NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 17 giugno 2025

LA PRIMA LINEA L’AGRO PONTINO E LA BONIFICA INTEGRALE

Siete invitati a una Nostra Conferenza, dal Titolo

 

LA PRIMA LINEA

L’AGRO PONTINO E LA BONIFICA INTEGRALE


La Conferenza con immagini,

occasionata dal Centenario della Battaglia del grano,

illustrerà le diverse fasi di questa importante Impresa di Stato,

che vide il suo apice nella Bonifica Integrale.

Un processo, che si mise in movimento già alla fine dell’Ottocento

e che vide il suo compimento negli anni trenta del Novecento,

sulla spinta dello sviluppo industriale Europeo.

L’Italia di Vittorio Veneto si trovò ancora una volta in prima linea,

individuando l’elemento agrario,

come il primo motore del futuro avvenire,

nella certezza morale che era fondamentale equilibrare

il rapporto tra Urbanesimo e Ruralità.

Le Città di Fondazione ad Arte.

LIBRERIA  HORAFELIX

VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA

GIOVEDI’  19  GIUGNO  2025   ORE 18

INGRESSO  CON  CALICE  SOLSTIZIALE    € 5

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674

POSTA    terzanavigazionefutura@gmail.com


Cordialmente

Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

 

SITO  NOSTRA CONFERENZA


domenica 15 giugno 2025

 Confermiamo il Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

DOMENICA POMERIGGIO  ore  16


Invito  MUSEI  CAPITOLINI
Il percorso museale sarà esaminato alla luce della “continuità ideale
tra la Roma Antica, la Roma Rinascimentale
e la Roma Capitale d’Italia.
Andremo alla ricerca degli interventi realizzati dopo il 1870,
evidenziando la “trasformazione e l’ampliamento
del complesso museale capitolino”.
Evocheremo alcuni Eventi straordinari
svoltisi in questi monumentali saloni,
dove il Mito incontra la Storia.
Il Classico a fondamento del Contemporaneo.
DOMANI   DOMENICA  POMERIGGIO 
       15  GIUGNO  2025  ORE  16
PIAZZA  DEL  CAMPIDOGLIO   (Biglietteria)     ROMA
         INGRESSO GRATUITO CON MIC
N.B. La Carta MIC riservata ai residenti della Città Metropolitana
si può effettuare in rete o nei musei comunali.
Per ulteriori informazioni SITO https://miccard.roma.it/
          La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA     



INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674  


Email   terzanavigazionefutura@gmail.comalmente.


Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

mercoledì 4 giugno 2025

Nel Nome della Fedeltà : omaggio a Sergio Boschiero a dieci anni dalla morte.

 


 di Emilio Del Bel Belluz

  

Il 3 giugno 2025 ricorrono dieci anni dalla morte di una delle persone che ho più amato e stimato nella mia vita: Sergio Boschiero. Dedicò interamente la sua esistenza a Casa Savoia e ai valori che essa rappresentava. Per me fu un vero maestro, perché mi insegnò ad amare una delle figure tra le più grandi di Casa Savoia: Re Umberto II. Sergio Boschiero non mancava mai di portare alla luce le tante ingiustizie che furono compiute contro Casa Savoia, in particolare, si batté per il rientro dall’esilio del Re Umberto II e della consorte. Lo fece scrivendo in molti giornali, con la sua penna vivace e onesta, sapendo di perorare una causa a cui credeva fin da giovane. La sua militanza iniziò fin dall’età di dieci anni. Nel maggio 1946, aiutò altri simpatizzanti a tappezzare i muri della città di Vicenza con manifesti che invitavano a votare per la monarchia.   Sergio Boschiero fu sempre attivo, con mille iniziative volte a far rientrare in Patria i sovrani morti in esilio. Il Suo sogno era che fossero sepolti al Pantheon, dove riposano i Re d’Italia.  Gli sarebbe piaciuto che quella pagina di storia fosse stata scritta, ma l’odio verso chi aveva unificato l’Italia non era ancora cessato. La figura di questo personaggio mi è cara, e nella mia casa conservo molto gelosamente le sue lettere che nel corso degli anni mi aveva inviato. Per anni mi spediva il giornale dove scriveva: “Monarchia Oggi”. Era sempre bello riceverlo e conoscere dei pezzi di storia dei Savoia che sarebbero altrimenti andati dispersi. Il tempo corre inesorabilmente, ma i ricordi che ho nei suoi confronti rimarranno per sempre. Sono trascorsi dieci dalla sua scomparsa, non credo che gli dedicheranno mai una via o un monumento, anche se lo meriterebbe. Pertanto voglio ricordarlo con questo scritto. Nutro almeno la speranza che qualcuno si rechi sulla tomba di famiglia, a Breganze, in provincia di Vicenza, per onorarlo con un fiore, il fiore della fedeltà a Casa Savoia e al Suo Re Umberto II. Ho conosciuto pochi uomini tenaci come Boschiero, persone che non hanno mai guardato ai propri interessi, ma si sono spesi interamente per i valori in cui credevano, valori che non hanno mai rinnegato, al contrario di ciò che spesso accade oggi, sia in ambito politico che sociale. Scrissi molte volte che una testa nobile lascia una scia nobile e Sergio Boschiero era una testa nobile. In una pagina di un giornale trovai questo scritto: “Non c’è nulla che possa rimpiazzare l’assenza di una persona cara, né dobbiamo tentare di farlo; è un fatto che bisogna semplicemente portare con sé, e davanti al quale tener duro; a prima vista è molto impegnativo mentre è anche una grande consolazione: perché rimanendo aperto il vuoto si resta, da una parte e dall’altra, legati a esso. Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto: non lo riempie affatto anzi lo mantiene aperto, e ci aiuta in questo modo a conservare l’autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore.  Inoltre: quanto più belli e densi sono i ricordi tanto più pesante è la separazione.  Ma la gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso”. Lo ricordo come un fratello, infatti, ero legato da un profondo affetto. Sarebbe bello ed interessante raccogliere tutti i suoi scritti, pubblicati su vari giornali e riviste, con l’obiettivo di stampare un libro destinato alle generazioni future. Il buon Dio gli ha concesso la grazia di non morire il 2 giugno, una data molto triste per i monarchici, perché segna l’avvento della repubblica, reso possibile anche da gravi irregolarità elettorali. Nell’altra vita, avrà potuto finalmente unirsi al suo Re, che ha sempre amato e al quale è rimasto fedele fino alla fine dei suoi giorni.

Il diario inedito di Maria José. "Aveva vinto la Monarchia"

 

Il mistero, o meglio l'intrigo, si concretizza il 5 giugno 1946. La sera del 4 giugno, come conferma un brano inedito del diario di Maria José, i Savoia sono convinti di aver vinto il referendum. «Il 4 giugno - scrive la regina - mi recai a cena a casa Orsi in compagnia del Presidente della Croce Rossa, era presente anche il ministro Corbino. Verso la mezzanotte e mezza del 5 giugno egli ricevette una telefonata dal ministero: la monarchia si attestava al 57 per cento e mancavano solo i voti delle isole».

