NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 23 aprile 2025

LA “NUOVA ITALIA” FU SUBITO EUROPEA

di Aldo A.Mola

Re costituzionale, “per volontà di Dio e per volontà della Nazione”

Il 14 marzo 1861, con 294 presenti e votanti su 443 membri (neanche due terzi), la Camera dei deputati approvò all'unanimità la legge, presentata tre giorni prima da Camillo Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, e già sanzionata dal Senato il 26 febbraio precedente, che recita: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d’Italia.» Così nacque il Regno d'Italia. Non di forza propria ma per partenogenesi arrenotoca. Il sovrano assunse il titolo di re dello Stato sul quale già regnava. La mattina del 17 marzo, una domenica, Re Vittorio firmò il decreto, sottoscritto da Cavour e da altri ministri. A Torino e a Firenze l'evento fu festeggiato con i rituali 101 colpi di cannone. L'indomani la legge venne pubblicata nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”: da quel giorno, a rigor di norma, andrebbe datata la nascita della Nuova Italia. Un mese dopo, il 17 aprile 1861, la Camera approvò un'altra importante legge, già delibata dal Senato il 24 marzo: gli atti di governo e ogni atto del sovrano andavano intestati in nome di Vittorio Emanuele II, «per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia». Su 232 presenti i voti favorevoli furono appena 174; i contrari 58.

   Il Regno sabaudo nacque europeo, ma la sua strada fu subito in salita. Dopo sessant'anni di dominio  straniero, prima napoleonico e poi asburgico, e la lunga gestazione fatta di cospirazioni settarie (massoni e carbonari), di moti, insurrezioni, repressioni, carcere duro, supplizi, esilio e di battaglie (con “regolari” e volontari in campo), in meno di due anni, tra il 1859 e il 1860, nacque un'Italia quasi unita, quasi indipendente e quasi libera, con un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, che se ne accollò le sorti a cospetto  dell'Europa.

  A fine marzo 1861 Cavour ottenne “alla quasi unanimità” la proclamazione di Roma capitale d'Italia: un atto di fede nel futuro ma, al tempo stesso, di ostilità nei confronti di Pio IX. Il papa avrebbe rinunciato pacificamente al potere temporale o si sarebbe opposto? L'“Italia” sarebbe entrata in Roma senza usare le armi, come promise Cavour, o a cannonate e fucilate, come poi avvenne il 20 settembre 1870?

 

Ma chi ti conosce, Italia?

Le partite aperte il 14-18 marzo 1861 erano dunque molte e molto aggrovigliate.

   Lo si percepì dal gelo della Comunità internazionale di fronte alla proclamazione del nuovo Regno. Il 27 marzo Emanuele Tapparelli d'Azeglio, ambasciatore a Londra, fu ricevuto come rappresentante del Re d'Italia. L'anglicana Inghilterra fu seguita il 30 dalla Svizzera, la terra di Giovanni Calvino, ove i cantoni cattolici pochi anni prima eran stati debellati da quelli “federali”, e lo stesso giorno dalla Grecia, ortodossa. Il 13 aprile fu la volta degli Stati Uniti d'America, tolleranti verso tutti i culti ma senza “religione di Stato” e avviati alla guerra di secessione. E i Paesi cattolici?

   Gran Bretagna a parte, l'Europa stava a guardare, con circospezione. Molti attendevano di capire le vere intenzioni di Napoleone III, la cui condotta verso l'Italia era peggio che ambigua. Nell'aprile 1859 aveva fiancheggiato Vittorio Emanuele II contro l'impero d'Austria per ingrandire il regno di Sardegna, ma solo sino a Milano, ove l'imperatore entrò precedendo a cavallo il sovrano sabaudo. Poi aveva concordato a Villafranca l'armistizio con Francesco Giuseppe d'Asburgo all'insaputa dell'alleato e di Cavour, che si dimise da presidente del Consiglio subito dopo uno aspro scontro con il re. A malincuore Napoleone III aveva consentito l'invasione dei “piemontesi” in Umbria e nelle Marche («fate, ma fate in fretta» intimò ai “missi” di Vittorio Emanuele II), a patto che non toccassero il residuo Stato pontificio. Di seguito fece prelevare da Gaeta, ove era assediato e ormai sconfitto, Francesco II di Borbone, esponente della dinastia più volte rovesciata dai Bonaparte. Lo fece trasferire nella Roma di Pio IX. Quali giochi faceva il “fosco figlio di Ortensia”, carbonaro, rivoluzionario, principe-presidente, vindice della “grandeur” della Francia eterna?

   Solo il 25 giugno 1861 Napoleone III si rassegnò a riconoscere il Regno d'Italia: dopo l'imprevedibile morte di Cavour, appena cinquantunenne. Lo fece a denti stretti, con la lettera del 12 luglio a Vittorio Emanuele II in cui ricordò al «Signore suo Fratello» che aveva propiziato l' “unione”, non l'“unificazione” dell'Italia. Per placare il malumore dei francesi, sin dagli accordi di Plombières con Cavour, nel luglio 1858, egli aveva pattuito l'aiuto contro l'Austria in cambio della Savoia, geograficamente francese, e del Nizzardo, geograficamente italiano. E ora? Non aveva mai subordinato la politica alle gonnelle.

   Dai tempi di Carlo Alberto (1831-1849) il regno di Sardegna aveva allestito un'ampia ed efficiente rete di diplomatici navigati. Erano quasi tutti di famiglie aristocratiche, doviziose e fedeli alla Corona, preparati e orgogliosi del proprio ruolo. Vittorio Emanuele II se ne valse anche per corroborare la strategia matrimoniale propria delle Case regnanti. La sua era la più antica d'Europa. Nell'ambito degli accordi con Napoleone III aveva “sacrificato” la figlia Clotilde, andata in sposa a Carlo Gerolamo Bonaparte, cugino dell'imperatore, massone, dai costumi non illibati ma politico raffinato. Un'altra figlia, Maria Pia, sposò il re del Portogallo. Pare che lo sposo potesse/volesse offrire l'Angola come dono di nozze. Vi si contavano meno di mille portoghesi. Per Lisbona non era un possedimento irrinunciabile. Sarebbe stata una base importante per Torino, che aveva relazioni con molti Stati dell'America meridionale. Ma la Gran Bretagna, che dello Stato lusitano era tutore da secoli, non gradì e non se ne fece nulla.

