diserzione dall'Aula di democratici, repubblicani, dei due
partiti socialisti e dei popolari, arroccati sull'inutile “Aventino”. Ma il
Senato poteva riservare sorprese. I senatori iscritti al Partito fascista erano
una sparuta minoranza. Alle elezioni amministrative le opposizioni avrebbero
potuto sommarsi ai liberali in un fronte unico, numericamente prevalente. Per
pararsi le spalle il duce doveva disfarsi del loro possibile collante: la
Massoneria. Solo così avrebbe potuto completare il suo disegno: annientare il
regime liberale e sostituirlo con quello fascista. Lo disse chiaro e tondo alla
Camera.
La
legge antimassonica in Senato
Il
disegno di legge sulla “Regolarizzazione dell'attività delle associazioni, enti
e istituti e dell'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo
Stato, dalle provincie, dai comuni e da istituti sottoposti per legge alla
tutela dello Stato, delle provincie e dei comuni” venne approvato alla Camera
dei deputati all'unanimità dei votanti il 19 maggio 1925.
I
passi definitivi verso la conquista del “potere di governo” (altra cosa da
quella sullo Stato, che rimase nelle mani del re, come si vide il 25 luglio
1943) vennero compiuti da Mussolini in Senato il 19-20 novembre, quando i patres
discussero la legge “contro la Massoneria”.
Alle
15:30 del novembre 19 la Camera Alta anzitutto convalidò la nomina a senatore
del quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, clericale e massonofobo.
Il tenore della discussione seguente fu molto elevato. In una vasta perorazione
l'insigne giurista Francesco Ruffini (1863-1934, nominato senatore il 30
dicembre 1914) ricordò le tre libertà cardinali: di pensiero, di stampa e di
associazione. Quando domandò se l'Italia credesse «veramente di tener fermi i
suoi odierni antiliberali ordinamenti» Mussolini lo interruppe: «Sì, finché ci
sono io.» Ruffini aggiunse che l'Italia
non poteva vivere «in una economia chiusa, e non può quindi neanche immaginarsi
di poter vivere di una vita costituzionalmente chiusa». Il messaggio andava
oltre il presidente del Consiglio, ma per farlo arrivare “in alto” occorreva un
“voto” di portata significativa, che non ci fu né quel giorno né poi.
Vittorio Emanuele III, re costituzionale
non poteva sostituirsi alle Camere. Ruffini concluse con le parole di Niccolò
Machiavelli: «Forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno
non contrappesa il nome della libertà.»
Dopo di lui Filippo Crispolti, antesignano
dell'impegno dei cattolici nella vita politica della Nuova Italia, chiese che
venisse chiarita la distinzione tra le associazioni segrete e quelle lecite e
non segrete (come le cattoliche, che non nominò) e impetrò che non si
infierisse su quanti avevano percorso una strada deviante poi abbandonata: i
“massoni pentiti”. Con sottile perfidia aggiunse che «vi possono essere Governi
in cui qualche membro abbia dei precedenti che il Senato non vorrebbe
approvare!». Mussolini rimbeccò: «Ho capito», memore dei suoi precedenti
giudiziari. Era stato condannato e incarcerato per opposizione all’“impresa di
Libia” e successivamente “fermato” per reati contro l'ordine pubblico.
Il
protonazionalista Enrico Corradini ripeté con soverchia irruenza la condanna
della «esotica e svanita mitologia razionalistica, a cui fu dato il nome
sacrilegamente ridicolo di Supremo Architetto dell’Universo», del massone,
«prototipo dell'uomo socialmente basso», e della massoneria, «nazionalmente
criminale per due azioni continuate: per quella antireligiosa e per l'azione
internazionalista» e sollecitò a «riesaminare e regolare la libertà di stampa».
In attesa che il governo proponesse e il parlamento reprimesse la libertà di
stampa, i fascisti lo avevano fatto e lo stavano facendo a modo loro:
bastonando Piero Gobetti, Giovanni Amendola e altri giornalisti e parlamentari
scomodi e spingendo i proprietari o comproprietari di quotidiani di ampia diffusione
a disfarsi dei soci e dei direttori e vicedirettori invisi e scomodi. Fu il
caso del “Corriere della Sera”, dal quale vennero estromessi Luigi e Alberto
Albertini, e di “La Stampa”, sottratta al senatore Alfredo Frassati,
giolittiano. Corradini promise: «L’Italia s'è mossa, l'Europa seguirà».