 

Pareva fatta, insomma, o almeno questo era il clima alla corte di Re Umberto. Poi la mattina del 5 giugno, ecco il cambio di paradigma: è la Repubblica ad essere in vantaggio, anche se lo spoglio delle schede procede con una lentezza esasperante. Anche Sofia Jaccarino, dama di corte, conferma nei suoi ricordi, mai letti finora, quella virata inspiegabile e si dà una risposta perentoria: «Vidi Re Umberto al Quirinale il 5 giugno al mattino, erano le 10.30. Da poco Romita ( Giuseppe Romita, ministro dell'Interno, ndr) aveva comunicato il cambio di vantaggio a favore della Repubblica. Il Re mi disse: Ma sai, i Russi sono alla frontiera. Lo trattarono da prigioniero nel suo stesso palazzo. Aveva deciso di restare. Fu spinto all'esilio».


Insomma, a mettere insieme sospetti e retropensieri, ma anche qualche indizio, la Repubblica fu battezzata nel peccato originale di un voto non proprio limpidissimo.

Sono passati settantanove anni e certo nessuno vuole tornare indietro, ma gli studi su quel che accadde in quei giorni concitati e drammatici accendono nuove perplessità. La frontiera cui accennava Umberto era ovviamente quella di Trieste e già questo dato lascia intendere la complessità del contesto internazionale e dunque le possibili spinte e controspinte di quelle interminabili settimane. Per i Savoia, a mano a mano che emergono le testimonianze dei protagonisti, era chiaro che la vittoria era arrivata ma venne portata via, forse per non compromettere delicati equilibri interni e internazionali.

Anche Vittorio Emanuele accredita la versione della moglie di Umberto: «Fu mia madre Maria José a dirmi come andarono le cose. La vittoria della Monarchia era certa, mi disse che brindò al risultato assieme governatore della Banca d'Italia, al ministro Corbino e al Presidente della Croce Rossa nel mattino del 5 giugno a casa Orsi. Non immaginavano che accadesse quel che poi è accaduto».

I risultati furono capovolti e per i Savoia fu la fine. Che cosa successe? Un milione e mezzo di schede furono oggetto di contestazione, ma le verifiche furono rapide e superficiali. Ci furono anche segnalazioni di brogli in molte sezioni del Sud e questo alimenta una contronarrazione, opposta alla versione ufficiale. «La leggenda - spiega Filippo Bruno di Tornaforte, presidente del Centro Studi per la Real Casa che sta lavorando a un libro sul tema - dice che furono i voti del Nord a cambiare la situazione.

In realtà le schede che mancavano erano quelle del Sud, tradizionalmente monarchico, e dunque questo rende ancora più sospetto il risultato finale che a quel punto nessuno si attendeva».

Il 13 giugno Umberto partiva per il Portogallo e l'esilio da cui non sarebbe mai più tornato.

Fonte:

Il diario inedito di Maria José. "Aveva vinto la monarchia" - il Giornale

Invito ai Musei Capitolini

 

Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di 

 Ricerca dedicato al Patrimonio Storico Italiano, con particolare

 attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

Invito

MUSEI  CAPITOLINI


Il percorso museale sarà esaminato alla luce 

della “continuità ideale”

tra la Roma Antica, la Roma Rinascimentale

e la Roma Capitale d’Italia.

Andremo alla ricerca degli interventi realizzati dopo il 1870,

evidenziando la “trasformazione e l’ampliamento

del complesso museale capitolino”.

Evocheremo alcuni Eventi straordinari

svoltisi in questi monumentali saloni,

dove il Mito incontra la Storia.


Il Classico a fondamento del Contemporaneo.

DOMENICA  POMERIGGIO   8  GIUGNO  2025  ORE  16

PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO (Biglietteria) ROMA

INGRESSO GRATUITO CON MIC


N.B. La Carta MIC riservata ai residenti della Città Metropolitana

si può effettuare in rete o nei musei comunali nei giorni feriali.

Per ulteriori informazioni LINK https://miccard.roma.it/

La puntualità è cosa gradita

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA



INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674  


Email   terzanavigazionefutura@gmail.comalmente.

Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

martedì 27 maggio 2025

1925: QUEL REGIME CHE NON SI VIDE ARRIVARE

 



di Aldo A. Mola

 

L'attendismo degli aventiniani e “ludi cartacei”

   Da quando data il “regime fascista”? All’inizio di quest'anno alcuni articoli hanno rievocato il discorso del 3 gennaio 1925, con il quale Benito Mussolini respinse ogni addebito per la morte di Giacomo Matteotti e rivendicò la “rivoluzione” fascista. Per le molte violenze (anche “irreversibili”) perpetrate dagli squadristi nel cammino da  “movimento” a partito (marzo 1919-novembre 1921), nell'assalto al governo e sino all'estate del 1924, il “duce” sfidò chiunque, dentro e fuori l'Aula, a incriminarlo e a farlo tradurre dinnanzi al Senato costituito in Alta Corte, come previsto dallo Statuto. Nessuno raccolse la sfida.

   A parte il drappello dei giolittiani, quel giorno assenti, i 19 deputati del partito comunista d'Italia e gli otto germanofoni e slavofoni, da sei mesi le “opposizioni” (i repubblicani, i rappresentanti dei due partiti socialisti e i popolari) si erano chiamati fuori dal confronto in Aula, arroccandosi in una sorta di “Aventino”, in attesa degli eventi. Il loro portavoce più autorevole era Giovanni Amendola. Capofila dei democratici, massone, teosofo, già ministro, noto anche all'estero e apprezzato dal Re, questi compì un errore strategico. Mentre tanti fascisti della prima ora, su ordine dello scaltro Mussolini, avevano deposto ogni velleità di cambio istituzionale, quindi avevano nella monarchia e negli alti gradi militari l'interlocutore naturale, Amendola si trovò circondato da partiti accomunati nella lotta frontale contro i fascisti e la Corona, tacciata di connivenza col regime nascente.

   In pochi mesi divisioni e contrapposizioni si acuirono. In marzo Franco Ciarlantini dette impulso alla redazione di un “manifesto” dell'ideologia fascista internazionale. Lo scrisse il filosofo Giovanni Gentile, già ministro della Pubblica istruzione nel governo Mussolini. Presentato come espressione degli “intellettuali fascisti”, esso venne pubblicato nel Natale di Roma (21 aprile), ricorrenza già celebrata da anticlericali e massoni quale fondativa dell'idea d'Italia. Tra i suoi 250 firmatari ricorrono futuri antifascisti, dissidenti e massoni autorevoli come Ferdinando Martini (Grande Oriente d'Italia) e Curzio Malaparte (regolarizzato da Raoul Palermi nella Gran Loggia d'Italia), letterati, critici e storici famosi, come Luigi Pirandello, Corrado Ricci, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Gioacchino Volpe e Guido da Verona, il bello spirito che stava per rovinarsi la carriera con la parodia dei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni proprio mentre Mussolini, fiutati gli incensi dell'Anno Santo, era già in marcia verso la Conciliazione. Non mancò una firma femminile di prestigio: Margherita Sarfatti, una dei 33 ebrei firmatari del Manifesto di Gentile.