Continuando a inanellare riconoscimenti in terre non cattoliche, il 6 luglio 1861 l'Italia ottenne quello dell'Impero turco-ottomano, che voleva dire porte aperte ai traffici marittimi con il Vicino Oriente e il Mar Nero, fondamentale per l'importazione di semi di filugello, preziosi per bachicoltura e manifatture seriche, all'epoca di primaria importanza in Italia. Altrettanto gratificante fu il riconoscimento da parte dei calvinisti Paesi Bassi nell'agosto del 1861. Oltre a essere importante commercialmente e finanziariamente, l'Olanda apriva la strada verso Danimarca e Scandinavia, Stati luterani.



Dieci anni dopo, sulla fine del 1870, la strategia matrimoniale di Casa Savoia fece tutt'uno con la grande politica. “Las Cortes” (Parlamento) di Spagna, su impulso del generale Prim, massone, offrirono la corona al ventenne Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, fratello di Umberto, erede di quella d'Italia. Dopo accorate pressioni di suo padre, Vittorio Emanuele II, accettò. Sua moglie, Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna (1847-1876), nata in una delle Famiglie più prestigiose e ricche d'Europa, fece di tutto per farsi amare dagli spagnoli, tra i quali, però, serpeggiavano repubblicani e anarchici, che ordirono ripetutamente attentati ai sovrani. Amedeo restituì la corona e a Madrid nacque la prima Repubblica, che finì male. Sul trono tornò un Borbone. L'unione italo-spagnola avrebbe cambiato il corso della storia europea all'insegna della fratellanza dei popoli e della pace tra gli Stati. Fu un'occasione perduta.

 

Le tre piaghe del nuovo Regno

Il neonato Regno però doveva affrontare gravissimi problemi interni.

In primo luogo Pio IX aveva risposto alla spoliazione dei propri domini con la scomunica maggiore del Re, del governo e di tutta la dirigenza politico-amministrativa sabauda. Sin dalle “leggi Siccardi” contro i privilegi del clero (1849), gli ecclesiastici del regno di Sardegna avevano intrapreso una serrata lotta contro il governo, che aveva risposto in termini altrettanto fermi. L'arcivescovo di Torino era stato arrestato (il generale Alfonso La Marmora lo prelevò di persona dal Vescovado), tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dallo Stato, benché fosse cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del re”. Per gli acidi articoli sulla vita privata del re, don Giacomo Margotti era stato pesantemente percosso con un nodoso bastone portato in omaggio “a chi doveva sapere”. Anche don Giovanni Bosco aveva dovuto fare i conti con la linea anticlericale del governo. Cavour, infine, aveva fatto decadere quattro canonici eletti alla camera subalpina, non perché avesse bisogno dei voti di chi prese il loro posto, bensì per evidenziare la divaricazione tra il programma suo e quello dei “moderati”, contrari ad aprire contenziosi con la Santa Sede.

Il secondo fronte della Nuova Italia fu la guerra contro il “grande brigantaggio” alimentato nel Mezzogiorno da stranieri (parte per dedizione, altri per denaro) e dai clericali che si valevano di conventi e chiese quali asilo e per il rifornimento degli insorgenti. Il governo non esitò a usare mano ferrea, memore delle compagnie di Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo e consapevole del rischio che deflagrasse l'unità nazionale, proclamata ma non ancora radicata.

Non bastasse, nell'estate 1862 Giuseppe Garibaldi, circonfuso dalla gloria di liberatore del Mezzogiorno dal dominio borbonico, allestì alla luce del sole e nell'inerzia del governo, presieduto da Urbano Rattazzi, la spedizione “Roma o morte”, reclutando volontari con il sostegno della rinascente massoneria italiana e ottenendo sussidi da quanti, all’estero, avevano conti aperti con Roma dai lontanissimi tempi delle guerre di religione. Per Garibaldi l'impresa aveva varie motivazioni. La più esplicita era, appunto, la liberazione di Roma dal papa-re, restaurato dai francesi dopo il naufragio della Repubblica romana da lui proclamata nel 1849, molto prima che ci arrivasse Mazzini. Riprendeva inoltre il cammino interrotto nell'estate del 1860, quando, sconfitti i borbonici nella battaglia del Volturno, nella quale mostrò doti di autentico condottiero, si vide tagliare la strada su Roma da Vittorio Emanuele II, accorso in Campania proprio per imbrigliare una deriva che avrebbe comportato la sconfessione da parte di Napoleone III. In terzo luogo, ormai morto Cavour, Garibaldi riproponeva da lontano la disputa sulla cessione del Nizzardo alla Francia, che per lui costituì una questione aperta sino a quando compì il suo ultimo viaggio in Sicilia per celebrare il sesto centenario dei “Vespri siciliani”, dalla valenza smaccatamente antifrancese. Infine intendeva contrapporre la sua egemonia sulla “sinistra democratica” ai seguaci di Giuseppe Mazzini, dal quale si era diviso sin da quando aveva assunto la vicepresidenza della Società Nazionale e che ormai detestava, non solo in privato, come ostacolo per il coronamento dell'unificazione nazionale.


L'impresa garibaldina rischiò di mettere in discussione la credibilità del regno quale fattore di stabilità per la precaria “pax europea”, ristabilita dopo il Quarantotto, la guerra di Crimea e quella franco-piemontese/asburgica del 1859. Il governo di Torino dovette pertanto intervenire “manu militari” per “arrestare” (nel duplice senso di fermare e di incarcerare) Garibaldi, per di più fortuitamente ferito sull'Aspromonte, un mese dopo il prestigioso riconoscimento del regno da parte dell'impero russo (8 luglio) e del regno di Prussia (18 luglio).

 

Una politica estera tra le tempeste

I successi in politica estera non caddero dal cielo. Erano anche frutto dell'iniziativa personale del re, che, “fons honorum”, conferiva oculatamente insegne cavalleresche. Particolare rilievo ebbero i collari della SS. Annunziata assegnati nel 1861 a Carlo XV re di Svezia e di Norvegia, a Federico VII di Danimarca, ad Abdul-Aziz-Khan, sultano dell'impero turco (non devotissimo al culto mariano), all'arcivescovo di Genova, Andrea Charvaz, al consigliere del re del Portogallo, Luigi Antonio d'Abreu e Lima, ad Augusto, principe di Portogallo: un cammino che proseguì con lo Scià di Persia, Nasser-Ed Din, e con il bey di Tunisi, Muscir Mohammed-Es-Sadok… Il 29 marzo 1865 il re conferì il Collare allo sfortunato Massimiliano d'Asburgo, “imperatore del Messico”. Due anni dopo, il 13 gennaio 1867, fu la volta di Federico Carlo, principe reale di Prussia, e del conte Ottone di Bismarck Schoenhausen, poi cancelliere dell'Impero di Germania.

