
NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.
venerdì 10 ottobre 2025
sabato 27 settembre 2025
«Mio padre Achille Lauro», parla Tanya
La figlia adottiva del Comandante racconta l’infanzia accanto
al grande armatore, tra ricordi familiari, crisi della Flotta e l’amore
intramontabile di Napoli
Di Francesco Di Bartolomei e Simone Ortolani
L’adozione e i primi ricordi della famiglia
Lei è stata adottata dal Comandante Achille Lauro e da sua
moglie Eliana Merolla quando aveva appena nove mesi. Ci può raccontare come
avvenne questa adozione?
Tanya: «Mio padre valutò sicuramente l’età, considerando anche il
fatto che avesse già figli da un precedente matrimonio. Tramite un’amica
thailandese, che conosceva i miei genitori naturali – entrambi thailandesi –
furono predisposti tutti i documenti per adottarmi».
Quali sono i suoi primi ricordi della famiglia Lauro e delle
case del Comandante?
Tanya: «Sono arrivata in Italia nel 1975, avevo solo nove mesi. I
primi ricordi risalgono a quando avevo un paio d’anni. Ricordo bene l’abitudine
di andare a prendere papà al lavoro tutte le sere, fino a quando ha continuato
a lavorare. Si cenava sempre tutti insieme, a casa di papà in via Crispi a
Napoli oppure da noi. Nei fine settimana eravamo sempre a Sorrento. Queste
erano le consuetudini della nostra famiglia».
Il padre attivo nonostante l’età e i regali di Natale
Che tipo di padre era il Comandante, considerando la sua età
avanzata?
Tanya: «Ho avuto probabilmente la fortuna di essere figlia in età
adulta. Quando fui adottata, papà aveva 88 anni. A differenza dei figli del
primo matrimonio, quando lui era era troppo impegnato a costruire la
Flotta, a fare il sindaco, il parlamentare o a gestire il Napoli Calcio, io ho
beneficiato molto delle sue attenzioni: giocava a palla, nuotava in piscina con
me, mi aiutava a fare i compiti. È stato un padre sorprendentemente attivo per
la sua età».
Ho letto che il Comandante la riempiva di regali, ma poi
voleva che li destinasse ai poveri per Natale. È vero?
Tanya: «Non so se arrivassero tutti da lui, ma sicuramente –
essendo la figlia più piccola – dagli impiegati della flotta e da persone a lui
vicine ricevevo molti doni. Ricordo una stanza piena di giocattoli. Papà e
mamma mi obbligavano a sceglierne due e il resto lo davamo alla chiesa per la
“Befana dei bambini”. Questa tradizione si svolgeva sempre nella chiesa di
Monticchio, dove ho fatto la prima Comunione, una chiesetta che papà aveva
contribuito a restaurare. Lì è custodita l’immagine della Madonna a cui era
molto devoto».
La famiglia Lauro e le reazioni al secondo matrimonio
Come reagirono gli altri membri della famiglia al matrimonio
di suo padre con sua madre?
Tanya: «I figli del primo matrimonio non erano favorevoli: un uomo
che sposa una donna di cinquant’anni più giovane e adotta una bambina…
comprensibilmente non fu una situazione facile, soprattutto per mia madre.
Credo che negli anni abbia fatto di tutto per essere accettata dal resto della
famiglia, dimostrando con atti concreti di non essere interessata ai beni di
papà, ma di amarlo in modo disinteressato e sincero. Finché papà fu in vita era
“la moglie del Comandante”, quindi intoccabile. Col tempo, si sono ricreduti e
le hanno voluto molto bene».
La crisi della flotta e la politica
Ha ricordi del commissariamento della Flotta e della
crisi finanziaria?
Tanya: «Ero molto piccola, avevo sei anni, ma ricordo che fu anche
l’inizio del declino della salute di papà: il commissariamento arrivò proprio
nell’ultimo anno della sua vita. Alla villa di Sorrento, dove passavo molto
tempo, ricordo tutti i mobili numerati, destinati all’asta. Questa immagine mi
è rimasta impressa».
In uno speciale di Mixer – La Storia siamo noi, il
commissario liquidatore della Flotta Simonetta Marsiglia ammise che
non vi fu la volontà delle banche di salvare le aziende del Comandante, al
sorgere delle prime difficoltà economiche: «Non si è capito se fu per un
fatto politico o per il timore di non potere più rientrare dei loro soldi».
Ercole Lauro, figlio primogenito, sostenne che una delle cause principali del
declino fu appunto la collocazione politica di suo padre, non allineato né con
la Dc né con il Pci. Lei cosa ne pensa?
Tanya: «Sì, credo sia vero. Anche mamma era convinta che, se papà
fosse stato allineato ai partiti dominanti, la Flotta non sarebbe stata
fatta fallire: il sistema politico ha infatti salvato aziende in condizioni
economiche peggiori.
C’era però anche un altro fattore: papà aveva una personalità molto forte ed
era un accentratore. Questa attitudine fu decisiva nella crescita
della Flotta, grazie alle sue idee, intuizioni e forza di volontà. Ma negli
ultimi anni, quando aveva più di 90 anni, divenne un limite: aveva poca fiducia
in chi lo circondava e credeva di poter ancora gestire tutto in un mondo ormai
cambiato. Eppure non era circondato da incapaci, ma i suoi collaboratori non
avevano l’autonomia necessaria per affrontare una situazione sempre più
complessa».
Relazioni con la Famiglia Reale e il Napoli Calcio
Lei ha ricordi dei rapporti tra il Comandante e Re Umberto II
o la famiglia Savoia?
Tanya: «Ero troppo piccola. Nel 2006, però, mamma incontrò
pubblicamente il Principe Sergio di Jugoslavia, nipote di Re Umberto II, che
era venuto a Sorrento a rendere omaggio alla tomba di papà».
La vicenda di Achille Lauro ha segnato la storia del Napoli
Calcio: durante la sua presidenza la squadra vinse la Coppa Italia. Celebre
l’acquisto del calciatore svedese Hasse Jeppson per la cifra record di
centocinque milioni di lire, che gli valse il soprannome ’o Banco ’e Napule.
Alla sua prima caduta in campo, un tifoso esclamò: «È caduto il Banco di
Napoli!». Il Napoli fu vicino alla vostra famiglia dopo la morte del
Comandante?
Tanya: «Direi proprio di no, nemmeno quando mamma era in vita. Ho
però un ricordo personale: la domenica papà ci portava a vedere il Sorrento
giocare».
Trasferimento a Roma e popolarità
Dopo la morte del Comandante vi siete trasferiti a Roma.
Perché?
Tanya: «Ci trasferimmo anni dopo la morte di papà, il 15 novembre
1982. Mamma non voleva più vivere a Napoli, per via dei ricordi. Roma era
abbastanza vicina a Napoli, dove vivevano i suoi fratelli e i miei cugini, ma
allo stesso tempo un luogo che le permetteva di staccarsi da un passato troppo
doloroso».
Che percezione ha della popolarità che suo padre continua ad
avere?
Tanya: «Da bambina ricordo quanto fosse amato dai napoletani e dai
sorrentini. Ho dei flash: quando tornavamo da Sorrento e passavamo per il
porto, c’era sempre qualche poliziotto che voleva scortarlo a casa, ma lui
diceva all’autista: “Seminalo”. Il giorno dei suoi funerali mi resi davvero
conto dell’affetto del popolo napoletano».
Ci racconti di quel giorno.
Tanya: «Ricordo una folla enorme. Arrivai in chiesa dopo mamma e le
guardie del corpo mi sollevarono sopra la gente, come ai concerti, per farmi
entrare. La folla mi toccava come fossi un ex voto: “La figlia del Comandante”.
Solo allora mi resi conto di quanto fosse amato».
Rivalutazione culturale e mediatica
Si assiste oggi a una rivalutazione della figura di Achille
Lauro.
Tanya: «È una figura che nell’immaginario collettivo resta
celebrata. Viene visto come un antesignano di Silvio Berlusconi: lo ha
preceduto nell’industria, nell’editoria, nella politica e nel calcio».