   Su proposta di Amendola, Benedetto Croce, a sua volta già ministro della Pubblica istruzione, filosofo, critico, spirito libero che aveva votato a favore del governo Mussolini anche dopo l'“affare Matteotti”, scrisse la replica a Gentile, pubblicata il 1° maggio su alcuni quotidiani. Essa venne classificata “manifesto degli intellettuali antifascisti” da che scordava che “intellettuale” è termine spregiativo agli occhi di Giosuè Carducci. Tra i suoi primi quaranta firmatari alcuni tennero il punto. Fu il caso di Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Ettore Janni, valdese, Arturo Carlo Jemolo, Francesco Ruffini, giurista liberale. Altri, come Giovanni Ansaldo, Arturo Labriola, Giovanni Miranda, massone autorevole, dopo qualche anno scesero a patti col regime, ritenuto definitivamente vittorioso. Lo firmò anche Matilde Serao.

   I due “manifesti” non significarono contrasti inconciliabili. Alcuni transitarono all'una all'altra sponda. Tra quanti sottoscrissero quello di Croce, parecchi collaborarono all'“Enciclopedia Italiana” diretta da Gentile, che per la voce “Ebrei” si valse di Giorgio Levi della Vida, firmatario del “manifesto Croce”, e affidò la sezione “storia delle religioni” a Raffaele Pettazzoni, massone della prestigiosa “VIII Agosto” di Bologna. La partita vera, comunque, non si giocò sui giornali, teatro di “ludi cartacei”, ma nell'assetto del potere, della produzione, delle relazioni internazionali (vi provvide un corpo diplomatico di prim'ordine, orchestrato da Salvatore Contarini, segretario generale del ministero degli Esteri) e in Parlamento. Fu nei suoi due rami che Mussolini si impegnò direttamente, e a fondo, sapendosi sorvegliato dal Re. Doveva dimostrare al sovrano che la “rappresentanza” della “nazione” (i senatori, nominati dal re; e i deputati, eletti dai cittadini) erano favorevoli al governo.

Tante finte riforme...

   Tramite lo squadrismo intruppato nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale il duce controllava la “piazza”. Di persona teneva in pugno il parlamento, in stretta convergenza con il presidente del Senato, Tommaso Tittoni, antico ambasciatore e ministro degli Esteri in alcuni governi Giolitti, e molto ascoltato dal Re; e con Antonio Casertano, presidente della Camera, ex radicaleggiante, massone incognito, il 6 aprile 1924 eletto nella Lista nazionale, come altri notabili liberali, incluso Enrico De Nicola.

   Quale presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, fiancheggiato dal protonazionalista e massonofobo Luigi Federzoni all'Interno, Mussolini ebbe pieno controllo di Montecitorio e ridusse all'osso l'opposizione in Senato. Giocò abilmente con le Camere presentando disegni di legge graditi a parte delle opposizioni, a quel modo lusingate e private di argomenti. Fu il caso della legge 15 febbraio 1925, n. 122 (mai attuata) che ripristinò i collegi uninominali. Al democristiano Acide De Gasperi il duce aveva promesso il ritorno al proporzionale. Giocava a rimpiattino. In politica, arte della menzogna qual egli la concepiva, l'ingannato non è meno colpevole di chi inganna. Conta il risultato finale.

   Tra i capolavori mussoliniani vi fu il conferimento del diritto di voto alle donne nelle elezioni amministrative, approvato alla Camera il 15 maggio 1925, dopo decenni di proposte mai giunte in porto. A suo sostegno il duce intervenne di persona, affermando che poteva essere di qualche utilità benché la donna non abbia «grande potere di sintesi e quindi sia negata alle grandi creazioni spirituali». Anche quella riforma finì nel nulla, perché Mussolini abolì l'elettività dei consigli provinciali e comunali.

   Nei primi mesi dell'Anno Santo il governo varò una folla di leggi e leggine per rinsaldare il suo controllo sul Paese e il suo prestigio agli occhi degli osservatori stranieri. Occorrevano ordine e disciplina: promesse e invocazioni di tutti i governi del dopoguerra, spesso inconcludenti (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta). Per prevalere definitivamente Mussolini si valse della macchina dello Stato, mobilitata tramite i prefetti. Contrariante a quanto solitamente si dice e si crede il passaggio dal regime parlamentare, in vigore dai tempi di Camillo Cavour, a quello di partito unico non fu affatto repentino. Non si risolse in pochi giorni, settimane o mesi. Richiese tempi lunghi e non modificò l'assetto dei poteri apicali. L'Italia rimase una monarchia rappresentativa, come enunciato dallo Statuto. Toccava al parlamento approvare le leggi elettorali. L'aveva fatto tante volte dal 1848 al 1919. Lo fece nel 1923 e tornò a farlo nel 1928. Nel 1939 l'insediamento della Camera dei fasci e delle corporazioni non richiese neppure un voto di conferma da parte degli elettori. Fu composta di membri di diritto in virtù delle cariche di partito e di “nominati”, in numero indefinito. I suoi componenti non furono più “deputati”, cioè persone scelte e “mandate” dagli elettori, ma semplicemente “consiglieri”. Se così piaceva ai legislatori e alle piazze, affollate di cittadini entusiasti, che cosa avrebbe potuto o dovuto fare il Re?

...e consenso internazionale

   Quel regime ebbe il plauso dei più influenti Stati esteri, in specie della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d'America. Lo ripetono i saggi di GianPaolo Ferraioli e di Massimo Nardini pubblicati in “1925. L'Italia verso il regime”. Nel suo insieme il volume descrive l'abile uso dei poteri istituzionali da parte di Mussolini, presidente del Consiglio dei ministri e “Capo del governo”, carica istituita con la legge 24 dicembre 1925, n. 2263. Al termine di quell’anno egli poté contare su un regime autoritario, incardinato su Partito nazionale fascista, Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, Tribunale speciale per la difesa dello Stato (annunciato e di lì a poco insediato) e su una macchina oppressiva e spionistica tra i cui strumenti fu precipua l'Opera volontaria di repressione dell'antifascismo (una delle tante decrittazioni dell'acronimo OVRA).

   Cavaliere della SS. Annunziata, e quindi “cugino del Re”, dal 16 marzo 1924, tra la metà del 1925 e l'inizio del 1926 il “duce del fascismo” concentrò nelle sue mani una somma di poteri senza precedenti nella storia d'Italia: oltre che presidente del Consiglio e ministro degli Esteri fu titolare dei ministeri militari (Guerra, Marina e Aeronautica) nonché delle Colonie. Direttamente o indirettamente influì su produzione agricola, industriale, commerciale e sul sistema bancario, con nuove norme su credito cooperativo, casse di risparmio (accorpate), credito mobiliare e Banca d'Italia. Fondato cinque anni dopo, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) venne considerato anche all'estero un modello di modernizzazione. Alla sua guida Mussolini pose Alberto Beneduce, già grande oratore del Grande Oriente d'Italia, socialista, libero pensatore, notoriamente antifascista ma disponibile a collaborare con il governo per attuare riforme che almeno in parte rispondevano ai propositi di miglioramento delle condizioni generali degli italiani. In quella direzione si prodigarono economisti, sociologi, scienziati, igienisti, scrittori, poeti e artisti come Duilio Cambellotti, il “cantore” del regime che nel dopoguerra ebbe parte eminente nella commissione che scelse l'emblema della Repubblica italiana, disegnato dal valdese e massone Paolo Antonio Paschetto.