   Nel frattempo il regno d'Italia venne riconosciuto dalla Spagna (12 luglio 1865), ultimo fortilizio borbonico, dai regni di Sassonia e di Baviera (novembre), dal Brasile, dal Messico e dal Belgio. Nel 1866, il regno sabaudo compì un altro passo avanti, con l'annessione del Veneto euganeo e di Mantova, città fortificata d'importanza strategica per l'intera pianura padana, a conclusione della guerra italo-prussiana/asburgica, importante non solo per l'ingrandimento territoriale ma anche quale prova della volontà/capacità della nuova e fragile Italia di entrare nel novero delle grandi potenze con ruolo autonomo rispetto a Gran Bretagna e Francia, prime fautrici e tutrici della sua nascita

   Le ripercussioni si registrarono nel maggio 1867 con la partecipazione dell'Italia alla conferenza diplomatica di Londra sulla sorte del ducato di Lussemburgo. Per la prima volta i suoi rappresentanti sedettero a fianco di quelli dell'impero austro-ungarico. Fu il punto di arrivo propiziato da diplomatici di alto livello, cresciuti alla scuola di Cavour: Costantino Nigra, incaricato d'affari e poi ambasciatore a Parigi, e Isacco Artom. Lo stesso anno, con l'incontro italo-pontificio avvolto nel necessario riserbo, fu raggiunta l'intesa di reprimere congiuntamente il brigantaggio che ormai non giovava a nessuno. Altro premeva sull'orizzonte per l'accreditamento dell'Italia nel “concerto europeo”: fermare iniziative avventate e destabilizzanti (come la spedizione garibaldina naufragata a inizio novembre nei pressi di Mentana) e reprimere atti terroristici, come venne considerato l'attentato messo a segno alla caserma Serristori in Roma.

 

Le treEsse”: dall'ingresso in Roma al Mar Rosso

L'annessione della Città Eterna all'Italia continuò nondimeno a costituire il “porro unum necessarium” di una vasta schiera di patrioti: non solo mazziniani (ridotti ormai a esigua frangia) e garibaldini, di molto maggiore consistenza, anche per la mai deposta insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, ma anche di liberali, convinti che senza la soluzione della “questione romana” il regno sarebbe rimasto incompiuto e quindi vulnerabile per il groviglio di anticlericalismo e di estremismi di varia ascrizione. Lo si vide con l'“Anticoncilio” radunato a Napoli il 9 dicembre 1869, in contrapposizione al Concilio ecumenico vaticano inaugurato il giorno precedente in Roma.

   La soluzione venne dall'esterno, con la terza “s” propizia all’Italia: dopo le battaglie di Solferino e Sadowa, la sconfitta di Napoleone III a Sedan. Pressato da Quintino Sella, il governo presieduto da Giovanni Lanza ordinò al IV corpo dell'Esercito comandato da Raffaele Cadorna di irrompere in Roma con le armi: una battaglia breve e sanguinosa, che aprì una ferita profonda non solo tra cattolici e liberali in Italia ma anche in molte capitali. Il Belgio fu sul punto di ritirare l'ambasciatore da Firenze, ove dal 1865 era stata trasferita la capitale.

   L'avvento della Repubblica a Parigi non modificò la politica estera della “sorella latina”, venata di diffidenza e di sorda ostilità nei confronti dell'Italia, considerata ingrata e persino pericolosa. Abbandonato ogni sogno di ulteriore ingrandimento sul confine orientale, lunghissimo e militarmente svantaggiato, l'Italia investì per decenni sulle difese a occidente, perché da lì erano arrivate le “invasioni” negli ultimi secoli.

   La geografia dettava la politica. Perciò, malgrado tutti i guai di casa, la Nuova Italia dovette imboccare anche la via dell'espansione Oltremare. Sbarrata la costa meridionale del Mediterraneo dalla Francia, che impose il suo protettorato sulla Tunisia, si avventurò nel Mar Rosso, in Somalia, si convinse di rappresentare l'Etiopia. Tutti passi più lunghi della sua gamba, ancora adolescente, ma coerenti con la scelta compiuta nel maggio 1882: la firma del trattato difensivo con l'impero austro-ungarico e con quello di Germania, i cui “kaiser” ostentavano ammirazione, ricambiata, per la terra amata da Federico II Staufen, “stupor mundi”.

   Nella nascita e nei decenni sino alla conflagrazione europea del 1914 l'Italia ebbe occhiuti sorveglianti, poi alcuni alleati, ma nessun amico. Dopo secoli di dominio straniero e di divisioni interne, destinate a durare, imparò a fare da sé.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA: L'ingresso in Milano di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Magenta (4 giugno 1859) sugli asburgici di Francesco Giuseppe d'Austria (dipinto di G. Bertini). Luigi Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi col nome di Napoleone III, carbonaro, cospiratore, arrestato e a lungo detenuto, sognò da Capo di Stato di restituire alla Francia il ruolo di comprimario della storia europea. Sposò l'aristocratica spagnola Eugenia di Montijo y Taba. Per l'Italia operò di concerto con Camillo Cavour e, ancor più, con Vittorio Emanuele II. Più volte bersaglio di attentati che seminarono morti e feriti, aveva una visione planetaria del ruolo civile dell'Europa. Mentre combatteva a fianco del Piemonte contro l'impero d'Austria stava conquistando l'Indocina che per un secolo fu croce e delizia del colonialismo francese. Immaginò Massimiliano d'Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe d'Austria, suo rivale storico, imperatore del Messico. Tradito e arrestato, Massimiliano fu fucilato a Querétaro per ordine di Benito Juárez. Se vittorioso avrebbe cambiato la storia delle Americhe e, con essa, quella del pianeta. Già allora politici e statisti lungimiranti pensavano in termini “mondiali”, anziché nazionali e meno ancora nazionalisti. Non decidevano su impulsi passionali, ma con visioni razionali.