Osservò: «Fra quaranta milioni di italiani chi grida, o chi piange, perché si
sospendono giornali, si sciolgono partiti? Nessuno. Non si levano voci dal
popolo italiano, in tutt'altre faccende affaccendato». Infine lodò il governo
«disciplinatore e attivo e fattivo». Fu sommerso dal plauso delle tribune, così
sguaiato che il presidente Tommaso Tittoni, antico ministro degli Esteri con
Giolitti, minacciò di farle sgombrare.
Nell'intervento
a sostegno della “legge modesta” Alfredo Rocco, ministro della Giustizia dal 5
gennaio di quello stesso 1925, esordì partendo da quanto il 16 maggio aveva
osservato alla Camera il comunista Antonio Gramsci: la legge non era che «un
anticipo di quella più vasta ed organica legislazione alla quale bisognerà pur
metter mano», a cominciare dalla «disciplina giuridica dei rapporti di lavoro».
Precisò che essa non toccava la libertà di associazione ma «la libertà del
segreto di associazione». Un sofisma. Per bocca sua i fautori del regime di
partito unico enunciarono apertamente i propri obiettivi. Rocco dichiarò che la
legge in discussione era «un primo timido passo sulla via della rivendicazione
dell'autorità dello Stato sulle forze che si organizzano nel paese. […] Lo
Stato deve dominare infatti tutte le forze esistenti nel Paese e non si può
ammettere, come si è purtroppo ammesso lungamente, l'esistenza di
organizzazioni potenti come la Confederazione del lavoro, come le associazioni
di impiegati delle ferrovie, delle poste, dei telegrafi, di marittimi e di
tramvieri, o infine come la Massoneria, che sieno padrone effettive della vita
della nazione». Aggiunse che il governo non dichiarava guerra contro la
Massoneria quale associazione internazionale, «una istituzione innocua e
perfino utile» ma per come essa era in Italia, «dannosa all'ordine pubblico e
alla pubblica moralità». Ripercorso rapidamente il profilo dell'Istituzione dal
Settecento, si soffermò su «il carattere e il programma anticattolico» di
quella italiana. Escluse infine che la legge avesse intenti punitivi con
efficacia retroattiva: «noi non vogliamo che il peccatore muoia, vogliamo
invece che si converta e viva.»
Croce
si astiene, Diaz approva
La
discussione riprese alle 15 dell'indomani, 20 novembre, un venerdì. A nome di
alcuni colleghi come lui travagliati dal dissidio tra giudizio negativo sulla
Massoneria e le circostanze presenti, intervenne per primo Benedetto Croce.
Dichiarò di astenersi dal voto perché la legge era proposta «quando non solo le
condizioni della pubblica libertà sono assai turbate in Italia (commenti
animatissimi), ma si ode proclamare con feroce gioia la distruzione del
sistema liberale (proteste) e questo disegno di legge è considerato come
parte integrante di un unico tutto di leggi antiliberali». Dopo Vittorio
Zupelli, già ministro della Guerra, a favore della legge si dichiarò anche il
generale Guglielmo Pecori Giraldi che propose di aggiungere: «Gli ufficiali di
qualsiasi grado e categoria dei corpi armati dello Stato, che risultino
appartenenti alla Massoneria, o ad altra società segreta, incorrono senza più
nella perdita del grado per mancanza contro l’onore». Lo sapesse o meno, tra
gli “ufficiali massoni” molti erano patrioti benemeriti dell'Italia. Dopo
altri, Mario Orso Corbino annunciò l'astensione e rivendicò la funzione
dell'anticlericalismo. Era stato allievo in un seminario nel quale si
assegnavano voti più alti ai temi nei quali si affermava che «Garibaldi era un
filibustiere, che Vittorio Emanuele II era un nefando usurpatore e che presto
sarebbero scesi in Italia i liberatori del Santo Padre in catene». Nettamente
contrari furono i senatori Vittorino Cannavina e Federico Ricci, secondo il
quale «colle leggi fascistissime di cui questa è la prima, la nazione viene
avviata verso un grave esperimento di nuovo regime». Avversi si dichiararono
anche Nino Tamassia (in specie per «il triste carattere retroattivo che una
giurisprudenza politica di un gran popolo ha voluto equiparare ad un delitto»)
e Guido Mazzoni.
Venne
chiesta la chiusura, approvata per alzata di mano.
Il
senatore Adriano De Cupis, relatore sul disegno di legge, ammonì che «il
diritto alla menzogna è statutario nella Massoneria». Dopo la dichiarazione di
astensione di Vito Volterra e di Eugenio Bergamasco, Armando Diaz, duca della
Vittoria, ricordò che da comandante supremo aveva respinto la proposta
dell’«allora capo della massoneria (Ernesto Nathan) di costituire dei nuclei e
dei centri di propaganda massonica nell'esercito per sollevare il morale dei
combattenti» e annunciò voto favorevole. Malgrado insinuazioni e asserzioni,
talvolta anche perentorie (per esempio da parte di Maria Rygier), non esiste
alcuna prova di iniziazione massonica sua né di Pietro Badoglio. La formula “in
odore di” può forse valere per i santi, non per i massoni. La storiografia non
si fonda sull'olfatto ma sui documenti.