   Tutte le leggi via via limitative delle libertà introdotte in Italia da metà Ottocento all'avvento del regime di partito unico ebbero l'approvazione dei due rami del parlamento. Nel novembre 1922 questi conferirono a Mussolini i pieni poteri per la riforma della pubblica amministrazione precedentemente negati al liberal-democratico Giovanni Giolitti. Nel 1923 la Camera eletta il 15 maggio 1921 col riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti in lizza, come già osservò il rimpianto Giovanni Sabatucci consumò il proprio suicidio con l'approvazione della legge elettorale smodatamente maggioritaria che assegnò due terzi dei seggi alla lista che superasse il 25% dei consensi: uno sproposito approvato dalla Camera eletta a suffragio universale maschile durante il V e ultimo governo Giolitti. Nel loro insieme, dunque, i “cittadini” non furono affatto “innocenti” nell'avvento del regime, che non videro arrivare o preferirono non vedere. Esso si affermò “lento pede” conquistando via via aree sempre più ampie di consenso. In massima parte non colsero di esserne vittime designate. Rimasero plaudenti sino alla catastrofe.

   Su quella premessa Mussolini cancellò la “maledetta proporzionale” (formula cara a Giolitti, che nutrì profondo disprezzo nei confronti di Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare italiano, liquidato come “prete intrigante”) e ottenne la straripante vittoria della Lista nazionale il 6 aprile 1924. Pur contando appena 227 deputati iscritti al partito (e molti solo da pochi mesi) il “duce” resse alla campagna d'opinione connessa al rapimento e alla morte di Giacomo Matteotti. Dal gennaio 1925 riprese alacremente la marcia verso il regime, condotta passo passo in Parlamento, ove egli sedette in permanenza mentre, come detto, di propria scelta cinque partiti di opposizione ne rimasero fuori.Le molte rievocazioni di Matteotti fiorite nel centenario del delitto non hanno risposto a due domande fondamentali: che cosa abbiano fatto i partiti non fascisti per non finire travolti dalla legge elettorale, approvata anche da liberali e popolari, e in quali modi efficaci essi abbiano esercitato il loro mandato nel corso del 1925.

Al bando i satanisti nel Giubileo 1925

   Il 12 gennaio Mussolini aprì l'Anno Santo presentando alla Camera il disegno di legge sulla regolamentazione delle associazioni e sull'appartenenza dei pubblici impiegati statali e degli enti locali ad associazioni, subito nota come legge contro la Massoneria. Fu la prima legge dichiaratamente “fascistissima”, deplorata da esponenti dell'opinione liberale quali Francesco Ruffini e Benedetto Croce ma approvata quasi all'unanimità alla Camera dei deputati e con soli dieci voti contrari al Senato, senza che i votanti fossero minacciati o coartati. Fu approvata dai “rappresentanti” degli italiani in Parlamento. Essi condannarono la massoneria italiana come congrega di satanisti, vincolati da tenebroso giuramento. Molti identificarono le logge con nuove forme associative, quali i Rotary Club, sospettati di esserne una reincarnazione, messa però al sicuro con l’assunzione della loro presidenza onoraria da parte di Vittorio Emanuele III, di suo figlio, Umberto di Piemonte, e dei prìncipi della Casa.

   La drastica limitazione della libertà di stampa, lo scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione, l'abolizione dell'elettività dei consigli comunali e provinciali, l'avvento del regime di partito unico, il ripristino della pena di morte (la cui abolizione, con il codice penale del 1889, aveva costituito un primato mondiale dell'Italia liberale), la dichiarata decadenza dei deputati “assenteisti” (1926), la costituzionalizzazione del Gran consiglio del fascismo (che, va ricordato, non ebbe alcun potere sulla successione alla Corona ma solo la facoltà di esprimere pareri su leggi che la riguardassero) e la riforma elettorale Rocco del 1928 vennero dopo.

   Il 24 marzo 1929 il regime mussoliniano ebbe trionfale conferma alle urne nel clima propiziato dai Patti Lateranensi, celebrati come Conciliazione e considerati così vincolanti per la storia da essere inseriti nella Costituzione della Repubblica in vigore dal 1° gennaio 1948.

   Il regime di partito unico, dunque, non fu una Rivoluzione. Vittorio Emanuele III conservò i poteri statutari e, quando venne l'ora, revocò Mussolini da capo dal governo e lo sostituì con l'Esecutivo presieduto dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio che in pochi giorni smantellò il Pnf e tutti i suoi organi e istituti. Quel regime, però, non fu affatto indolore e, di errore in errore e dopo l'orrore delle leggi antiebraiche, il 10 giugno 1940 precipitò l'Italia nella catastrofe della nuova guerra europea dal 1941 divenuta mondiale.

   La lezione del 1925 giova a far comprendere che il parlamento è il presidio delle libertà. Molto oggi si dice della sua inadeguatezza rispetto alla “democrazia decidente”: formula opaca, quest'ultima, che prospetta e alimenta, a ben vedere, sfiducia nelle elezioni quale libero esercizio della sovranità dei cittadini. La pulsione verso l'astensionismo dalle urne è una nuova forma di “aventinismo”, dannoso non meno di quello di un secolo addietro. Perciò la riflessione sulla “marcia del Parlamento” nel corso del fatidico 1925 non è mera rievocazione del passato remoto ma invito a vedere i germi di nuovi regimi personalistici, sostitutivi degli equilibri dei poteri garantiti dalla Costituzione vigente.

Aldo A. Mola

 

 

DIDASCALIA: Il libro “1925. L'Italia verso il regime”, con premessa della Principessa Maria Gabriella di Savoia (BastogiLibri, maggio 2025), comprende saggi di Carlo Cadorna, Raffaella Canovi, Antonio Cecere, Daniele Comero con Rossana Mondoni, GianPaolo Ferraioli, Luca Giuseppe Manenti, Alessandro Mella, Massimo Nardini, Luigi Pruneti, Aldo Giovanni Ricci, Tito Lucrezio Rizzo, Giorgio Sangiorgi e Antonio Zerrillo: panorami su politica estera e interna, forze armate, vita economica, culturale e sociale, tramonto delle libertà politiche e associative e figure rappresentative di un'epoca, come Gabriele d'Annunzio e il generale Pietro Gazzera.

   Il volume, pubblicato dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, con adesione di enti, istituti di studi e associazioni, è in libreria e può essere ordinato a bastogilibri@gmail.com.

Invito al Museo Nazionale Romao

 

Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano,

con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.

Invito al  MUSEO NAZIONALE ROMANO
Il percorso museale, procedendo in termini cronologico-tematico, mette in mostra i “maggiori capolavori dell’intera produzione artistica del mondo romano: sculture, rilievi, affreschi, mosaici, stucchi e sarcofagi, provenienti, come tutto il patrimonio del Museo Nazionale Romano, dagli scavi effettuati a Roma e nel territorio circostante a partire dal 1870”.
Saranno individuate le analogie
tra la Roma Classica e la Roma Capitale d’Italia.
Andremo alla ricerca delle radici profonde
della Civiltà Italica ed Europea.
Il Classico a fondamento del Contemporaneo.
DOMENICA  POMERIGGIO   1  GIUGNO  2025  ORE  16
PALAZZO MASSIMO   LARGO DI VILLA  PERETTI   2
 
(STAZIONE TERMINI )  ROMA
 INGRESSO  GRATUITO        La puntualità è cosa gradita
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA



domenica 27 aprile 2025

Appuntamento all'EUR

 Siete cortesemente invitati a un Nostro 

Incontro di Studio e di Ricerca

dedicato al Patrimonio Storico Italiano, 


con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.