Aldo A. Mola

INVITO MUSEO ARA PACIS AUGUSTAE

Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano,

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

Invito MUSEO ARA PACIS AUGUSTAE

L’Incontro, occasionato dal Natale di Roma,
illustrerà l’analogia tra l’Ara Pacis e l’Altare della Patria,
mettendo in luce un nesso essenziale
tra la Pax Augustea e l’Unificazione Nazionale.
VENERDI’  POMERIGGIO  25  APRILE  2025  ORE  16
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PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA


INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674  



          Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro



sabato 12 aprile 2025

Effetto-Carlo III. Il complesso monarchico della Repubblica. Un messaggio pedagogico

 


di Fabio Torriero

 

Archiviato il viaggio di Stato in Italia di Re Carlo III, qualche riflessione dobbiamo pur farla. Non si tratta, infatti, di ricordare la semplice cronaca di un viaggio (da Roma a Ravenna), che è stato un indubbio successo. E non solo per l’amore che il sovrano ha per il nostro paese, ma anche e soprattutto per un messaggio universale che resterà scolpito nella nostra memoria collettiva.

Carlo, durante il lunghissimo periodo di eterno erede, sembrava un uomo insulso, astratto, privo di personalità; totalmente emarginato e condizionato dalla leadership pesante, pressante e carismatica della madre, la regina Elisabetta.

La sua “postura regale” si limitava a suggestive quanto vuote dissertazioni intellettuali, ambientaliste, umanitarie, artistiche. Una sorta di fuga dotta dalle incombenze e competenze pratiche di futuro re.

Per non parlare poi, della tragica vicenda che lo ha legato al “matrimonio farsa” con Lady D, dove è uscito con le ossa rotte, apparendo come un padre irresponsabile, ambiguo, plagiato dalla “strega”, ora regina Camilla, che, al contrario di ogni previsione, ha avuto il merito di risalire la china mediatica, trasformandosi con discrezione e compostezza, da dannata a consorte degna di rispetto e ammirazione pubblica. Della serie, il vero amore (non quello pianificato a tavolino per ciniche ragioni dinastiche), alla fine vince sempre, come una bella fiction.

Nel suo viaggio tricolore, dove politica, cultura, rappresentanza e divertimento, l’hanno fatto da padroni, Carlo ha ben rappresentato la vocazione europeista del Regno Unito; una strategia dialogante, conciliante, moderatrice, che gli stessi governi inglesi, sia laburisti, sia conservatori, non sono mai riusciti a comunicare bene. Sia per la Brexit, sia per finalità geo-economiche.

Specialmente ora, in una fase storica estremamente delicata, in cui si odono clamori bellici, si paventano crisi economiche, finanziarie e migratorie, un “ambasciatore dell’identità” come lui, è stato un flusso benefico.

Ma la cosa che è emersa nel suo intelligente, gentile quanto erudito discorso (in parte in italiano), nel nostro parlamento riunito, è stato lo stile sobrio, elegante che ha saputo trasmettere.

E non è solo il risultato di una sua capacità individuale, ma è il Dna stesso della monarchia.

Carlo III, grazie al suo intervento, tra l’altro molto apprezzato, ha restituito agli italiani, alla politica e agli osservatori, un dono che stiamo smarrendo: il rispetto della dialettica parlamentare, la sacralità delle istituzioni, la mistica dello Stato-persona, l’importanza dei simboli identitari viventi che uniscono le nazioni, oltre le ideologie e le contrapposizioni.

Tutto in poche ore. Tutto in una visita. E l’abbraccio della gente, gli applausi sperticati e trasversali dei parlamentari, accorsi in massa, emozionati, interessati, qualcuno pure con la cravatta rosso-blu in omaggio ai colori della Corona inglese, hanno costituito la prova più evidente della “voglia di monarchia in repubblica”, o quanto meno, del bisogno da noi di una monarchia come quella inglese.

Una tale opzione sarebbe un buon correttivo e uno deciso stop alla nostra attuale becera politica e comunicazione politica. Dove regnano non sovrani, che hanno studiato per questa funzione arbitrale, ma guitti, populisti, spot-man, deputati e senatori volgari, ignoranti, impreparati. Forse la gente è stanca di risse mediatiche e di slogan vuoti. Da Trump a Putin, passando per Macron e la Von Der Leyen. E ci siamo limitati ai generali. I caporali si commentano da soli.



Fonte:

Effetto-Carlo III. Il complesso monarchico della Repubblica. Un messaggio pedagogico » LO_SPECIALE

venerdì 11 aprile 2025

Saggi storici sulla tradizione monarchica - XIII

 


2)   VITTORIO EMANUELE II E LA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA

Duri giorni aspettavano il nuovo Re di Sardegna e non lieti furono gli inizi del suo regno; il Piemonte era costretto a subire le condizioni di pace imposte dall'Austria, che il maresciallo Radetzky aveva dettato nell'incontro di Vignale (*), ma lo Statuto e le sue istituzioni rappresentative erano riconosciute e confermate. Pure la Camera, ove i demagoghi tentavano di sfruttare il momento di depressione, recalcitrava a ratificare la pace con l'Austria, e Vittorio Emanuele II era costretto a scioglierla, firmando quel proclama di Moncalieri, redatto da Massimo d'Azeglio, presidente del Consiglio dei ministri, che suonava come grave monito ai sovvertitori e ai ribelli.

Cominciò così quel decennio di preparazione, che avrebbe portato alla seconda guerra d'indipendenza e che ebbe il suo artefice in Camillo Benso di Cavour; il merito principale di Cavour fu quello di comprendere che il problema della unità italiana avrebbe potuto avere uno sviluppo soltanto se impostato come problema di politica europea e non ristretto puramente ad un rapporto bilaterale fra Piemonte ed Austria, e di aver agito per portarlo di fronte all'attenzione delle potenze. A questo scopo nel 1855 stipulava a Torino un accordo con Francia e Inghilterra per l'invio di un corpo di spedizione sardo in Crimea per la guerra che si combatteva contro la Russia, ed al Congresso di Parigi, che ne segnò la fine, il ministro sardo potette alfine esporre le rivendicazioni italiane, completando l'opera con un avvicinamento alla Francia di Napoleone III che avrebbe potuto divenire un potente alleato.