Prima di Berlusconi, Lauro fondò anche, con Andrea Torino,
una televisione, Canale 21…
Tanya: «Qualche anno fa una persona che stava lavorando sugli
archivi di Canale 21 mi inviò un video che mi riguardava: fu molto commovente».
Come giudica oggi la figura pubblica di suo padre?
Tanya: «Le polemiche politiche degli anni ’50 e ’60 hanno lasciato
il posto a una valutazione più obiettiva dei suoi meriti imprenditoriali.
Chiunque, in buona fede, non può che riconoscerli. È probabilmente la più
grande figura imprenditoriale del Sud Italia nel Novecento».
L’eredità e l’affetto dei napoletani
Il Comandante è stato una leggenda per i napoletani: dal
celebre «Viva Lauro!» pronunciato da Totò al Musichiere alla
canzone scritta da Mario Merola, Il Comandante. Cosa prova di
fronte a tanto affetto popolare?
Tanya: «L’amore di tante persone per papà mi riempie il cuore. È
bello che la sua memoria sia rimasta così viva tra i napoletani. Oggi, se
cerchi “Achille Lauro” su Google, esce prima il cantante e non il Comandante,
ma la gratitudine per lui è stata tramandata anche a generazioni che non
l’hanno conosciuto».
Questo affetto è ancora vivo oggi?
Tanya: «Sì. Lo noto anche nei piccoli episodi. Una decina d’anni fa
parcheggiai l’auto a Napoli e il parcheggiatore, mentre giocava a scopa,
buttando il re di denari disse: “Io mi gioco Achille Lauro”. Non sono banalità:
fanno capire quanto fosse ancora vivo il ricordo, nonostante fossero passati
tanti anni dalla sua morte. Anche al cimitero capita spesso che persone mi
chiedano: “Posso accendere una candela? Mio padre o mio nonno lavorava per il
Comandante, gli saremo sempre riconoscenti”».
Eppure Napoli non gli ha ancora dedicato una strada o una
piazza. Che ne pensa?
Tanya: «È una vergogna. Non lo dico da figlia, ma da cittadina: per
tutto ciò che ha creato per i napoletani non è giusto. È un dato di fatto che
strade e piazze vengano intitolate a persone con meriti molto inferiori ai
suoi».
lunedì 22 settembre 2025
Un ricordo a cent’anni dal matrimonio di Mafalda di Savoia con Filippo d’Assia
di Emilio Del Bel Belluz
ll 23 settembre 2025 sono passati
cent’anni dal matrimonio celebrato a Roma della principessa Mafalda di Savoia,
figlia del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, e Il principe Filippo
d’Assia. Non so se i giornali dedicheranno un cenno a questo evento. Ai tempi
in cui frequentavo la facoltà di Legge a Trieste, un caro amico mi donò una fot
o
incorniciata degli sposi Mafalda e Filippo. L’aveva trovata nella sua casa, e
apparteneva ad una sua parente che aveva una grande ammirazione per la
principessa Mafalda. La foto ritraeva gli sposi, davanti ad una scalinata,
ornata di fiori: il principe Filippo con la sua elegante
divisa e la bella sposa con un raffinato vestito bianco. In
quel giorno, di cent’ anni, fa la famiglia dei Savoia non avrebbe mai pensato
che alla figlia le fosse riservato un destino crudele che l’avrebbe strappata
alla vita. La Regina Elena augurava agli sposi un futuro sereno e ricco di
soddisfazioni. Ma la vita non regala nulla, neppure a coloro che la
sorte ha fatto nascere in una famiglia nobile. Mafalda che dal suo matrimonio
ebbe quattro figli, morì in un campo di concentramento tedesco, vittima dei bombardamenti
anglo-americani. La buona Mafalda non ebbe la possibilità di poter rivedere la sua
famiglia: i figli, il marito e i genitori. La Famiglia Reale non avrebbe mai
pensato che accadesse questo. In un giornale degli anni cinquanta veniva
descritta da Enrico Rota la preparazione del matrimonio e l’impegno che vide la
mamma Elena nell’ organizzare l’evento.
“Il 23 settembre 1925 Mafalda
si sposò a Racconigi: il settembre piemontese fece da cornice al più suggestivo
e più intimo dei matrimoni dei principi, che fu opera personale della Regina
Elena. Fin dalla prime settimane di settembre, un esercito di tappezzieri,
falegnami, e muratori aveva invaso la quieta residenza estiva dei Savoia, la
Regina soprintendeva con giovanile entusiasmo a tutti quei lavori: le sembrava
che la cerimonia, se fosse stata preparata da Lei sarebbe stata un buon augurio
per la sposa …”.
A Mafalda invece fu riservato un
destino crudele. Il 28 agosto 1944 la sua vita si spegnava, e raggiungeva il
buon Dio. Lasciava quattro figli, e il marito. La Regina Elena non poté mai
piangere sulla sua tomba. Mafalda di Savoia è ricordata come una moglie e
madre esemplare, nonché per la sua dedizione nel soccorrere con abnegazione le
persone bisognose.
mercoledì 17 settembre 2025
LO SPIRITO ITALIANO DA PORTA PIA AL CAMPIDOGLIO. IL TRICOLORE
Siete invitati a una Nostra
Conferenza, dal Titolo
LO SPIRITO ITALIANO
DA PORTA PIA AL CAMPIDOGLIO. IL TRICOLORE
La Conferenza con immagini,
occasionata dall’Anniversario
della Breccia di Porta Pia,
metterà in luce un fatto storico del
Nostro Risorgimento,
che attraverso la propaganda d’epoca
verrà sollevato a Evento Simbolico.
L’Arte poetica, scultorea e pittorica
sublimò la Storia,
lasciando ai posteri un’immagine
iconica
che commuove per la sua Bellezza e
muove per la sua Potenza.
LIBRERIA HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA, 89 ROMA
GIOVEDI’ 25
SETTEMBRE 2025 ORE 18
INGRESSO CON CALICE TRICOLORE € 5
INFO E PRENOTAZIONI 338 4714674
POSTA terzanavigazionefutura@gmail.com
Cordialmente
Prof. Massimo Fulvio Finucci e Dr.ssa
Clarissa Emilia Bafaro
SITO NOSTRA CONFERENZA
https://www.consulpress.eu/conferenza-libreria-horafelix-porta-pia/
lunedì 15 settembre 2025
Il Re Umberto II a 121 anni dalla nascita
di Emilio Del Bel Belluz
Il 15 settembre 2025 saranno trascorsi 121
anni dalla nascita dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II. Vide la luce a
Racconigi, in Piemonte, e sicuramente sarebbe tornato tante volte a rivedere il
suo luogo natio, se non glielo avesse impedito l’esilio. Il 5 settembre u.s.,
al castello di Racconigi, è stato organizzato un convegno per ricordare la
figura del Sovrano, alla presenza di S.A.R., il Principe Emanuele Filiberto di
Savoia.
Una giornata che ha voluto ricordare le grandi doti morali e l’amore per il suo Paese del Sovrano, il
cui destino gli è stato avverso. Le scelte di vita di Umberto II sono sempre
state orientate al bene dell’Italia.
Quelli che hanno avuto la
fortuna di conoscerlo, hanno apprezzato la sua integrità di Re e di uomo.
Spesso ci si è chiesti quale Re sarebbe stato se avesse potuto regnare e la
riposta di tanti è stata quella che l’Italia avrebbe avuto un grande Re.
Ha scritto di lui Indro
Montanelli: “anche i più arrabbiati repubblicani ne riconobbero l’equilibrio,
la correttezza, la lealtà. Rimase Re, dalla testa ai piedi, e lo è stato fino
all’ultimo, anche di fronte alla morte. Secondo me avrebbe potuto essere il
miglior Sovrano di Casa Savoia”.
Re Umberto II dovette
attraversare molte traversie che solo una persona di grande spessore morale
avrebbe potuto superare. Infatti, il dolore dell’esilio non gli ha riempito il
cuore d’odio verso quelli che lo hanno fatto soffrire, che lo hanno ingannato
con false promesse, come quella che sarebbe potuto ritornare in Italia qualche
mese dopo, nel momento in cui le acque si fossero calmate.