 Invito al  QUARTIERE  E.U.R.


L’Incontro illustrerà la genesi di questo luogo altamente simbolico.

E’ stata scelta una posizione strategica,

da dove sarà possibile orientare lo sguardo

a favore di un’ampia veduta sul monumentale Quartiere.

Si metterà in luce l’innovativo progetto

dell’Esposizione Universale di Roma del 1942.

DOMENICA  POMERIGGIO  27  APRILE   2025  ORE  16

INGRESSO PALAZZO DELLA  CIVILTA’ ITALIANA ROMA

EVENTO  GRATUITO   

  
La puntualità è cosa gradita

   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA     

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674  



          Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

venerdì 25 aprile 2025

Saggi storici sulla tradizione monarchica - XIV

 

L'ESPANSIONE COLONIALE.

Il successore di Vittorio Emanuele Il, Umberto I, sali al trono paterno riaffermando i motivi conduttori della politica di alleanza con gli ispiratori del risorgimento e delle libertà statuarie. Ormai il regno d'Italia era cosa compiuta, si trattava di rafforzarlo e soprattut

to di affrontare quei gravi problemi che i tempi ponevano all’ attenzione dei governi.


Il rapido svolgersi degli avvenimenti, non aveva dato tempo a vittorio Emanuele di maturare taluni aspetti del processo di unificazione durante il quale alla vecchia classe dirigente subalpina si era a poco a poco sostituito un coacervo di individui e di indirizzi i cui fini non sempre coincidevano con i dettami della politica sabauda, e l'astensione dei cattolici dalla vita politica togliendo al trono quello che avrebbe potuto rappresentare un valido sostegno, rafforzava la necessità di stringersi alle correnti moderate contro coloro che nel risorgimento avevano perseguito più un ideale rivoluzionario che una meta di potenziamento nazionale. Insomma necessitava una revisione di atteggiamenti, che non avevano più ragione di sussistere e che a lungo andare avrebbero potuto rivelarsi estremamente pericolosi, per portare l'Italia fuori dell'isolamento politico in cui si era ridotta. Questi fini furono raggiunti con la prima adesione alla Triplice Alleanza stretta fra Austria, Italia e Germania.

 

Opportuna sembrava anche un'espansione coloniale in Africa, anche per controbilanciare l'influenza francese nel Mediterraneo e nel 1885 l'Italia occupava il suo primo territorio africano: Massaua sul Mar Rosso; si tentò in seguito di approfittare dello stato di confusione

 

generatosi in Abissinia per la successione del Negus Giovanni e il ministro Crispi riuscì ad estendere l'occupazione all'altopiano di Keren e di Asmara e successivamente a firmare col potente Menelik il trattato di Uccialli con cui questo accettava il protettorato italiano; altre concessioni si ottennero da piccoli sovrani locali e nacque così la Colonia Eritrea, primo successo della politica coloniale italiana.

 

La situazione interna non era però tranquilla, i primi moti italiani a carattere socialista cominciavano a manifestarsi dove le condizioni di vita più disagiate favorivano il malcontento e la volontà di ribellione delle popolazioni incolte, facile preda della demagogia e della rivoluzione; in Sicilia sorsero i fasci dei lavoratori nella fine del 1893 ed il governo dovette ricorrere alla forza, altre manifestazione si ebbero in Italia e fino a Carrara; il sovversivismo socialista cominciava a fare i primi proseliti.

 

Intanto il subdolo Menelik tentava in Abissinia di sottrarsi ai patti giurati, ribellandosi al protettorato italiano; il contrasto diplomatico, alternato a scaramuccie scoppiò presto risolvendosi in una guerra Iniziata con l'occupazione del territorio dell'infido ras Mangascià, governatore di Tigré, che provocò entro l'anno, nel dicembre 1895 un assalto di Menelik con centomila guerrieri. Il 7 cadde la piccola colonna di duemila uomini del Maggiore Toselli massacrata sull’Amba Alagi, poi l'orda sommerse il piccolo presidio del forte di Makallè comandato dal Maggiore Galliano resistette quaranta giorni, riuscendo a salvare la situazione. Il governatore, generale Barattieri

 

che fino ad allora si era tenuto sulla difensiva

anche per le difficoltà pratiche che intralciavano le operazioni, spinto dal governo e dall'opinione pubblica italiana decise l'avanzata per incontrare il nemico ad Adua, il 1 marzo 1896; la battaglia fu un disastro per le truppe italiane sopraffatte dagli abissini: duemila furono

i prigionieri, più del doppio i morti.

         

 

In Italia il ministero Crispi che     l'impresa coloniale

aveva voluta e attuata, cadeva sotto il peso dell'indignazione pubblica.

 

 

 

 

Il marchese di Rudini successo al Crispi nel governo concluse la pace rinunciando al Tigre e al protettorato e restringendo il territorio italiano all'Eritrea.

 

La sconfitta militare peggiorava la situazione politica, dall'insuccesso traevano forza i partiti sovversivi che delle libertà statuarie si servivano nei tentativi di distruzione dello stato stesso; la rivoluzione si annidava ora nel nord e le paurose sommosse costrinsero il parlamento ad affidare il governo al generale Pelloux e a votare delle leggi restrittive delle libertà, ormai convertite in licenziosi tentativi di sovvertimento politico e sociale; pure le elezioni del 190o portavano il numero dei deputati socialisti da 16 a 33 e fra loro ve ne erano alcuni a cui l'immunità parlamentare apriva le porte delle galere in cui i loro delitti li avevano gettati.

 

Di fronte alla grave situazione poco potettero le buone intenzioni del Re impedito dai legami costituzionali a porre rimedio a tanti danni.;

 

la Monarchia aveva avvinto più forte a se gli animi dei cittadini, anche per opera della bella e affascinante Regina Margherita, ma i sovversivi rifugiati sotto le garanzie costituzionali potevano in pratica portare a compimento indisturbati i loro piani che provocavano un senso di smarrimento e di disagio nel paese.

 

Di questo stato di cose fu vittima Umberto I; già in passato aveva subito due attentati: uno a Napoli nei primi mesi di regno e uno a Roma nel 1897 e sempre era sfuggito al pugnale dei sicari. La terza volta la rivoltella dell'anarchico Gaetano Bresci gli fu fatale, troncando la sua vita a Monza il 29 luglio 1900; come non pochi dei suoi  avi, il Re Buono fu vittima della rivoluzione. (*)

 

Il successore e figlio di Umberto I, Vittorio Emanuele III non credette di reagire con energia all'ondata. rivoluzionaria che investiva la nazione; pensò che una politica più rigida avrebbe inasprito gli animi e le situazioni, e preferì non intralciare l'opera di inserimento delle     masse che i ministri, soprattutto il piemontese Giovanni Giolitti, andavano realizzando. Le riforme sociali proseguirono, anche se talvolta rappresentarono più che espressioni di umana comprensione per gli umili, dei pericolosi esperimenti politici che non raggiunsero il loro scopo di svuotare di contenuto le istanze delle sinistre socialiste.