Il Regno sardo non poteva agire da solo: aveva bisogno di un alleato e lo trovò nella Francia, tradizionale avversaria del predominio austriaco, ed in Napoleone III che, trasformatosi da presidente della repubblica in imperatore, voleva accrescere il prestigio della Casa unendosi con legami di parentela e di alleanza ad un’antica dinastia europea; infatti la figlia di Vittorio Emanuele II, la dolce e santa principessa Clotilde, si sacrificava accettando di sposare il cugino dell'imperatore, il grossolano e volgare Girolamo Bonaparte, dissoluto e miscredente, ma Napoleone III s'impegnava ad intervenire in difesa del Regno di Sardegna se questo fosse stato attaccato dal­l'Austria (*).

Cominciò allora una sottile opera di provocazione da parte di Cavour, che fu presto coronata da successo; l'Austria inviò un ultimatum al Gabinetto sardo perché fossero licenziati i volontari e ridotto l'esercito, il ministero reagì e l'austriaco Giulay iniziò le ostilità passando il Ticino a capo di 125.000 uomini. Il 29 aprile 1859, la guerra comincia, Vittorio Emanuele II è a capo del suo esercito di 90.000 uomini, Napoleone III scende in Italia con 117.000 soldati (*).

In tale incontro con il vecchio maresciallo austriaco che amava e ammirava il giovane monarca sardo, Vittorio Emanuele II pronunciò la celebre  «Casa Savoia conosce la via dell'esilio, ma non quella del disonore ».

 

 

 

 

(*) La principessa Clotilde cercò dapprima di resistere, e solo alla fine si piegò alle pressioni di Cavour, che ebbe dal Re l'incarico di parlare alla principessa„ottenendone l'assenso. La grandezza del suo sacrificio si potrà comprendere leggendo gli scritti di due testimoni oculari che presenziarono alle nozze nella cappella della S. Sindone. Il primo, il canonico Gazzelli racconta: «Ma vidi un contrasto simile. Lei avvolta in candidi veli, meno bianchi tuttavia de] suo pallidissimo volto, immersa in profonda orazione in atteggiamento di vittima che si offra al sacrificio. Lui in piedi, con le mani dietro alla schiena alla napoleonica, in aria distratta, stupito di trovarsi in una Chiesa, ammazzando il tempo coll'osservare i monumenti ».

Il Conte Nicolis di Robilant scrisse: « Durante la cerimonia, la distrazione di Lui, dello sposo, era tale che non s'accorse nímmeno della domanda dì consenso rivoltagli dal celebrante Mons. D'Augennes Arcivescovo di Vercelli. L'abate Gazzelli dovette richiamare la sua attenzione e spiegargli di che si trattasse onde ottenere un frettoloso - certainement oui oui - Detto il quale si, il PrmeilY completamente ignaro dei riti della Chiesa si credeva di aver fatto tutto; e stava per ricominciare l'ispezione della cupola del Guarini, maestosa nel suo barocco, quando il canonico Gazzelli dovè richiamare una seconda volta la sua attenzione per la cerimonia dell'unione delle destre e dell'anello». Tuttavia anche vicino ad un marito del genere, Clotilde seppe vivere santamente ed elevarsi al grado eroico delle virtù cristiane

(*) Un grazioso acrostico dell'epoca, venne costruito sulle cifre dell’anno 1859.

Infatti queste cifre (1+8+5+9) fanno 23 composto da lettere iniziali delle seguenti parole: Vittorio Emanuele Napoleone Terzo Italia Tutta Redimeranno Eternamente.     

 

I piemontesi riportarono le prime vittorie a Montebello Vinzaglio e Confienza;  dopo la battaglia di Magenta Vittorio Emanuele e Napoleone entrarono a Milano.

Infine ecco la giornata di Solferino e S.  Martino, 24 giugno 1859, sul campo sono il Re di Sardegna, l’imperatore dei Francesi e Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria.

La battaglia dura 14 ore lasciando vincitori i franco-piemontesi. La vittoria della guerra sembrava ormai vicina, ma Napoleone III all'insaputa dell'alleato firmava con l’imperatore austriaco l'armistizio di Villafranca; le condizioni del suo impero, dove vivo regnava il malcontento contro di lui e contro la guerra costrinsero ad affrettare il ritorno a Parigi.

Vittorio Emanuele II resistendo alle sollecitazioni di Cavour e tutti coloro che avrebbero voluto spingerlo ad un colpo di testa, firmò l’armistizio sia pure con riserva e non ebbe a pentirsene: la Lombardia, che l’Austria cedeva alla Francia, passò sotto lo scettro sabaudo (*). Durante la guerra si erano intanto sollevate le popolazioni del ducato di Parma, di Modena, del granducato di Toscana e della legazione pontificia di Bologna, oltre a talune altre parti dello stato pontificio. Dopo la pace di Villafranca i commissari regi colà inviati avevano do­vuto dimettersi ma le terre erano restate in armi chiedendo l'annessio­ne al regno di Sardegna. Cavour, tornato al potere dopo alcuni mesi di ritiro, chiese ed ottenne da Napoleone III il consenso all'annessione in cambio della cessione della Savoia e della contea di Nizza alla Francia e i baratti furono compiuti nei primi mesi del 1860 nonostante che al­cune proteste si levassero in Parlamento, fra cui particolarmente vio­lenta, quella di Garibaldi, nizzardo di nascita.

Maturava intanto un'altra impresa, di particolare importanza, la conquista della Sicilia, resa più facile dalla morte del Re Ferdinan­do II e dall'ascesa al trono del giovane figlio Francesco II. (*) Confidan­do nelle voci di rivolta in Sicilia, una spedizione comandata da Garibal­di venne allestita con il segretario aiuto del governo piemontese e 1087 volontari salpavano nel maggio del 1860 da Quarto, presso Genova, nonostante la riluttanza di Cavour che invano aveva tentato di dissuadere Garibaldi e di indurre il Re ad impedirgli di partire. La conquista della Sicilia fu facile e compiuta in poche decine di giorni. Più lunga la conquista del continente, mentre a Torino si cominciava a guardare con preoccupazione a Garibaldi che autoproclamatosi dittatore avrebbe potuto anche cedere alle suggestioni di Mazzini, mai sazio di cospirazioni e di intrighi e proclamare la repubblica; il 7 settembre Garibaldi entrò a Napoli da cui il giorno prima era partito Francesco II per chiudersi nella fortezza di Gaeta, il 10 il Governo Sardo inviava un ultimatum al governo pontificio per ottenere lo scioglimento dei corpi stranieri al servizio del Papa e il giorno dopo, prima che all'ultimatum pervenisse una risposta qualsiasi, i soldati invadevano le Marche e l'Umbria che in meno di un mese cadevano completamente nelle mani piemontesi, senza che nessuna potenza d'Europa osasse andare oltre le proteste verbali. Vittorio Emanuele, lasciata Torino il 29 settembre e entrato ad Ancona, il 15 ottobre passava in territorio napoletano dove si incontrava a Teano con Garibaldi con il quale entrava a Napoli il 7 novembre. L'esercito volontario garibaldino era sciolto e la fine della guerra affidata alle truppe regolari; gli ultimi avanzi della resistenza borbonica caddero ben presto: Gaeta il 13 febbraio 1861, poi Messina ed infine il 21 marzo la fortezza di Civitella del Tronto. Il 18 Febbraio veniva inaugurato il primo parlamento italiano, a Torino, e Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d'Italia.