Ma non fu così. Dovette ancora
accettare e pagare per colpe non sue. Il dolore che lui ha sofferto verrà
ricompensato da Dio. Come monarchico, con i miei scritti, ho lottato, anche se
inutilmente, perché finisse l’esilio. Spero che almeno le sue spoglie possano
essere traslate al Pantheon, solo così potrà finire il suo allontanamento
dall’Italia.
Anche il Principe Emanuele
Filiberto di Savoia, al convegno, ha ricordato il senso del dovere, la dignità
e il grande amore per l’Italia di Re Umberto II, nonché l’auspicio del suo
ritorno in Patria.
Italia-Urss e la “svolta di Salerno”
di Aldo A. Mola
Il reciproco riconoscimento URSS - Regno
d'Italia
Tra la primavera del 1944 e il maggio del 1945
la storia d’Italia ebbe corsi diversi nel Sud e nel Nord, sino a rendere le due
parti del Paese reciprocamente irriconoscibili. I primi anni di vita dei
neonati e gli assilli delle loro famiglie variarono nettamente secondo i
diversi regimi di occupazione.
A
inizio aprile, appena giunto dall'Urss in Italia via Algeri, il segretario del
Partito comunista italiano PalmiroTogliatti (nome di battaglia “Ercoli”)
propose l'ingresso di tutti i partiti del Ccln in un nuovo governo per una
lotta comune (Istituzioni riconosciute dalle Nazioni Unite, partiti e
“partigiani”) contro i nazi-fascisti. Era la linea di Vittorio Emanuele III e
del governo Badoglio e la sconfessione di Bonomi, del Congresso di Bari, di
Sforza e di Croce.
Però
il Governo Badoglio dovette fare i conti con la Commissione Alleata di
Controllo (ACC), che tardava a restituirgli l'amministrazione delle regioni
liberate dall'occupazione germanica. Forte del ruolo di cobelligerante, mirò ad
agire in autonomia nell'ambito delle Nazioni Unite. Il 12 gennaio 1944 Andrej
Vyshinsky, rappresentante dell'Urss nel Comitato consultivo per l'Italia
comprendente gli anglo-americani, in un colloquio a Salerno con Renato Prunas,
segretario generale del ministero degli Esteri, gettò le basi del ripristino
dei rapporti tra Mosca e il regno d'Italia. Nel corso della conversazione
dichiarò di ritenere «che tutti i popoli siano almeno in parte responsabili dei
loro governi e che il popolo italiano paghi molto duramente gli errori e le
colpe del regime che si era per venti anni prescelto». Il “popolo” non è mai
“innocente”. Condivide le responsabilità della classe dirigente.
Badoglio viveva da mesi difficoltà lancinanti. La riorganizzazione
dell'esercito stentava a decollare. La resistenza armata nelle regioni occupate
dalla Repubblica sociale e dai tedeschi era appena albeggiante. Le “bande
partigiane” meno di 10.000 uomini. Le forze dell'ordine non riuscivano ad
arginare la condotta criminosa di militari anglo-americani ai danni della
popolazione: omicidi, ferimenti, stupri, abusi di vario genere, largamente ma
inutilmente documentati da carabinieri e non sempre denunciati dalle vittime
nel timore del peggio. Gli italiani avevano accolto gli Alleati come
liberatori. Ora imputavano al governo le soperchierie e le ripercussioni della
guerra nella vita quotidiana: inflazione galoppante, razionamento dei beni di
consumo, disoccupazione e criminalità dilagante.
Il 25
febbraio 1944 Badoglio espose la profonda delusione degli italiani in una
lettera al presidente degli USA e a Churchill. L'Italia rimaneva inchiodata
agli strumenti di resa che le erano stati dettati il 3 e il 29 settembre 1943.
Perciò il governo accolse con molto favore la proposta di scambiare
rappresentanti ufficiali, avanzata il 4 marzo dal sovietico Alexander
Bogomolov, subentrato a Vyshinsky nel Comitato consultivo. Quel passo avrebbe
consentito all’Italia di uscire dall'angolo nel quale gli Alleati la tenevano
relegata. Il 7 marzo Bogomolov aggiunse che Mosca chiedeva il consenso italiano
a organizzare una sua base aerea tra Bari e Brindisi, «di modeste dimensioni e
di poche unità e uomini», per agevolare le sue relazioni con i partigiani jugoslavi.
La proposta non ebbe seguito.
Il 13
marzo 1944 fu annunciato ufficialmente il reciproco riconoscimento tra Urss e
regno d'Italia. Una settimana dopo Prunas scrisse a Badoglio che toccava agli
anglo-americani andare oltre il «duro, illiberale, inintelligente terreno della
resa senza condizioni e del paralizzante e asfissiante controllo di ogni
attività del Paese», che si risolveva a tutto vantaggio della «concreta e
progressiva influenza sovietica».
Interprete dell'irritazione suscitata negli anglo-americani dall'intesa
italo-russa, il 25 marzo il vicepresidente della Commissione Alleata di
Controllo, l'inglese Noel Mason MacFarlane, ammonì Badoglio: l'Italia non era
abilitata a istituire rapporti con governi di altre potenze. Il maresciallo
osservò che quel vincolo valeva per l'avvenire, non per il passato; e quindi
non metteva in discussione l'accordo intervenuto con la Russia.
Lo ribadì in una lettera personale in cui
aggiunse che «tutte le dichiarazioni fatte dai Signori Churchill e Roosevelt
nei loro messaggi ed inviti al popolo italiano di marciare con gli amici
anglo-americani sono semplici parole che non hanno avuto riscontro nei fatti
successivi». Linguaggio di militare, rude e chiaro. A sua volta Prunas dichiarò
che «il tentato blocco della politica estera italiana […] è puro e semplice
arbitrio, e costituisce comunque un ulteriore aggravamento delle già durissime
e gravissime condizioni di armistizio». In conclusione, «le relazioni dirette
italo-russe resteranno, qualunque cosa pensino e facciano gli Alleati».
A
inizio aprile Palmiro Togliatti, rientrato in Italia, impose la svolta
politica: la questione istituzionale andava risolta alla fine della guerra. Ora
occorreva rinsaldare il governo e combattere i nazi-fascisti. Allo scopo
bisognava dar vita a un nuovo esecutivo. Il 22 aprile si insediò il secondo
governo Badoglio. I ministri giurarono sul proprio onore dinanzi al re. Il
partito d’azione, ostile verso la Corona, vi contò due ministri (Omodeo e
Tarchiani), a titolo personale. I socialisti rimasero contrari al nuovo corso.
La reazione degli Alleati: isolare il Re
Gli anglo-americani non accettarono la prova di
indipendenza in politica estera data dal governo Badoglio. Puntarono diritti
contro il re. Il 16 marzo, poco dopo il riconoscimento Italia-Urss, il re
espose al governo il suo punto di vista. Precisò che alla liberazione di Roma
avrebbe conferito le prerogative di Capo dello Stato al figlio quale suo
Luogotenente, col mandato di costituire un governo più solido in vista delle
elezioni, da celebrare «a pace avvenuta». Lo stesso giorno il governo tenne una
rapida seduta. Nei seguenti crebbe l'animosità dei vertici italiani nei
confronti degli Alleati. Se ne fece interprete Prunas in un Appunto riservato a
Badoglio: «Non occorre veruna acutezza politica per constatare che la
popolarità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna è nell'Italia liberata in
progressivo e crescente ribasso. Anche perché è una occupazione pesante con
larghi margini di violenze e di arbitrio che superano certamente, e di molto,
il peso delle occupazioni militari in Paesi non ostili.» Rilevò anche che
MacFarlane si era pronunciato per la rapida abdicazione del sovrano, suscitando
l'irritazione di Churchill.