 

Le migliorate condizioni generali della situazione interna e il prestigio estero, rafforzato dal rinnovo della triplice alleanza, permisero però il proseguimento dell'espansione coloniale, che la disfatta di Adua aveva tragicamente e bruscamente troncato. La breve guerra di tredici mesi, condotta dal settembre del 1911 all'ottobre del 1912 dall'Italia contro la Turchia si chiuse con il trattato di Losanna per il quale la Tripolitania e la Cirenaica passarono all'Italia, che dal canto suo promise di sgombrare le isole del Dodecanneso nel Mare Egeo che erano state occupate durante le operazioni belliche; in realtà anche per il sopravvenire della guerra mondiale, in cui la Turchia si trovò contro l'Italia, le isole Egee non vennero più abbandonate.

Si chiuse così il primo cinquantennio di vita del regno d'Italia festeggiato con solenni cerimonie e con la grande esposizione di Torino; molti problemi sembravano risolti e molti altri avviati a soluzione; la vittoria e la conquista libica rendevano gli animi fiduciosi in giorni migliori, mentre tutta l'Europa stava per essere travolta in una terribile tempesta.

 

(*) La morte di Umberto I commosse tutta l'Italia ed al grave lutto partecipò anche l'Episcopato che fece celebrare. ovunque solenni funerali. Famoso restò soprattutto l'atteggiamento del Vescovo di Cremona, monsignor Geremia Bonomelli che superando gli intralci posti dalla questione romana, ancora aperta, rese pubblica una preghiera composta in quella circostanza dalla Regina Margherita non «sottrarre al popolo religioso un esempio luminosissima di fede, di pietà e di fortezza cristiana, piuttosto singolare che raro». Il Cardinale Ferrari, Arcivescovo di Milano e parecchi Vescovi, accorsero a Monza, a benedire dire la Salma, che come quella di Vittorio Emanuele II fu tumulata con solennissima pompa nella Basilica del Pantheon, in un monumento costruito in in faccia a quello del Padre della Patria.

mercoledì 23 aprile 2025

LA “NUOVA ITALIA” FU SUBITO EUROPEA

di Aldo A.Mola

Re costituzionale, “per volontà di Dio e per volontà della Nazione”

Il 14 marzo 1861, con 294 presenti e votanti su 443 membri (neanche due terzi), la Camera dei deputati approvò all'unanimità la legge, presentata tre giorni prima da Camillo Cavour, presidente del Consiglio dei ministri, e già sanzionata dal Senato il 26 febbraio precedente, che recita: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i successori il titolo di Re d’Italia.» Così nacque il Regno d'Italia. Non di forza propria ma per partenogenesi arrenotoca. Il sovrano assunse il titolo di re dello Stato sul quale già regnava. La mattina del 17 marzo, una domenica, Re Vittorio firmò il decreto, sottoscritto da Cavour e da altri ministri. A Torino e a Firenze l'evento fu festeggiato con i rituali 101 colpi di cannone. L'indomani la legge venne pubblicata nella “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”: da quel giorno, a rigor di norma, andrebbe datata la nascita della Nuova Italia. Un mese dopo, il 17 aprile 1861, la Camera approvò un'altra importante legge, già delibata dal Senato il 24 marzo: gli atti di governo e ogni atto del sovrano andavano intestati in nome di Vittorio Emanuele II, «per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia». Su 232 presenti i voti favorevoli furono appena 174; i contrari 58.

   Il Regno sabaudo nacque europeo, ma la sua strada fu subito in salita. Dopo sessant'anni di dominio  straniero, prima napoleonico e poi asburgico, e la lunga gestazione fatta di cospirazioni settarie (massoni e carbonari), di moti, insurrezioni, repressioni, carcere duro, supplizi, esilio e di battaglie (con “regolari” e volontari in campo), in meno di due anni, tra il 1859 e il 1860, nacque un'Italia quasi unita, quasi indipendente e quasi libera, con un re, Vittorio Emanuele II di Savoia, che se ne accollò le sorti a cospetto  dell'Europa.

  A fine marzo 1861 Cavour ottenne “alla quasi unanimità” la proclamazione di Roma capitale d'Italia: un atto di fede nel futuro ma, al tempo stesso, di ostilità nei confronti di Pio IX. Il papa avrebbe rinunciato pacificamente al potere temporale o si sarebbe opposto? L'“Italia” sarebbe entrata in Roma senza usare le armi, come promise Cavour, o a cannonate e fucilate, come poi avvenne il 20 settembre 1870?

 

Ma chi ti conosce, Italia?

Le partite aperte il 14-18 marzo 1861 erano dunque molte e molto aggrovigliate.

   Lo si percepì dal gelo della Comunità internazionale di fronte alla proclamazione del nuovo Regno. Il 27 marzo Emanuele Tapparelli d'Azeglio, ambasciatore a Londra, fu ricevuto come rappresentante del Re d'Italia. L'anglicana Inghilterra fu seguita il 30 dalla Svizzera, la terra di Giovanni Calvino, ove i cantoni cattolici pochi anni prima eran stati debellati da quelli “federali”, e lo stesso giorno dalla Grecia, ortodossa. Il 13 aprile fu la volta degli Stati Uniti d'America, tolleranti verso tutti i culti ma senza “religione di Stato” e avviati alla guerra di secessione. E i Paesi cattolici?

   Gran Bretagna a parte, l'Europa stava a guardare, con circospezione. Molti attendevano di capire le vere intenzioni di Napoleone III, la cui condotta verso l'Italia era peggio che ambigua. Nell'aprile 1859 aveva fiancheggiato Vittorio Emanuele II contro l'impero d'Austria per ingrandire il regno di Sardegna, ma solo sino a Milano, ove l'imperatore entrò precedendo a cavallo il sovrano sabaudo. Poi aveva concordato a Villafranca l'armistizio con Francesco Giuseppe d'Asburgo all'insaputa dell'alleato e di Cavour, che si dimise da presidente del Consiglio subito dopo uno aspro scontro con il re. A malincuore Napoleone III aveva consentito l'invasione dei “piemontesi” in Umbria e nelle Marche («fate, ma fate in fretta» intimò ai “missi” di Vittorio Emanuele II), a patto che non toccassero il residuo Stato pontificio. Di seguito fece prelevare da Gaeta, ove era assediato e ormai sconfitto, Francesco II di Borbone, esponente della dinastia più volte rovesciata dai Bonaparte. Lo fece trasferire nella Roma di Pio IX. Quali giochi faceva il “fosco figlio di Ortensia”, carbonaro, rivoluzionario, principe-presidente, vindice della “grandeur” della Francia eterna?