All'unità mancavano però ancora Venezia e soprattutto Roma che avrebbe dovuto essere la capitale e nella speranza di conquistarle Vittorio Emanuele scese a fianco della Prussia, contro l'Austria in quella che doveva essere la terza guerra d'indipendenza nel 1866. Non fu una guerra fortunata per l'Italia che fu battuta a Custoza e a Lissa sul mare, pure con la mediazione francese alla pace di Vienna, il 3 ottobre

1866, l'Italia ottenne il Veneto in cambio dello sgombero del Trentino dove i cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi erano riusciti a penetrare con successo.

Roma era ormai la spina e il problema centrale del nuovo regno.

Napoleone manteneva ancora delle truppe in difesa dell'ultimo resto del potere temporale dei Papi e benché nulla gli sarebbe importato che esso crollasse definitivamente pure era costretto a perdurare in un atteggiamento prudente per timore del partito cattolico che in Francia era uno dei puntelli del suo trono e che era incoraggiato dalla stessa Imperatrice Eugenia. Si era anzi cercato di venire ad una regolarizzazione del problema con la convenzione del settembre 1865 per la quale l'Italia si impegnava a non attaccare il territorio romano e ad impedire anche con la forza ogni attacco contro dl esso; la Francia da parte sua avrebbe ritirato le sue truppe da Roma entro due anni;

la convenzione sarebbe entrata in vigore quando l'Italia trasferendo la sua capitale da Torino ad un altro luogo, avesse dimostrato a tutti i cattolici di rinunciare per sempre a Roma. In effetti nel 1865 la capitale veniva portata a Firenze, ma restavano in piedi le pretese su Roma e il progetto di mettervi piede non appena gli eventi lo avessero permesso; Garibaldi poi dal canto suo anche contro le truppe regolari, tentò di conquistare la citta con i suoi volontari provocando gli scontri di Mentana.

L'occasione favorevole si presentò quando Napoleone III impegnato nella disastrosa guerra franco-prussiana non potette più seguire le cose di Roma; il 3 settembre 1870 giunse a Firenze la notizia della disfatta napoleonica di Sedan e il 12 le truppe entrarono nel territorio pontificio. Il mite Pio IX dispose che la difesa dovesse « unicamente consistere in una protesta, atta a costatare la violenza, e nulla più » e ordinava al capo delle truppe papali, generale Kanzler «di aprire le trattative per la resa appena aperta la breccia»; tutto avvenne quasi senza spargimento di sangue. Nel luglio dell'anno seguente Vittorio Emanuele II entrava in Roma definitivamente, ponendo sede nel palazzo del Quirinale.

Vittorio Emanuele II non visse però a lungo, né potette assistere al consolidamento del processo unitario da lui portato a compimento; giovane ancora a 58 anni, mori il 9 gennaio 1878 a Roma, dopo aver ricevuto l'assoluzione dalle censure ecclesiastiche e i Sacramenti della Religione. Al primo Re d'Italia furono decretati gli onori del Pantheon, il grande tempio romano che custodisce da allora le tombe dei Sovrani Sabaudi, e l'appellativo di Padre della Patria.

 

 

 

 

 

 

­ (*) La pace di Villafranca provocò due violenti scontri fra Vittorio Emanuele e Cavour che avrebbe voluto che il Re si rifiutasse di accettare la pace. Quella volta il Sovrano mostrò più sangue freddo e più lungimiranza del suo illustre ministro, resistendo ad ogni sollecitazione nella certezza che ogni atto inconsulto avrebbe avuto gravissime conseguenze; della scena un interessante resoconto ci è stato lasciato dall'amico di Cavour Nigra, che fu presente al colloquio.

(*) Francesco    II era figlio di Ferdinando II e della Venerabile Maria Cristina, figlia di Vittorio Emanuele I di Savoia, morta nel darlo alla luce. Buono e di animo mite, nel brevissimo regno ondeggiò tra l'influenza della matrigna Maria Teresa d’Asburgo e quella della moglie Maria Sofia di Baviera. Dopo la resa di Gaeta si ritirò a Roma, dove visse nello splendido palazzo Farnese, oggi ambasciata di Francia.

 

 (*) Prima dell'ingresso ufficiale, Vittorio Emanuele II pose piede in Roma il 30 dicembre 1870 per soccorrere la città colpita da una violenta inondazione del Tevere. I giornali dell'epoca fecero grande scalpore intorno a questo avvenimento gli uni stigmatizzando i riguardi, a loro avviso eccessivi usati dal Re verso Pio IX, gli altri censurando la venuta del Re come una grave offesa al Papa.

mercoledì 9 aprile 2025

Dai racconti d’infanzia affiora il ricordo e l’affetto per la Famiglia Reale

 




 

Quando appena ventenne iniziai la mia collezione di cartoline sulla Famiglia Reale dei Savoia fu quasi una risposta ad una curiosità che mia nonna materna, Giuseppina De Conti (classe 1920), mi aveva instillato fin dall’infanzia. Spesso mi raccontava ciò che aveva vissuto fin dai tempi della scuola e in gioventù, avendo ben fisse nella mente date e nomi che mi fecero conoscere una parte della storia d'Italia a me sconosciuta. Mi parlava di Re Vittorio Emanuele III, il Re soldato, dei figli tra i quali naturalmente il Principe Umberto (futuro Re d’Italia), e naturalmente della Regina Elena che lei adorava. Mi descriveva nei minimi particolari l’albero genealogico di Casa Savoia, conosceva a memorie date di nascita, matrimoni e relative discendenze; mi raccontava delle figlie della Regina Elena che seguirono fin dalla giovanissima età le orme materne, sensibili alla sofferenza altrui e prodighe nel confortare gli ammalati e bisognosi.