L'imboscata dei quattro anglo-americani
Il 9 aprile, Pasqua di Resurrezione, MacFarlane
fece pervenire a Puntoni la richiesta urgente di udienza alle 11 del giorno
seguente per lui e per i delegati civili statunitense e inglese, Robert Murphy
e Harold MacMillan, accompagnato da Noel Charles, destinato a subentrargli. I
quattro si presentarono alla residenza reale alle 11:30 del lunedì dell'Angelo
e, come riassunse Prunas, comunicarono al re che i loro governi «desideravano
consigliargli amichevolmente ma fermamente che il passaggio della Luogotenenza,
invece che a Roma avrebbe dovuto aver luogo subito». Attendevano una risposta
entro l'indomani. Fu una “imboscata”, secondo il giudizio lapidario riferito a
Puntoni dal re. Vittorio Emanuele III protestò che lo mettevano «con le spalle
al muro» e li congedò ruvidamente. Preoccupati, i quattro chiesero a Prunas un
colloquio nella loro residenza, a villa Cimbrone, alle 10:30 del 12. La
conversazione fu lunga, «spesso agitata e torbida». Rifiutato il testo proposto
dagli Alleati («retorico e bolso» a giudizio del sovrano) il re scrisse il
proclama comunicato da Radio Bari e da radio Napoli alle 13 del 12 aprile e
dato ai giornali. Nel pomeriggio, «triste, avvilito», Vittorio Emanuele III
confidò a Puntoni che il mestiere di re è difficile e pesante. “Brut fardèl” lo
aveva definito Vittorio Emanuele II parlando in punto di morte al principe
Umberto. Vittorio Emanuele III aggiunse che i Savoia non avevano avuto molta
fortuna. Suo bisnonno, Carlo Alberto, era morto in esilio. Suo padre, Umberto
I, era stato assassinato. Solo suo nonno, Vittorio Emanuele II, ne era «uscito
bene».
Il re
ribadì che avrebbe trasmesso al figlio tutti i poteri della Corona, nessuno
escluso, ma solo in Roma. A giudizio di Prunas, «il proposito di arginare
l'influenza sovietica nell'Italia liberata aveva certamente in gran parte
motivato l'iniziativa anglo-americana». Gli Alleati negavano all'Italia la
libertà di Stato indipendente e sovrano. Il 24 aprile Badoglio rivendicò
fermamente in consiglio dei ministri l'opera di ricostruzione attuata dal
governo. Successivamente accolse il suggerimento di dichiarare decaduto
l'armistizio sottoscritto dalla Francia il 24 giugno 1940 a Villa Incisa e
sconfessò le mire fasciste su Savoia, Corsica, Nizza e Tunisia. Mise anche la
sordina alle proteste contro la condanna delle nefandezze perpetrate dai
marocchini nell'avanzata verso Roma, «fatti che superano di gran lunga ogni
orrore commesso nel corso della guerra da qualunque belligerante, compresi, che
è tutto dire, i tedeschi» (Prunas a Badoglio, 26 maggio).
Il passaggio dei poteri
Alle 10 del 5 giugno il governo si riunì
d'urgenza per deliberare sulla richiesta del re di recarsi a Roma, finalmente
raggiunta dagli americani, per firmare il decreto di trasmissione dei poteri al
figlio, in linea con il proclama del 12 aprile. Vittorio Emanuele III era
disposto a recarsi nella capitale anche in aereo, all'aeroporto di via Salaria,
raggiungere Villa Savoia, sostarvi il tempo necessario per la firma e
ripartirne. In alternativa gli bastava atterrare a Roma, firmare il decreto e
decollare alla volta di Napoli. La discussione fu lunga e vivace. A favore
della richiesta del sovrano si schierarono Croce («opporsi al desiderio del re
avrebbe carattere ingiurioso») e i ministri militari. Contro si pronunciarono
Sforza e Alberto Tarchiani, esponente del partito d'azione. Quest’ultimo si
spinse oltre. Anche a nome del “correligionario” Adolfo Omodeo, dichiarò
di essere «disposto ad accettare un suo [del re] Luogotenente in ogni senso
degno dell'alta carica, purché non fossero né il principe Umberto», a suo
avviso colpevole di aver dichiarato in un’intervista che nessuno si era opposto
all'intervento in guerra, né il duca d’Aosta, Aimone di Savoia, «per evidenti
considerazioni di carattere internazionale». Togliatti, scaltro e abile
nell'incunearsi tra le divisioni degli altri partiti, ammonì che, con tanti
problemi urgenti, non era il caso di riaprire la questione istituzionale. La
pretesa di escludere Casa Savoia dalla Luogotenenza non ebbe seguito. Nella
sessione pomeridiana della riunione di governo Tarchiani propose al Consiglio
di dichiarare nell'occasione del passaggio dei poteri al Luogotenente la «non
responsabilità del popolo italiano nella guerra contro gli Alleati»: l’esatto
opposto di quanto Vyshnisky aveva pacatamente fatto rilevare a Prunas. La
proposta non fu accolta.
Infine
il governo fece sua la decisione degli anglo-americani: al re fu interdetto il
viaggio a Roma, in areo o con altro mezzo, per «motivi di sicurezza». Fu così
che la firma ebbe luogo a Ravello. Alle 15:30 del 5 giugno Badoglio accompagnò
MacFarlane, «in pantaloni corti e in maniche di camicia» (come annotò Puntoni),
all''Episcopio, la villa dei duchi di Sangro ove il re dimorava, per
estorcergli immediatamente il decreto istitutivo della Luogotenenza. Vittorio
Emanuele III li ricevette in presenza dell'aiutante di campo e sottoscrisse il
decreto: «Abbiamo ordinato e ordiniamo quanto segue: articolo unico. Il nostro
amatissimo figlio Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, è nominato nostro
Luogotenente Generale. Sulla relazione dei ministri responsabili, egli
provvederà in nome nostro a tutti gli affari dell'amministrazione ed eserciterà
tutte le prerogative regie nessuna esclusa, firmando i reali decreti i quali
saranno controsegnati e vidimati nelle solite forme.» Dopo la firma Badoglio si
inchinò singhiozzando e baciò le mani del re. «Sua Maestà ha accolto il gesto
con molta freddezza e ha invitato il Maresciallo a uscire subito», annotò
Puntoni. Secondo Prunas, il re si limitò a dirgli ironicamente: «Maresciallo,
non si commuova». A MacFarlane, che gli dichiarò tutta la sua simpatia per la
monarchia, Vittorio Emanuele III rispose: «Ci debbo credere perché me lo dice
lei, ma quanto è stato fatto dimostrerebbe il contrario.»
Il Re
trasmise l'esercizio dei poteri in suo nome ma non abdicò alla Corona.
Ivanoe Bonomi: l'Esarchia al governo
dell'Italia
Gli
eventi successivi all'insediamento del Luogotenente “del Regno” (anziché “del
Re” come voluto dal decreto-legge firmato da Vittorio Emanuelle III) sono noti.
Badoglio rassegnò le dimissioni, convinto di formare il suo terzo governo.
Però, passato da Salerno a Roma, il maresciallo incappò nell'opposizione
tetragona dei partiti antimonarchici che indicarono Bonomi quale presidente del
Consiglio (denominazione sostitutiva del mussoliniano “capo del governo”). Mentre
questi si accingeva a formare il nuovo ministero, MacFarlane consegnò a lui e a
Badoglio una durissima dichiarazione: il governo dimissionario doveva rimanere
in carica in attesa che il nuovo ottenesse il benestare delle Nazioni Unite. Il
7 giugno il gradimento fu comunicato a Bonomi dal capitano di vascello Ellery
Stone (futuro contrammiraglio), che, per conto di MacFarlane, gli chiese di
dichiarare per scritto: «In nome del R.[egio] governo italiano accetto tutte le
obbligazioni verso gli Alleati assunte dai precedenti governi italiani dopo la
conclusione dell'armistizio italiano, comprese le lunghe clausole di
armistizio. Certifico che ciascun membro del Governo ha personalmente preso
conoscenza dei termini di tutte tali obbligazioni.» Bonomi dovette dichiarare
inoltre: «Il governo italiano si impegna a non riaprire, senza il consenso
preventivo dei Governi alleati, la questione istituzionale, fino a quando
l'Italia non sarà stata liberata e il popolo italiano non avrà la possibilità
di determinare esso stesso la forma di governo.» “In cauda venenum", Stone
precisò che il governo italiano si impegnava a «non ristabilire nuove relazioni
diplomatiche con altri Stati senza il preventivo accordo con i Governi
alleati».