   Solo il 25 giugno 1861 Napoleone III si rassegnò a riconoscere il Regno d'Italia: dopo l'imprevedibile morte di Cavour, appena cinquantunenne. Lo fece a denti stretti, con la lettera del 12 luglio a Vittorio Emanuele II in cui ricordò al «Signore suo Fratello» che aveva propiziato l' “unione”, non l'“unificazione” dell'Italia. Per placare il malumore dei francesi, sin dagli accordi di Plombières con Cavour, nel luglio 1858, egli aveva pattuito l'aiuto contro l'Austria in cambio della Savoia, geograficamente francese, e del Nizzardo, geograficamente italiano. E ora? Non aveva mai subordinato la politica alle gonnelle.

   Dai tempi di Carlo Alberto (1831-1849) il regno di Sardegna aveva allestito un'ampia ed efficiente rete di diplomatici navigati. Erano quasi tutti di famiglie aristocratiche, doviziose e fedeli alla Corona, preparati e orgogliosi del proprio ruolo. Vittorio Emanuele II se ne valse anche per corroborare la strategia matrimoniale propria delle Case regnanti. La sua era la più antica d'Europa. Nell'ambito degli accordi con Napoleone III aveva “sacrificato” la figlia Clotilde, andata in sposa a Carlo Gerolamo Bonaparte, cugino dell'imperatore, massone, dai costumi non illibati ma politico raffinato. Un'altra figlia, Maria Pia, sposò il re del Portogallo. Pare che lo sposo potesse/volesse offrire l'Angola come dono di nozze. Vi si contavano meno di mille portoghesi. Per Lisbona non era un possedimento irrinunciabile. Sarebbe stata una base importante per Torino, che aveva relazioni con molti Stati dell'America meridionale. Ma la Gran Bretagna, che dello Stato lusitano era tutore da secoli, non gradì e non se ne fece nulla.

Continuando a inanellare riconoscimenti in terre non cattoliche, il 6 luglio 1861 l'Italia ottenne quello dell'Impero turco-ottomano, che voleva dire porte aperte ai traffici marittimi con il Vicino Oriente e il Mar Nero, fondamentale per l'importazione di semi di filugello, preziosi per bachicoltura e manifatture seriche, all'epoca di primaria importanza in Italia. Altrettanto gratificante fu il riconoscimento da parte dei calvinisti Paesi Bassi nell'agosto del 1861. Oltre a essere importante commercialmente e finanziariamente, l'Olanda apriva la strada verso Danimarca e Scandinavia, Stati luterani.



Dieci anni dopo, sulla fine del 1870, la strategia matrimoniale di Casa Savoia fece tutt'uno con la grande politica. “Las Cortes” (Parlamento) di Spagna, su impulso del generale Prim, massone, offrirono la corona al ventenne Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, fratello di Umberto, erede di quella d'Italia. Dopo accorate pressioni di suo padre, Vittorio Emanuele II, accettò. Sua moglie, Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna (1847-1876), nata in una delle Famiglie più prestigiose e ricche d'Europa, fece di tutto per farsi amare dagli spagnoli, tra i quali, però, serpeggiavano repubblicani e anarchici, che ordirono ripetutamente attentati ai sovrani. Amedeo restituì la corona e a Madrid nacque la prima Repubblica, che finì male. Sul trono tornò un Borbone. L'unione italo-spagnola avrebbe cambiato il corso della storia europea all'insegna della fratellanza dei popoli e della pace tra gli Stati. Fu un'occasione perduta.

 

Le tre piaghe del nuovo Regno

Il neonato Regno però doveva affrontare gravissimi problemi interni.

In primo luogo Pio IX aveva risposto alla spoliazione dei propri domini con la scomunica maggiore del Re, del governo e di tutta la dirigenza politico-amministrativa sabauda. Sin dalle “leggi Siccardi” contro i privilegi del clero (1849), gli ecclesiastici del regno di Sardegna avevano intrapreso una serrata lotta contro il governo, che aveva risposto in termini altrettanto fermi. L'arcivescovo di Torino era stato arrestato (il generale Alfonso La Marmora lo prelevò di persona dal Vescovado), tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dallo Stato, benché fosse cavaliere della SS. Annunziata e quindi “cugino del re”. Per gli acidi articoli sulla vita privata del re, don Giacomo Margotti era stato pesantemente percosso con un nodoso bastone portato in omaggio “a chi doveva sapere”. Anche don Giovanni Bosco aveva dovuto fare i conti con la linea anticlericale del governo. Cavour, infine, aveva fatto decadere quattro canonici eletti alla camera subalpina, non perché avesse bisogno dei voti di chi prese il loro posto, bensì per evidenziare la divaricazione tra il programma suo e quello dei “moderati”, contrari ad aprire contenziosi con la Santa Sede.

Il secondo fronte della Nuova Italia fu la guerra contro il “grande brigantaggio” alimentato nel Mezzogiorno da stranieri (parte per dedizione, altri per denaro) e dai clericali che si valevano di conventi e chiese quali asilo e per il rifornimento degli insorgenti. Il governo non esitò a usare mano ferrea, memore delle compagnie di Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo e consapevole del rischio che deflagrasse l'unità nazionale, proclamata ma non ancora radicata.

Non bastasse, nell'estate 1862 Giuseppe Garibaldi, circonfuso dalla gloria di liberatore del Mezzogiorno dal dominio borbonico, allestì alla luce del sole e nell'inerzia del governo, presieduto da Urbano Rattazzi, la spedizione “Roma o morte”, reclutando volontari con il sostegno della rinascente massoneria italiana e ottenendo sussidi da quanti, all’estero, avevano conti aperti con Roma dai lontanissimi tempi delle guerre di religione. Per Garibaldi l'impresa aveva varie motivazioni. La più esplicita era, appunto, la liberazione di Roma dal papa-re, restaurato dai francesi dopo il naufragio della Repubblica romana da lui proclamata nel 1849, molto prima che ci arrivasse Mazzini. Riprendeva inoltre il cammino interrotto nell'estate del 1860, quando, sconfitti i borbonici nella battaglia del Volturno, nella quale mostrò doti di autentico condottiero, si vide tagliare la strada su Roma da Vittorio Emanuele II, accorso in Campania proprio per imbrigliare una deriva che avrebbe comportato la sconfessione da parte di Napoleone III. In terzo luogo, ormai morto Cavour, Garibaldi riproponeva da lontano la disputa sulla cessione del Nizzardo alla Francia, che per lui costituì una questione aperta sino a quando compì il suo ultimo viaggio in Sicilia per celebrare il sesto centenario dei “Vespri siciliani”, dalla valenza smaccatamente antifrancese. Infine intendeva contrapporre la sua egemonia sulla “sinistra democratica” ai seguaci di Giuseppe Mazzini, dal quale si era diviso sin da quando aveva assunto la vicepresidenza della Società Nazionale e che ormai detestava, non solo in privato, come ostacolo per il coronamento dell'unificazione nazionale.


L'impresa garibaldina rischiò di mettere in discussione la credibilità del regno quale fattore di stabilità per la precaria “pax europea”, ristabilita dopo il Quarantotto, la guerra di Crimea e quella franco-piemontese/asburgica del 1859. Il governo di Torino dovette pertanto intervenire “manu militari” per “arrestare” (nel duplice senso di fermare e di incarcerare) Garibaldi, per di più fortuitamente ferito sull'Aspromonte, un mese dopo il prestigioso riconoscimento del regno da parte dell'impero russo (8 luglio) e del regno di Prussia (18 luglio).

 

Una politica estera tra le tempeste

I successi in politica estera non caddero dal cielo. Erano anche frutto dell'iniziativa personale del re, che, “fons honorum”, conferiva oculatamente insegne cavalleresche. Particolare rilievo ebbero i collari della SS. Annunziata assegnati nel 1861 a Carlo XV re di Svezia e di Norvegia, a Federico VII di Danimarca, ad Abdul-Aziz-Khan, sultano dell'impero turco (non devotissimo al culto mariano), all'arcivescovo di Genova, Andrea Charvaz, al consigliere del re del Portogallo, Luigi Antonio d'Abreu e Lima, ad Augusto, principe di Portogallo: un cammino che proseguì con lo Scià di Persia, Nasser-Ed Din, e con il bey di Tunisi, Muscir Mohammed-Es-Sadok… Il 29 marzo 1865 il re conferì il Collare allo sfortunato Massimiliano d'Asburgo, “imperatore del Messico”. Due anni dopo, il 13 gennaio 1867, fu la volta di Federico Carlo, principe reale di Prussia, e del conte Ottone di Bismarck Schoenhausen, poi cancelliere dell'Impero di Germania.

   Nel frattempo il regno d'Italia venne riconosciuto dalla Spagna (12 luglio 1865), ultimo fortilizio borbonico, dai regni di Sassonia e di Baviera (novembre), dal Brasile, dal Messico e dal Belgio. Nel 1866, il regno sabaudo compì un altro passo avanti, con l'annessione del Veneto euganeo e di Mantova, città fortificata d'importanza strategica per l'intera pianura padana, a conclusione della guerra italo-prussiana/asburgica, importante non solo per l'ingrandimento territoriale ma anche quale prova della volontà/capacità della nuova e fragile Italia di entrare nel novero delle grandi potenze con ruolo autonomo rispetto a Gran Bretagna e Francia, prime fautrici e tutrici della sua nascita

   Le ripercussioni si registrarono nel maggio 1867 con la partecipazione dell'Italia alla conferenza diplomatica di Londra sulla sorte del ducato di Lussemburgo. Per la prima volta i suoi rappresentanti sedettero a fianco di quelli dell'impero austro-ungarico. Fu il punto di arrivo propiziato da diplomatici di alto livello, cresciuti alla scuola di Cavour: Costantino Nigra, incaricato d'affari e poi ambasciatore a Parigi, e Isacco Artom. Lo stesso anno, con l'incontro italo-pontificio avvolto nel necessario riserbo, fu raggiunta l'intesa di reprimere congiuntamente il brigantaggio che ormai non giovava a nessuno. Altro premeva sull'orizzonte per l'accreditamento dell'Italia nel “concerto europeo”: fermare iniziative avventate e destabilizzanti (come la spedizione garibaldina naufragata a inizio novembre nei pressi di Mentana) e reprimere atti terroristici, come venne considerato l'attentato messo a segno alla caserma Serristori in Roma.

 

Le treEsse”: dall'ingresso in Roma al Mar Rosso

L'annessione della Città Eterna all'Italia continuò nondimeno a costituire il “porro unum necessarium” di una vasta schiera di patrioti: non solo mazziniani (ridotti ormai a esigua frangia) e garibaldini, di molto maggiore consistenza, anche per la mai deposta insegna “Italia e Vittorio Emanuele”, ma anche di liberali, convinti che senza la soluzione della “questione romana” il regno sarebbe rimasto incompiuto e quindi vulnerabile per il groviglio di anticlericalismo e di estremismi di varia ascrizione. Lo si vide con l'“Anticoncilio” radunato a Napoli il 9 dicembre 1869, in contrapposizione al Concilio ecumenico vaticano inaugurato il giorno precedente in Roma.

   La soluzione venne dall'esterno, con la terza “s” propizia all’Italia: dopo le battaglie di Solferino e Sadowa, la sconfitta di Napoleone III a Sedan. Pressato da Quintino Sella, il governo presieduto da Giovanni Lanza ordinò al IV corpo dell'Esercito comandato da Raffaele Cadorna di irrompere in Roma con le armi: una battaglia breve e sanguinosa, che aprì una ferita profonda non solo tra cattolici e liberali in Italia ma anche in molte capitali. Il Belgio fu sul punto di ritirare l'ambasciatore da Firenze, ove dal 1865 era stata trasferita la capitale.

   L'avvento della Repubblica a Parigi non modificò la politica estera della “sorella latina”, venata di diffidenza e di sorda ostilità nei confronti dell'Italia, considerata ingrata e persino pericolosa. Abbandonato ogni sogno di ulteriore ingrandimento sul confine orientale, lunghissimo e militarmente svantaggiato, l'Italia investì per decenni sulle difese a occidente, perché da lì erano arrivate le “invasioni” negli ultimi secoli.

   La geografia dettava la politica. Perciò, malgrado tutti i guai di casa, la Nuova Italia dovette imboccare anche la via dell'espansione Oltremare. Sbarrata la costa meridionale del Mediterraneo dalla Francia, che impose il suo protettorato sulla Tunisia, si avventurò nel Mar Rosso, in Somalia, si convinse di rappresentare l'Etiopia. Tutti passi più lunghi della sua gamba, ancora adolescente, ma coerenti con la scelta compiuta nel maggio 1882: la firma del trattato difensivo con l'impero austro-ungarico e con quello di Germania, i cui “kaiser” ostentavano ammirazione, ricambiata, per la terra amata da Federico II Staufen, “stupor mundi”.

   Nella nascita e nei decenni sino alla conflagrazione europea del 1914 l'Italia ebbe occhiuti sorveglianti, poi alcuni alleati, ma nessun amico. Dopo secoli di dominio straniero e di divisioni interne, destinate a durare, imparò a fare da sé.

 

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA: L'ingresso in Milano di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II dopo la vittoria di Magenta (4 giugno 1859) sugli asburgici di Francesco Giuseppe d'Austria (dipinto di G. Bertini). Luigi Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi col nome di Napoleone III, carbonaro, cospiratore, arrestato e a lungo detenuto, sognò da Capo di Stato di restituire alla Francia il ruolo di comprimario della storia europea. Sposò l'aristocratica spagnola Eugenia di Montijo y Taba. Per l'Italia operò di concerto con Camillo Cavour e, ancor più, con Vittorio Emanuele II. Più volte bersaglio di attentati che seminarono morti e feriti, aveva una visione planetaria del ruolo civile dell'Europa. Mentre combatteva a fianco del Piemonte contro l'impero d'Austria stava conquistando l'Indocina che per un secolo fu croce e delizia del colonialismo francese. Immaginò Massimiliano d'Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe d'Austria, suo rivale storico, imperatore del Messico. Tradito e arrestato, Massimiliano fu fucilato a Querétaro per ordine di Benito Juárez. Se vittorioso avrebbe cambiato la storia delle Americhe e, con essa, quella del pianeta. Già allora politici e statisti lungimiranti pensavano in termini “mondiali”, anziché nazionali e meno ancora nazionalisti. Non decidevano su impulsi passionali, ma con visioni razionali.

Aldo A. Mola