La mia collezione iniziò in sordina per conquistarmi rapidamente il cuore, non mancavo adogni appuntamento domenicale dei mercatini della zona, scartabellando tra album che riservavano sempre la sorpresa di trovare pezzi interessanti, talvolta particolari e unici, cartoline che mi catapultavano in pagine di storia relegate irrispettosamente ai margini del nostro glorioso passato. Ho raccolto oltre 500 cartoline, oltre a manifesti e libri, che illustrano la storia della Reale Famiglia Savoia dal 1896 fino al periodo dell'esilio. Nella cartolina postale più datata si può leggere la descrizione precisa che un cittadino fa del passaggio del corteo nuziale dell’allora Principe Vittorio Emanuele III e della Principessa Elena del Montenegro. L’ha narrato in un modo talmente entusiasta e  con una tale dovizia di particolari da sentirmi, leggendo, partecipe anch’io di quell’evento, come se avvenisse in quel preciso istante. E’ in gergo quella che un tempo chiamavano "istant card", e la considero uno dei pezzi più pregiati e ai quali sono più legata.

Sfogliare gli album della mia piccola collezione è come viaggiare nel tempo e mi ha insegnato a conoscere ciò che i programmi scolastici, ahimè, hanno volutamente ignorato. Dall'evento funesto che vide Re Umberto I vittima inerme di un vile attentatore, fino alla preghiera che la Regina Margherita rivolse al suo amato consorte, passando per matrimoni, visite istituzionali, lutti, inaugurazioni, la guerra Italo-turca, l’accordo con il presidente francese Émile Loubet , i festeggiamenti delle nascite in Casa Savoia fino a nuovi matrimoni, il battesimo del Principe Umberto e delle sorelle e le foto delle famiglie che poi formarono. Potrei proseguire ancora elencando tutte le immagini che immortalano momenti di vite e di storia che hanno lasciato segni indelebili nel nostro recente passato e che dovremmo onorare per il bene che hanno donato all’Italia e ai loro amati concittadini.





Grazie a mia nonna materna ho imparato quanto una famiglia regnante significasse per un Paese, quel sentirsi parte di una comunità dove la Famiglia Reale era proprio il perno della società che vedeva in essa un punto fermo in termini di morali, di unità e di tradizione; essa impersonava la Patria stessa, la fedeltà, il coraggio e la fede , presenza che era il fondamento sul quale l’Italia poggiava le sue basi per e al tempo stesso univa tante anime diverse in un’unica famiglia con un sola bandiera. La monarchia fu e resta essenziale vista sotto la prospettiva di unità e appartenenza ad una tradizione cristiana e cattolica, rispettosa di ogni tradizione nazionale e locale, custode del passato e proprio per questo forte nel proiettarsi verso l’avvenire, conscia delle potenzialità degli italiani. Essa è il fuoco di un amor di Patria quasi denigrato oggigiorno e dileggiato da molti. Ecco, la monarchia potrebbe essere la roccaforte di una rinascita che dia impulso alla nostra comunità attualmente smarrita, disorientata e orfana di valori obnubilati da decenni di trascuratezza culturale e materialismo.

È solo un'osservazione semplice la mia, ma ricordo ancora la voce di mia nonna materna, classe 1920 e di come parlava con entusiasmo di Casa Savoia, e con il passare degli anni io ascoltavo con piacere i suoi racconti e contemporaneamente collezionavo immagini che la riportavano ai tempi della sua infanzia e della sua gioventù. Lei riportava quasi in vita, narrando, un punto di riferimento che le era poi mancato, io imparavo e credo fosse quello il suo intento: far sopravvivere quella sua memora in me. E’ stato uno scambio generazionale costruttivo, ricostruendo con semplicità una collezione che mi tiene unita ai ricordi dei miei avi, avendo come filo rosso la storia di Casa Savoia che entra quindi tra le memorie affettive della mia famiglia così come lo sarà di molte altre famiglie italiane.

C’era stato poi un evento nella nostra famiglia. Mia nonna Giuseppina mi raccontava che suo padre (classe 1881) quando era ancora un ragazzo andava spesso a lavorare i campi nella zona del Cansiglio, dove era nato, e scendendo verso valle aveva incontrato una comitiva diretta verso il Cadore. Un uomo gentilmente gli chiese un’informazione ma furono gli illustri passeggeri a rendere quel momento indimenticabile! Erano il re e la Regina d’Italia. La Regina Margherita e il Re Umberto I erano infatti assidui frequentatori del Cadore e amanti delle Dolomiti. Ma nonna rammentava ancora con quanto entusiasmo avesse raccontato quell’episodio anche a loro, quand’erano piccoli, fiero di aver avuto l’onore di un tale incontro; un evento che narrò fino alla sua prematura scomparsa.

La Famiglia Reale Savoia teneva unite nell'abbraccio dell'amore per la Patria ogni famiglia, condividendo gioie e dolori, nascite e lutti, tradizione e fede. Tutto ciò io l'ho sempre visto nella figura nobile e umile della Regina Elena e nella sua famiglia, capace di sopportare l'esilio senza lamentarsi né recriminare diritti, solo amando fino all'ultimo la propria Patria. Il tempo forse restituirà giustizia e Verità, loro che come ogni famiglia italiana. Hanno conosciuto sacrifici, gioie, umiliazioni, dolore, ma anche amore, quello che non è mai mancato loro rimanendo sempre vivi nel cuore degli italiani.

 Questo lo intuisco da ogni cartolina e dalle parole che hanno viaggiato nel corso di decenni o  da più di un secolo tramandando sentimenti d’affetto e ammirazione, dalle frasi in cui traspariva questo incontro tra momenti personali ed eventi pubblici, o dimostrazioni di stima verso la Casa Regnante. Da lì ho compreso quanto la monarchia personifichi quel senso di unità e simbiosi che i miei nonni conobbero e mia nonna materna mi trasmise.

La mia collezione vorrebbe evitare che una parte importante della nostra storia italiana cada nell’oblio, che la memoria di questa Casa Reale non finisca tra le pagone appannate di un libro dimenticato nel cassetto della storia , ma riviva con lo stesso affetto che mia nonna materna ebbe per una Famiglia alla quale sentiva di appartenere,  passandomi il testimone di questo suo profondo sentimento di unità, legato ai principi imprescindibili di un tempo che le sue parole e ogni singola cartolina riescono ancora a raccontare.