Mussolini: annientare
il regime liberale
Per
ultimo intervenne Mussolini. Negò che il fascismo fosse divenuto antimassonico
solo dopo la fusione con i nazionalisti. Aveva seguito un progetto proprio,
articolato e coerente. Dapprima aveva «demolito il bolscevismo, poi ha
affrontato la Massoneria, finalmente il regime liberale». Ora era la volta del
terzo “nemico”, non ancora completamente distrutto ma ormai periclitante e
senza difensori in Parlamento, come appunto era emerso nei primi undici mesi
del 1925. Rivendicò che quello stesso 20 novembre ben 900 banchieri degli Stati
Uniti d'America lanciavano l'acquisto di azioni del Prestito italiano:
un'operazione complessa sotto il profilo tecnico e politicamente redditizia
perché mostrava che il nuovo regime aveva il sostegno della più solida economia
mondiale. Non accennò minimamente a quanto, a sostegno del prestito, stava
facendo oltre Atlantico Raoul Palermi, gran maestro della Serenissima Gran
Loggia d'Italia. Concluse: «Con questa legge si chiude evidentemente un periodo
della storia italiana, e io potrei modestamente dire che raccolgo i frutti di
una lunga e tenace campagna».
Su
235 presenti, 208 votarono “si”, 6 “no” e 21 si astennero. Tra i “si” vanno
ricordati Ernesto Artom, Badoglio, Luigi Cadorna, Eugenio Cagni, Alfredo
Dallolio, Bassano Gabba, Emanuele Greppi, il marchese Raniero Paulucci de
Calboli, Camillo Peano, Gabriele Pincherle, Vittorio Polacco, il generale Carlo
Porro, Vittorio Puntoni, Francesco Salata, Giuseppe Salvago Raggi, il conte
Salvatore Segré Sartorio, Paolo Thaon di Revel, Pietro Tomasi della Torretta,
il principe Giovanni Torlonia, Adolfo Venturi e Giulio Venzi. Votarono “no”
Nicola Badaloni, Alfredo Canevari, Vittorino Cannavina, Carlo Fadda, Ricci e
Ruffini. Tra gli astenuti, oltre a Mario Orso Corbino e Croce, si contarono
Alfredo Lusignoli, Gaetano Mosca, il marchese Emanuele Paternò di Sessa, massone
insigne, e Leo Wollemborg.
Nel
dibattito sugli articoli, ricordato che non poteva essere «condannata in
toto, in maniera assoluta e con tanta facilità, una associazione che
aveva avuto tra i suoi membri italiani Romagnosi, Garibaldi, Cairoli, Carducci
e Bovio», Ettore Ciccotti domandò a Rocco se era giuridicamente ammissibile
«obbligare, sotto gravi sanzioni e in forma coattiva, qualcuno ad accusarsi da
sé». Neppure il codice penale lo pretendeva. Il ministro cercò di conferire
alla legge un profilo molto basso: «Faremo indagini non su tutti gli impiegati,
ma solo su quelli per i quali abbiamo fondati motivi di ritenere che sono
massoni. E a questi giustamente domanderemo anche se lo sono stati, perché
l'essere stato massone in tempo recente è grave indizio per ritenere che lo
siano tuttavia». Argomenti da “ministro della polizia investigativa” (chi, come
e perché si era procurati i “fondati motivi” di imputabilità per un reato
inesistente?), che non confortano la sua celebrazione quale “giurista insigne”.
Nella votazione finale la legge passò con 182
voti favorevoli e 10 contrari.
L'abolizione
dei consigli comunali e provinciali elettivi
La
Camera il 18-21 e 25-28 novembre approvò i bilanci di previsione del 1926 e la
consueta congerie di leggi ordinarie. Altrettanto avvenne il 2-5, il 9-12 e
16-19 dicembre, mentre la “piazza”, ormai sotto pieno controllo del Pnf,
tumultuava chiedendo la pena di morte per gli attentatori alla vita di
Mussolini.
Mentre
l'indagine a carico di Tito Zaniboni e di Luigi Capello procedeva a rilento,
Mussolini accelerò la marcia verso il regime di partito unico lungo tre
direttive: anzitutto cancellare la libertà di scelta dei rappresentanti alla
Camera e nelle amministrazioni locali, conservando tuttavia l'esercizio del
voto nelle elezioni politiche per farne un plebiscito a favore del governo,
come in tutti i Paesi totalitari d'Europa; inoltre bisognava subordinare al
partito fascista il pubblico impiego e, infine, concentrare nelle mani del capo
del governo il massimo dei poteri, sino a farne l'interlocutore unico del re.
La fase decisiva della costruzione del regime venne facilitata
dall'autoesclusione delle opposizioni dall'Aula, a eccezione della pattuglia
giolittiana e dei comunisti.
Dopo il successo alle elezioni del 6 aprile
1924 e il furbesco annuncio del ritorno ai collegi uninominali (mai attuato)
Mussolini non era affatto tenuto a convocare nuove elezioni generali, che, se
del caso, si sarebbero svolte sulla base della “legge Acerbo”, smodatamente
maggioritaria. Gli premeva invece eliminare l'elettività delle amministrazioni
locali. La legge 11 settembre 1925, n. 1756 in un articolo unico sancì che
«quando sia necessario, il prefetto ed il sottoprefetto possono, secondo le
rispettive competenze, affidare provvisoriamente ad appositi commissari la
reggenza delle amministrazioni provinciali, comunali e consorziali», ma solo
per la durata di due mesi quando fosse in carica la metà dei consiglieri. I
consigli comunali e provinciali in carica erano stati in gran parte eletti nel
1920 e avevano registrato il successo dei “blocchi nazionali” (liberali,
combattenti, nazional-fascisti) poi varati col benestare di Giolitti nelle
elezioni politiche del maggio 1921. In molte elezioni amministrative svolte
dopo l'avvento del governo Mussolini socialisti e popolari avevano ottenuto
esiti soddisfacenti anche in città di rilievo. Il Pnf, ancora poco organizzato,
aveva tuttavia ottenuto lo scioglimento di numerose amministrazioni locali con
aggressioni e minacce a sindaci, componenti di giunte e consiglieri o con la
promessa di contributi statali per il completamento di opere pubbliche da tempo
in progetto o in cantiere ma ferme per carenza di fondi. Il disavanzo di
amministrazione divenne motivo (o tagliola) sufficiente per decretare il
commissariamento sulla base del controllo dei bilanci degli enti locali da
parte della apposita commissione prefettizia, grimaldello del ministero
dell'Interno per irrompere nelle autonomie locali. Fu il caso del consiglio
comunale di Roma, la cui amministrazione venne affidata a Filippo Cremonesi il
19 aprile 1923 creato senatore per la 21^ categoria.
Il
rinnovo dei consigli locali poteva costituire un’importante opportunità per i
partiti di opposizione, indotti a convergere su liste unitarie. Il rischio fu
scongiurato in due tappe. Dapprima il rinvio delle elezioni e poi la legge 4
febbraio 1926, n. 237 che sostituì i consigli comunali elettivi nei comuni non
eccedenti i 5.000 abitanti con il podestà nominato con decreto reale, assistito
da una consulta comunale, eventualmente formata su parere del prefetto. In
carica per cinque anni, con possibilità di essere sempre confermato, il podestà
poteva essere trasferito dal prefetto da un comune all'altro della provincia ed
esercitava tutte le funzioni precedentemente spettanti a sindaco, giunta e
consiglio comunale. Podestà vennero nominati personalità dalle comprovate
competenze “tecniche”, spesso ufficiali delle forze armate, assistiti dai
segretari comunali, vegliati dal ministro per l'Interno tramite i prefetti. Con
i Regi decreti 15 aprile e 3 settembre 1926 l'istituto podestarile fu esteso a
tutti i comuni del regno, che dipesero quindi dal governo tramite i prefetti,
chiamati a determinare gli enti economici, i sindacati e i sodalizi locali ai
quali competeva proporre i consultori comunali.
La
svolta verso il regime di partito unico non si risolse dunque in un colpo di
mano improvviso. Richiese quasi due anni e una concatenazione di interventi in
parlamento, leggi e circolari attuative. L'edificio sorse da un progetto
organico, vegliato da maestranze qualificate, con una folla di addetti. Opera
da Grande Architetto. Con varie “migliorie”
durò diciotto anni. Crollò solo per la catastrofe bellica del 1943,
quando ormai la stragrande maggioranza degli italiani neppure ricordava le
elezioni di una Camera pluripartitica e dei consigli locali.
Il
gusto della libertà è per palati fini.
Aldo
A. Mola
DIDASCALIA:
Benito Mussolini “domatore”. Alternò sorrisi e minacce. Intervenne in
Parlamento e rimbeccò parlamentari illustri. In un paio d'anni impose un regime
che le opposizioni non videro arrivare.
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