Il
ripristino dei rapporti italo-russi, ultimo atto rilevante del regno di
Vittorio Emanuele III e segno di indipendenza dello Stato d'Italia, scottava
ancora. L'emarginazione del sovrano e l'apparente trionfo dei partiti
antimonarchici non avevano affatto liberato l'Italia dalle stringenti direttive
politiche e dalle interferenze militari degli Alleati, divisi tra loro nei loro
scopi ultimi ma concordi nell'imporsi al paese vinto.
Sino
alla nomina del figlio a Luogotenente generale, malgrado l'assillante assedio
mossogli da anglo-americani, notabili, partiti antimonarchici e Cln, Vittorio
Emanuele III conservò integre le prerogative della corona, rispondenti alla
missione metastorica o “divina” della monarchia, come egli dichiarò alla
principessa di Piemonte, Maria José, che ne rimase sorpresa. Veduto il ruolo da
lui svolto dal 25 luglio 1943 al 5 giugno 1944 appare riduttivo il giudizio espresso
da Renzo De Felice: «Ciò che caratterizzava la personalità di Vittorio Emanuele
era un misto di profondo scetticismo e di estremo realismo, che non di rado
sfociava nel cinismo e che contribuivano a fare di lui un uomo per un verso
estremamente lucido e freddo, per un altro verso solitario e diffidente, che
disprezzava sostanzialmente tutti e viveva la sua funzione come un dovere da
compiere secondo regole rigide, da lui ridotte all'osso del formalismo più
arido e assoluto, sentendone per altro la sostanziale inutilità.» Del tutto
diverso fu il ritratto lasciatone da chi ebbe modo di conoscerlo da vicino.
Fu il
caso dei suoi primi aiutanti di campo. Il generale Ugo Brusati disse ad Angelo
Gatti che Vittorio Emanuele III era «sopra ogni altra cosa costituzionale, […]
re di tutti gli italiani, non di un solo partito. Oltre a larghissima
intelligenza politica, fondata su conoscenza profondissima della storia
d'Italia e degli altri paesi, e militare aveva sopra tutto la conoscenza
profonda degli uomini che gli stavano dattorno […] Di tutti sapeva vita e
miracoli e li vedeva negli atteggiamenti ogni volta mutatisi; ma tutti
accettava, fingendo di dimenticare il passato, quando però sentiva che la voce
della ragione glielo imponesse». Il suo «accorgimento di misurare le parole»
era «scambiato con mancanza di sicurezza».
Anche
più perspicuo è quanto al medesimo confidò il generale Arturo Cittadini
(successivo primo aiutante di campo): «Come prima regola il re si impose di
essere al di sopra di tutti i partiti. Egli è il re di tutti gli italiani, non
di questi o di quelli. […] Il re è proprio il tipo di cittadino borghese
democratico e libero pensatore. Egli intimamente non crede alla vita futura, né
alla ricompensa del Signore. Crede invece, per la sua natura e per ciò che ha
letto e pensato, agli obblighi del dovere e all'immortalità del nome. Ha
sostituito questa immortalità a quella dell'anima: e spesso, parlando cogli
intimi, dice che bisogna fare bene non soltanto per dovere, ma per lasciare ai
figli e ai posteri un nome onorato, che è tutto ciò che di noi rimane in
terra.»
Figlio
e nipote di re scomunicati dai papi, Vittorio Emanuele III venne “isolato” da
partiti che si proclamavano progressisti e propugnavano la cosiddetta laicità
dello Stato. Però poi essi non impedirono che la Costituzione della Repubblica
iscrivesse nei suoi principi fondamentali i Patti Lateranensi
Mussolini-Gasparri dell'11 febbraio 1929, guardati con distacco dagli inglesi,
anglicani, dagli statunitensi, ripartiti in un caleidoscopio di denominazioni
evangeliche e riformate, e dall'Unione sovietica, dichiaratamente atea.
Con
l'eclissi della monarchia rappresentativa, tanta parte del Risorgimento di
Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini venne consegnata al passato
remoto e avviata all'oblio.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA : Palmiro Togliatti (Genova,
1893-Yalta, 1964) nome di battaglia “Ercoli”, segretario del partito comunista
italiano, uomo di fiducia di Stalin, al rientro in Italia impresse la “svolta
partecipazionistica”. In “Elogio della storia” (ed. Oaks) Aldo G. Ricci ricorda
la sua linea durissima a proposito del trattamento degli italiani prigionieri
di guerra in Urss: da “rieducare”. Nondimeno fu protagonista nel passaggio alla
democrazia parlamentare in Italia: un regime diverso da quello stalinista.
domenica 14 settembre 2025
Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II
Buona lettura!
www.reumberto.it
sabato 13 settembre 2025
Invito a Porta Pia
DOMANI DOMENICA
POMERIGGIO ore 17
PRESENTARSI
15 MINUTI PRIMA È CONSIGLIABILE
Invito
a PORTA PIA
la
Monumentale Porta Pia e il Monumento alla Breccia,
per
ricordare la Storia del Processo di Unificazione Nazionale
con
particolare riferimento alla Presa di Roma del 1870.
Incontro
occasionato dall’Anniversario
della
Morte del Sommo Poeta Dante Alighieri.
DOMANI DOMENICA
POMERIGGIO
14 SETTEMBRE
2025 ORE 17
MONUMENTO
AL BERSAGLIERE
PIAZZALE
DI PORTA PIA ROMA
La
puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE
OBBLIGATORIA
POSTA terzanavigazionefutura@gmail.com
Cordialmente.
Prof.
Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro
sabato 6 settembre 2025
Saggi storici sulla tradizione monarchica - XIV
3) L'ESPANSIONE COLONIALE.
Il successore di Vittorio
Emanuele Il, Umberto I, sali al trono paterno riaffermando i motivi conduttori
della politica di alleanza con gli ispiratori del risorgimento e delle libertà
statuarie. Ormai il regno d'Italia era cosa compiuta, si trattava di
rafforzarlo e soprattutto di affrontare quei gravi problemi che i tempi
ponevano a attenzione dei governi.
Il rapido svolgersi degli
avvenimenti, non aveva dato tempo a Vittorio Emanuele di maturare taluni
aspetti del processo di unificazione durante quale alla vecchia classe
dirigente subalpina si era a poco a poco sostituito un coacervo di individui e
di indirizzi i cui fini non sempre coincidevano con i dettami della politica
sabauda, e l'astensione dei cattolici dalla vita politica togliendo al trono
quello che avrebbe potuto rappresentare un valido sostegno, rafforzava la
necessità di stringersi alle correnti moderate contro coloro che nel risorgimento
avevano perseguito più un ideale rivoluzionario che una meta di potenziamento
nazionale. Insomma necessitava una revisione di atteggiamenti, che non avevano
più ragione di sussistere e che a lungo andare avrebbero potuto rivelarsi
estremamente pericolosi, per portare l'Italia fuori dell'isolamento politico in
cui si era ridotta. Questi fini furono raggiunti con la prima adesione alla
Triplice Alleanza stretta fra Austria, Italia e Germania.
Opportuna sembrava anche
un'espansione coloniale in Africa, anche per controbilanciare l'influenza
francese nel Mediterraneo e nel 1885 l'Italia occupava il suo primo territorio
africano: Massaua sul Mar Rosso; si tentò in seguito di approfittare dello
stato di confusione generatosi in Abissinia per la successione del Negus
Giovanni e il ministro Crispi riuscì ad estendere l'occupazione all'altopiano
di Keren e di Asmara e successivamente a firmare col potente Menelik il trattato
di Uccialli con cui questo accettava il protettorato italiano; altre concessioni
si ottennero da piccoli sovrani locali e nacque così la Colonia Eritrea, primo
successo della politica coloniale italiana.
La situazione interna non era
però tranquilla, i primi moti italiani a carattere socialista cominciavano a
manifestarsi dove le condizioni di vita più disagiate favorivano il malcontento
e la volontà di ribellione delle popolazioni incolte, facile preda della
demagogia e della rivoluzione; in Sicilia sorsero i fasci dei lavoratori nella
fine del 1893 ed il governo dovette ricorrere alla forza, altre manifestazione
si ebbero in Italia e fino a Carrara; il sovversivismo socialista cominciava a
fare i primi proseliti.
Intanto il subdolo Menelik
tentava in Abissinia di sottrarsi ai patti giurati, ribellandosi al
protettorato italiano; il contrasto diplomatico, alternato a scaramucce scoppiò
presto risolvendosi in una guerra Iniziata con l'occupazione del territorio
dell'infido ras Mangascià, governatore di Tigré, che provocò entro l'anno, nel
dicembre 1895 un assalto di Menelik con centomila guerrieri. Il 7 cadde la piccola
colonna di duemila uomini del Maggiore Toselli massacrata sull’Amba Alagi, poi l'orda
sommerse ii piccolo presidio del forte di Makallé comandato dal Maggiore
Galliano resistette quaranta giorni, riuscendo a salvare la situazione. Il
governatore, generale Barattieri che fino ad allora si era tenuto
sulla difensiva anche per le difficoltà
pratiche che intralciavano le
operazioni, spinto dal governo e dall'opinione pubblica italiana decise
l'avanzata per icontrare il nemico ad Adua, il i marzo 1896; la
battaglia fu un disastro per le truppe italiane sopraffatte
dagli abissini: duemila furono i prigionieri, più del doppio i morti.
In Italia
il ministero Crispi che l'impresa coloniale aveva voluta e attuata, cadeva
sotto il peso dell'indignazione pubblica.
Il marchese di Rudinì successo
al Crispi nel governo concluse la pace rinunciando al Tigre e al protettorato e
restringendo il territorio italiano all'Eritrea.
La sconfitta militare
peggiorava la situazione politica, dall'insuccesso traevano forza i partiti
sovversivi che delle libertà statuarie si servivano nei tentativi di
distruzione dello stato stesso; la rivoluzione si annidava ora nel nord e le
paurose sommosse costrinsero il parlamento ad affidare il governo al generale
Pelloux e a votare delle leggi restrittive delle libertà, ormai convertite in
licenziosi tentativi di sovvertimento politico e sociale; pure le elezioni del
190Q portavano il numero dei deputati socialisti da 16 a 33 e fra loro ve ne
erano alcuni a cui l'immunità parlamentare apriva le porte delle galere in cui
i loro delitti li avevano gettati.
Di fronte alla grave
situazione poco potettero le buone intenzioni del Re impedito dai legami
costituzionali a porre rimedio a tanti danni;
la Monarchia aveva avvinto più
forte a se gli animi dei cittadini, anche per opera della bella e affascinante
Regina Margherita, ma i sovversivi rifugiati sotto le garanzie costituzionali
potevano in pratica portare a compimento indisturbati i loro piani che
provocavano un senso di smarrimento e di disagio nel paese.
Di questo stato di cose fu
vittima Umberto I; già in passato aveva subito due attentati: uno a Napoli nei
primi mesi di regno e uno a Roma nel 1897 e sempre era sfuggito al pugnale dei
sicari. La terza volta la rivoltella dell'anarchico Gaetano Bresci gli fu
fatale, troncando la sua vita a Monza il 29 luglio 1900; come non pochi dei
suoi avi, il Re Buono fu vittima della rivoluzione. (*)
Il successore e figlio di
Umberto I, Vittorio Emanuele. III
non credette di reagire con energia all'ondata rivoluzionaria che investiva nazione;
pensò che una politica più rigida avrebbe inasprito gli animi e le
situazioni, e preferì non intralciare l'opera di inserimento delle masse che i ministri, soprattutti il piemontese
Giovanni Giolitti, andavano realizzando. Le riforme sociali proseguirono, anche
se talvolta rappresentarono più che espressioni di umana comprensione per gli
umili, dei pericolosi esperimenti politici che non raggiunsero il loro scopo di
svuotare di contenuto le istanze delle sinistre socialiste.
Le migliorate condizioni
generali della situazione interna e il prestigio estero, rafforzato dal rinnovo
della triplice alleanza, permisero però il proseguimento dell'espansione
coloniale, che la disfatta di Adua aveva tragicamente e bruscamente troncato.
La breve guerra di tredici mesi, condotta dal settembre del 1911 all'ottobre
del 1912 dall'Italia contro la Turchia si chiuse con il trattato di Losanna per
il quale la Tripolitania e la Cirenaica passarono all'Italia, che dal canto suo
promise di sgombrare le isole del Dodecanneso nel Mare Egeo che erano state
occupate durante le operazioni belliche; in realtà anche per il sopravvenire
della guerra mondiale, in cui la Turchia si trovò contro l'Italia, le isole
Egee non vennero più abbandonate.
Si chiuse così il primo
cinquantennio di vita del regno d'Italia festeggiato con solenni cerimonie e
con la grande esposizione di Torino; molti problemi sembravano risolti e molti
altri avviati a soluzione; la vittoria e la conquista libica rendevano gli
animi fiduciosi in giorni migliori, mentre tutta l'Europa stava per essere
travolta in una terribile tempesta.
I CLN PER L'ABDICAZIONE DEL RE
![]() |
L'Abbazia di Montecassino, distrutta dagli Alleati con un “bombardamento pedagogico” militarmente inutile, deprecabile da ogni punto di vista. |
di
Aldo A. Mola
L'Italia
divisa in due...
A fine gennaio del 1944 l'avanzata degli
anglo-americani e del corpo “francese” comandato dal generale Alphonse Pierre
Juin continuava a stagnare poco oltre il Garigliano. La “linea Gustav” tedesca
reggeva. Lo sbarco ad Anzio-Nettuno non fu affatto risolutivo. Gli Alleati
avevano tre obiettivi fondamentali: perdere meno uomini possibile su quel
fronte; impegnare tedeschi nell'Italia centro-meridionale per trovarsene meno
in Normandia; soggiogare ogni aspirazione autonoma di Vittorio Emanuele III e
del governo italiano. A quest'ultimo scopo occorreva moltiplicare e divaricare
i partiti e attizzare le rivalità. Infine sarebbe stato necessario “impartire
una lezione” per far capire che nulla li avrebbe fermati. A metà febbraio
distrussero dal cielo l'Abbazia di Montecassino: preludio di altri
“bombardamenti pedagogici”.
Il 28-29 gennaio 1944 al teatro comunale
“Piccinni” di Bari si svolse il congresso dei Comitati di liberazione nazionale
(Cln). Le correnti e i partiti antifascisti stentavano a trovare unità
d'intenti. Continuavano a disconoscere il governo del re, che però rimaneva
l'unico interlocutore delle Nazioni Unite. A quell'appuntamento i Cln
arrivarono dopo lungo e accidentato cammino. Il 24 novembre 1943 i comitati
pugliesi si radunarono a Bari per programmare un congresso con la più ampia
partecipazione possibile. Il 4 dicembre questi e i comitati campani proposero
di convocare il congresso il 20 dicembre a Napoli. L'Amministrazione militare
alleata negò l'autorizzazione per motivi di sicurezza. La Campania era retrovia
di operazioni belliche.
I promotori, tra i quali il liberale
Benedetto Croce e il comunista Eugenio Reale (1905-1986), inviarono una
protesta al presidente degli USA Roosevelt, al premier britannico Churchill e
al maresciallo sovietico Stalin, assicurando che i congressisti non avrebbero
attizzato disordini. Vennero ignorati. Progettarono di far partecipare anche i
rappresentanti dei Cln clandestini sorti in regioni controllate dalla
Repubblica sociale italiana e delle comunità di antifascisti italiani
all'estero, anzitutto degli Stati Uniti d'America. Un proposito risultò
irrealizzabile.
…
e preda di quattro guerre
Da settembre l'Italia era teatro di quattro
guerre: quella delle Nazioni Unite contro la Germania e i suoi alleati (e
quindi contro l'Italia centro-settentrionale, martellata da bombardamenti);
quella del governo del re, cobelligerante contro la Germania e i suoi satelliti
(13 ottobre); quella tra fascisti repubblicani e bande di antifascisti, sia
repubblicani sia monarchici; e infine quella, dapprima condotta in sordina, poi
conclamata, di Stati che consideravano nemica l'Italia nel suo insieme e miravano
ad annetterne una parte. Il Paese fu chiuso nella tenaglia della Jugoslavia di
Tito ad est e della Francia di De Gaulle a ovest. Quest'ultima, appena le fu
possibile, tornò a dichiararsi in guerra contro l'Italia: una condotta nel cui
ambito si collocarono le famigerate imprese dei “marocchini” comandati dal
generale Juin.
Alle quattro diverse guerre, ciascuna
condotta secondo sue regole, si aggiunsero le contese dei partiti antifascisti,
sia tra loro (quelli di sinistra e partito d'azione da un canto, democratici
del lavoro, democristiani e liberali dall'altro), sia fra le diverse correnti
in cui ciascuno di essi era diviso, sia, infine, nel loro insieme contro il Re
e il Governo.
L'Italia era dunque un mosaico di soggetti,
e di programmi e posizioni il cui
disegno mutava in funzione dell'andamento generale della guerra condotta dalle
Nazioni Unite non solo contro la Germania ma anche contro il Giappone, in un
quadro globale niente affatto univoco. Mentre nel teatro europeo le Nazioni
Unite operavano in convergenza, in quello asiatico erano divise. L'Urss di
Stalin dichiarò guerra al Giappone solo l'8 agosto 1945, due giorni dopo il
bombardamento atomico statunitense su Hiroshima. A sua volta il governo
italiano riluttò a dichiarare guerra al Giappone (lo fece il 15 luglio 1945).
Non per mancanza di condivisione degli ideali che avrebbero potuto giustificare
l'intervento, ma in assenza di una motivazione plausibile e, soprattutto, nel
timore che avrebbe dovuto onorare l'impegno inviando nel Pacifico il meglio
della sua flotta: uno dei beni più preziosi del Regno d'Italia. Quel conflitto
fu chiuso nel 1972, con una composizione amministrativa.
L'offensiva
di Croce e di Sforza contro il Re
Ai tanti conflitti che da anni
imperversavano in Italia si aggiunse la richiesta perentoria di alcuni partiti (segnatamente comunisti,
socialisti, azionisti, frange della nascente democrazia cristiana e notabili di
area liberale e “democratica”) che Vittorio Emanuele III abdicasse
immediatamente. Il 24 ottobre 1943, neppure un mese dopo l'“armistizio lungo”,
Badoglio informò il Re. Volevano la sua abdicazione, la rinuncia al trono da
parte di suo figlio Umberto e il conferimento della corona al nipote, Vittorio
Emanuele, principe di Napoli, di sette anni, assistito da un reggente. Fatto
consultare riservatamente Carlo Sforza, indicato da Badoglio quale alfiere
della lotta contro la monarchia, il Re ammonì il maresciallo, capo di un
ministero “striminzito e inefficace”, a non contare sulla sua abdicazione. Per
saggiarne la vanità e privarlo della possibilità di ostentarsi vittima di
ostracismo da parte del sovrano, Vittorio Emanuele III fece proporre a Sforza
di entrare in un nuovo governo e si assicurò della fedeltà delle forze armate,
consolidate dal rientro in Italia del maresciallo Giovanni Messe, già suo
aiutante di campo e massone, rilasciato dagli inglesi e nominato capo di stato
maggiore generale il 18 novembre 1943 in successione ad Ambrosio.
In prossimità del nuovo anno, il 28 dicembre
1943 Vittorio Emanuele III scrisse di suo pugno e diramò un messaggio
radiofonico agli italiani. Omettendo tante schermaglie, il 23 gennaio 1944, in
prossimità dell'annunciato congresso dei Cln a Bari, il re consegnò al
capomissione alleata Noel Mason Mac Farlane un “appunto” sulle proprie
intenzioni. Alla liberazione di Roma il governo tecnico-militare sarebbe stato
sostituito da un ministero formato da esponenti di tutti i partiti e nessun
compromesso col fascismo. Quattro mesi dopo la pace sarebbe stata eletta la
Camera dei deputati e il Senato avrebbe ripreso le sedute. Il parlamento
avrebbe discusso le istituzioni, anche riformandole completamente. In libera
consultazione il Paese si sarebbe pronunciato sulla decisione delle Camere. La
Corona avrebbe accettato il verdetto popolare. Però fino a quel momento tutti
gli sforzi dovevano rimanere concentrati nella lotta di liberazione.
Oltre quella linea il Re non poteva andare.
Toccava a lui guidare l'Italia sino alla liberazione di Roma ove, sin dal 16
dicembre, aveva chiesto di entrare “contemporaneamente alle truppe”.
Le
proposte del Congresso dei
I lavori del congresso dei Cln a Bari,
presieduti da Michele Cifarelli, esponente del partito d'azione e futuro
parlamentare di quello repubblicano, si svolsero nell'intera giornata del 28
gennaio 1944 e proseguirono la mattina del 29. Furono aperti dal discorso di
Croce su “La libertà italiana nella libertà del mondo”. Esso contenne un aspro
passaggio polemico nei confronti del re, la cui abdicazione immediata egli
chiese affinché gli italiani potessero “respirare liberamente”. I temi
all'ordine del giorno erano le condizioni del Paese, l'organizzazione di
volontari da affiancare all'esercito, il quadro politico internazionale,
l'inflazione galoppante, la svalutazione della lira, l’emissione delle Am-lire
e l’istituzione di un organo di collegamento tra i Cln e gli anglo-americani.
Dopo veementi invettive contro il sovrano e
la monarchia, Sforza propose l'invio di telegrammi al Congresso degli USA, alla
Camera dei Comuni, a Stalin, De Gaulle, Chang Kai Schek e ai popoli della
Jugoslavia e della Grecia. I Cln si ersero a soggetti titolari della politica
estera, alternativi al Re e al suo Governo.
Nella seduta pomeridiana, presieduta da
Alberto Cianca, esponente del partito d'azione, il liberale Vincenzo
Arangio-Ruiz ricordò ai partecipanti che almeno metà degli italiani erano
favorevoli alla monarchia: perciò la soluzione della questione istituzionale
andava rimessa al voto popolare, ma a pace raggiunta. Nel frattempo occorreva
unità di intenti per garantire la sopravvivenza dell'Italia. Dopo di lui
l'azionista Tommaso Fiore si scagliò contro il re, complice di Mussolini, e
contro Badoglio. Concordò con Arangio-Ruiz sulla necessità di un’unione
antifascista, da lui intesa, però, come fronte unico su posizioni
antimonarchiche.
La mattina del 29 gennaio i congressisti
chiesero la formazione di un governo composto da esponenti dei sei partiti dei
Cln, dotato di pieni poteri per compiere il massimo sforzo nella guerra contro
il nazifascismo e per risolvere gli immensi problemi economici e sociali
incombenti. Deliberarono anche la nascita di una Giunta esecutiva permanente
formata da esponenti dei partiti dei Cln locali di concerto con il Cln
Centrale: una sorta di governo alternativo a quello del re. Sforza concluse i
lavori con un appello all’unità e alla fiducia nell'Italia libera, esortando a
impedire attacchi reazionari contro la democrazia. Anche il suo secondo
discorso risultò «violento e pieno di insulti all'indirizzo del Re», come nel
“Diario” annotò il generale Paolo Puntoni. Di seguito i congressisti
approvarono la richiesta di abdicazione immediata di Vittorio Emanuele III,
senza entrare nel merito della successione al trono.
Un
groviglio caotico
Ancora esule nell'Unione Sovietica, il
segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, liquidò il
congresso di Bari come un chiassoso “comizio antimonarchico”, irrilevante sotto
il profilo politico interno e internazionale. Percepì con chiarezza che gli
azionisti, al pari dei democratici del lavoro (o laburisti: erano ancora
incerti sulla propria denominazione), non avevano e non avrebbero avuto seguito
elettorale. I dirigenti della democrazia cristiana (compresi Alcide De Gasperi
e Giovanni Gronchi) dovevano far dimenticare il sostegno dato all'avvento e al
radicamento del governo Mussolini nel 1922-1924 (Gronchi era stato
sottosegretario all'Industria, accanto al ministro giolittiano Teofilo Rossi di
Montelera). Essi erano consapevoli che la base del loro elettorato era
monarchica, non per devozione ai Savoia ma per la radicata diffidenza del
“cittadino normale” (di cui parla Salvatore Satta in “De Profundis”) verso le
“novità”: un “terreno ignoto”, come si prospettava la “repubblica”. Togliatti
pensava infine che l'elettorato del partito socialista italiano di unità
popolare, comprendente varie tendenze, era in gran parte fermo al riformismo di
Turati e Treves e aveva per punto di riferimento iconico Giacomo Matteotti, dai
toni talvolta rivoluzionari ma fermamente anticomunista. L'unità d'azione
siglata in Francia tra il Pci e il Psi di Pietro Nenni nell'opinione dei
socialisti italiani aveva già subìto lo scossone del brusco voltafaccia dei
comunisti all'indomani del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin
nell'agosto 1939. Ligi alla Terza Internazionale i comunisti avevano voltato le
spalle agli altri partiti antifascisti sino a quando nel giugno 1941 Hitler
scatenò l'operazione Barbarossa contro l'Urss. Ora, però, si valevano del prestigio
conquistato dall’Unione Sovietica grazie alla “grande guerra patriottica”
contro l'avanzata germanica.
Ivanoe Bonomi, presidente del Comitato
centrale di liberazione nazionale, attivo in Roma nella più circospetta
clandestinità, accolse con molta perplessità gli ordini del giorno approvati
dai Cln adunati a Bari. All'avvento della RSI mussoliniana Bonomi commentò nel
“Diario” la “frattura” che essa avrebbe determinato tra il Nord e il Sud
d'Italia: «Il Nord e il Centro che hanno già fatto esperienze repubblicane con
la Repubblica Cisalpina [in età franco-napoleonica, 1796-1804, NdA] e con le
due repubbliche di Venezia e di Roma [1848-1849, NdA] si abitueranno a
considerare la Monarchia come un regime che può essere rovesciato; il
Mezzogiorno invece, che ha già una lunga tradizione monarchica, continuerà a
considerare la monarchia come un istituto che non si discute perché radicato in
una lunga e ininterrotta consuetudine.» Per chi la conosca, e Bonomi la
conosceva, la storia è “magistra vitae”. Nessuno poteva cancellare l'impronta
lasciata nel Mezzogiorno dai sacri romani imperatori, dai re Normanni e Aragonesi,
dagli Asburgo di Spagna e d'Austria e, infine, dai Borbone di Spagna, durati
dal 1737 fino all'arrivo in Napoli di Giuseppe Garibaldi con l'insegna “Italia
e Vittorio Emanuele”, pronto a salutare Monsù Savoia “Re d'Italia” quando
questi gli andò incontro a cavallo a Vairano Catena, presso Teano. Forma di
religiosità, la monarchia era metastorica, radicata nel mito. Il rifiuto di
collaborare con il governo Badoglio non implicava ostilità verso la figura del
re in quanto tale, ma era la reazione alla predilezione accordata da Vittorio
Emanuele III a militari e “tecnici” anziché ad antifascisti che, come Bonomi
stesso, avevano attraversato il regime convinti che prima o poi quest’ultimo
sarebbe stato travolto dai suoi errori.
A conferma, il 16 ottobre 1943, tre giorni
dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania, il Cln chiese la
«costituzione di un governo straordinario che sia l'espressione di quelle forze
politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e
fin dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista [a differenza
del Pci, NdA]». Tale richiesta si accompagnava a quella di evitare «ogni
atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare
la futura decisione popolare», rinviata alla cessazione delle ostilità, quando
il popolo sarebbe stato convocato «per decidere sulla forma istituzionale dello
Stato». Esattamente come proponeva Vittorio Emanuele III.
Significativamente Bonomi non commentò nel
“Diario” il congresso di Bari. Oltre un mese dopo, il 6 marzo 1944 egli inviò
al CCln la Dichiarazione redatta il 2 precedente, «riflesso del suo fermo
convincimento che inspirerà e indirizzerà la sua azione futura». Messe da parte
le posizioni unilaterali (come quelle accesamente antimonarchiche del Psi e del
PdA), occorreva promuovere la “guerra per bande” (poi detta “partigiana” e
infine dei “volontari della libertà”, posti agli ordini del generale Raffaele Cadorna,
monarchico), in aggiunta (non in alternativa) all’«azione preminente e decisiva
delle forze armate dello Stato italiano». «La guerra nazionale – precisò Bonomi
– ha bisogno della concordia nazionale.» Perciò bisognava «accantonare la
questione della forma dello Stato, per rifare così l'unità spirituale degli
italiani per la guerra e per la vittoria». «La richiesta dell'abdicazione
dell'attuale re non può passare innanzi e comunque indebolire la richiesta
dell'assemblea incaricata di deliberare, a territorio nazionale liberato, la
nuova costituzione dello Stato.» In sé l’abdicazione non risolveva comunque la
necessità di assicurare allo Stato un Capo sino al raggiungimento della pace.
Posto che, a guerra ancora in corso, esso non poteva essere espresso dai
cittadini, doveva continuare a esserlo il sovrano regnante o il suo successore,
in attesa della vittoria finale. Presidente del CCln, Bonomi non dimenticava il
suo rango di “cugino del re”, essendo stato insignito del collare della
Santissima Annunziata il 21 dicembre 1920: lo stesso giorno di Sforza, che però
mostrava “sensibilità” ben diversa dalla sua.
Le
“bande” e la Rsi
Le informazioni di cui Bonomi disponeva
indicavano che le “bande” di volontari stentavano a costituire una forza
decisiva per l'abbattimento della repubblica mussoliniana affiancata dai
tedeschi. Questa si reggeva non solo sulla repressione di antifascisti notori e
di partigiani (soprattutto con la spietata eliminazione dei militari), ma anche
sulla forza di inerzia della vita quotidiana, sul funzionamento
dell'amministrazione pubblica, in specie quella locale, e sull’elusione di
misure troppo impopolari, causa di collasso sociale e di incontenibile
ribellione di massa. Se non impedì le razzie di ebrei destinati alla
deportazione nei campi germanici di sterminio (l'amministrazione anzi concorse
alla sua attuazione mettendo a disposizione la schedatura degli ebrei
effettuata all'indomani delle leggi del 1938), Mussolini concesse invece poco
spazio e nessun potere autonomo ad antisemiti e massonofagi fanatici, come un
antico spretato che il duce, superstizioso qual era, evitava di ricevere.
Ferrovie, poste, scuole, dalle elementari alle università, e servizi annonari
nell'Italia settentrionale continuarono a funzionare con una certa regolarità
sino a fine aprile del 1945.
Tra il settembre 1943 e la primavera del
1944 le “bande” impiegarono tempo a prendere corpo. Nuto Revelli, una delle sue
“voci” più note dagli Anni Sessanta del Novecento, rientrato dalla disastrosa
campagna di Russia, annotò in appunti diaristici di aver costituito con altri
ufficiali del regio esercito la “1^ Compagnia rivendicazione caduti” (5 ottobre
1943), diffidente nei confronti dei politici (“La guerra dei poveri”, Torino,
Einaudi, 1963, p. 141). Dante Livio Bianco, avvocato, già iscritto al Pnf,
esponente di spicco della banda “Italia Libera” fondata nel cuneese da Duccio
Galimberti e militante del partito d'azione, al primo incontro con Revelli e
gli ufficiali Faustino Dalmazzo e Giovanni Delfino (13 novembre) annotò a sua
volta nel “Diario”: «Si tratta di militari senza alcuna idea politica: speriamo
però di averli scossi dal loro atteggiamento.» Solo quando si ebbe notizia
dello sbarco anglo-americano a Nettuno (8 febbraio), che illuse sulla rapida
avanzata degli Alleati verso Roma ma rischiò di risolversi in uno scacco, e
dopo aver preso contatto con altre formazioni partigiane (ne ha scritto Aldo
Sacchetti in “Un romano tra i ribelli”, Cuneo, L’Arciere, 1990), Revelli decise
di aggregarsi alla “banda” di Bianco in una “atmosfera di simpatia” scaturita
anche dalla scoperta che erano entrambi figli di massoni.
Il congresso dei Cln a Bari non risolse
dunque nessuno dei tanti assilli dell'Italia in guerra. Semmai indebolì il
governo e concorse a isolare il Re: due obiettivi che gli Alleati perseguivano
per retrocedere l'Italia a “potenza” di terza fila.