 

Monia Pin


martedì 8 aprile 2025

Conferenza a Roma

 Siete invitati a una Nostra Conferenza, dal Titolo

L’ALTARE DELLA PATRIA

LA SPADA E L’ARATRO. 

L’URBE


La Conferenza con immagini, occasionata dal Centenario
dell’inaugurazione dell’altorilievo dell’Altare della Patria,
metterà in luce i passaggi focali che determinarono la scelta ultima fino alla realizzazione finale.

Un intenso periodo di gestazione, dal 1908 al 1925,
anni decisivi per il futuro della Giovane Nazione.
Un’Italia risorta nel segno della Romanità.   
            
LIBRERIA  HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA
GIOVEDI’  10 APRILE  2025   ORE 18
INGRESSO  CON  CALICE  TRICOLORE     € 5
INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674  


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          Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

LINK NOSTRA CONFERENZA

https://www.consulpress.eu/conferenza-centenario-altare-della-patria/

domenica 6 aprile 2025

PAOLA DEL DIN: «IO PATRIOTA NEI GIORNI DELLA COSTITUZIONE. VOTAI MONARCHIA»




 In un’intervista che ci porta indietro nel tempo, Paola Del Din, figura simbolo della nostra storia recente, racconta con passione e lucidità il suo coinvolgimento nelle vicende che hanno segnato la nascita della Repubblica Italiana. Un testimone diretto dei giorni cruciali che portarono alla redazione della Costituzione, Del Din ricorda con emozione il momento in cui, nel 1946, si trovò a esprimere il suo voto per la scelta tra Monarchia e repubblica.

«Votai Monarchia» dice Paola, con un tono che rivela il forte senso di responsabilità che l’ha sempre contraddistinta. «Non vedevo persone affidabili all’orizzonte, ma col tempo ho imparato ad apprezzare personalità come Einaudi e De Nicola, figure che, secondo me, incarnavano veramente lo spirito di un’Italia che si stava ricostruendo e rinascendo».

[...]

PAOLA DEL DIN: «IO PATRIOTA NEI GIORNI DELLA COSTITUZIONE. VOTAI MONARCHIA» – Radio Più

domenica 23 marzo 2025

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Con un po' di ritardo terminiamo il resoconto dell'incontro con gli italiani per il ventennale dell'esilio di Re Umberto II e del Principe Vittorio Emanuele all'Isola di Maiorca a bordo della Motonave Ascania.


IL testo è stato preso dall'opuscolo pubblicato dall' Associazione Studi Sorrentini e dalla rivista Specchio, del 3 Luglio 1966, ricchissima di fotografie, puntualmente riportate nell'articolo.


Ci è molto caro ricordare che questa rivista ci è stata donata dal Nostro compianto Ingegnere Domenico Giglio, Presidente del Circolo REX, il quale, anche dopo la sua scomparsa, continua ad essere ispiratore e fonte di numerosi articoli.



Buona lettura!


https://www.reumberto.it/umberto-ii-e-vittorio-emanuele-insieme-a-palma-di-maiorca-per-i-20-anni-dallesilio-iv-parte/

martedì 18 marzo 2025

Un Re dal cuore buono

 


Sono passati 42 anni dalla morte del Re Umberto II, avvenuta il 18 marzo del 1983. Una di quelle date che non potrò mai dimenticare nella mia vita. Moriva un Re che ho sempre amato e che sentivo così vicino che mi sembrava di avere il cuore in Portogallo insieme a lui. Avrei voluto dividere la tristezza dell’esilio che lo aveva costretto a vivere lontano dalla sua Patria per 37 anni. Alla sua morte pensavo che lo avrebbero sepolto in Italia, al Pantheon, ma non fu così: divenne esule da vivo e lo rimase anche da morto.

 

Fui tra coloro che andarono ai suoi funerali in terra straniera, e vi andai con la morte nel cuore. Fui tra i primi ad arrivare in Francia, nella Abbazia di Hautecombe. Avevano da poco collocato le sue spoglie, avvolte nella bandiera Sabauda, ed era vestito da Generale. Provai quella commozione che di solito si ha quando si perde una persona cara: pregai, e piansi. Quando penso alla grandezza d’animo di questo Re, non posso che essere felice di essergli rimasto legato in tutti questi anni. La morte, del resto, non allontana l’amore per le persone che abbiamo amato.

 

La storia ci insegna che solo i grandi uomini, come le grandi opere sopravvivono al tempo. Alla sua morte lo scrittore Silvio Bertoldi sul settimanale Oggi scrisse: “ Re Umberto II se ne è andato, resta la vergogna dell’esilio”. La morte del Re d’Italia in esilio rappresentò un momento poco lodevole della politica, e lo dimostrò il fatto che nessuno mosse un dito nel momento in cui il Re chiese di poter morire in Italia. Eppure aveva solo chiesto un atto di giustizia. Il Carnelutti scrisse:” l’Italia è la culla del diritto e la tomba delle giustizia”.

 

Il Re lasciò in eredità la Sacra Sindone alla Chiesa. Di Lui si potrà sempre dire che accettò l’amaro esilio con dignità per evitare una guerra civile che avrebbe provocato migliaia di morti. Anche quest’anno verrà ricordato, nel giorno del suo anniversario della morte, da tante persone che non lo hanno mai dimenticato.

 

Emilio Del Bel Belluz

 

https://www.ilpiave.it/un-re-dal-cuore-buono.php


mercoledì 12 marzo 2025

Convegno a Roma : La Regina Elena tra Storia e Spiritualità


 

Appuntamento culturale a Porta Pia

 Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

      Invito a Porta Pia




Osserveremo il Monumento al Bersagliere,

la Monumentale Porta Pia e il Monumento alla Breccia,

per ricordare la Storia del Processo di Unificazione

 Nazionale c on particolare riferimento alla Presa di Roma del 1870.


DOMENICA POMERIGGIO  16  MARZO  2025  ORE 16
MONUMENTO AL BERSAGLIERE
PIAZZALE DI PORTA PIA   ROMA


La puntualità è cosa gradita



   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA   

Telefono 3384174674   

terzanavigazionefutura@gmail.com
 

         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro