NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 8 dicembre 2024

ALDO GIOVANNI RICCI, NON “STORIELLE”, STORIA




di Aldo A. Mola

Alla scoperta del referendum del 2-3 giugno 1946

La “Giornata particolare” appena dedicata al 2 giugno 1946 da Aldo Cazzullo su “LA7” è un'occasione mancata per far conoscere al grande pubblico come davvero andò il referendum istituzionale. Sin dal sottotitolo: “Monarchia contro Repubblica”, anziché “Monarchia o repubblica”. Il referendum e l'elezione dell'Assemblea costituente furono gestiti da un governo formato esclusivamente da fervidi repubblicani, a eccezione di Leone Cattani che la notte fra il 12 e il 13 giugno votò contro il conferimento delle funzioni di capo dello Stato ad Alcide De Gasperi. Quel “gesto rivoluzionario” (come lo definì Umberto II nel Proclama agli italiani diramato partendo da Roma alla volta del Portogallo), o “colpo di Stato”, pose il re di fronte al dilemma: cedere alla prevaricazione del governo o rischiare di precipitare l’Italia in una nuova guerra civile. Nell’esecutivo i poteri strategici erano nelle mani dei socialisti Giuseppe Romita, ministro per l'Interno, e Pietro Nenni, vicepresidente (che minacciò “Repubblica o caos”), e del comunista Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, il quale ripetutamente impose la sua linea trincerandosi anche dietro affermazioni non vere. Per esempio, a chi chiese il controllo delle schede referendarie votate rispose che esse erano già state distrutte.

   Mentre per la repubblica si schierarono quasi tutti i quotidiani “di opinione” e, s'intende, i programmi radiofonici, i monarchici non riuscirono a dar vita a un giornale nazionale. Pesò anche il desiderio del principe Umberto, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del regno (anziché “del Re”), di rimanere “al di sopra della mischia”. In tal modo egli finì quindi per subire le imposizioni del governo, espressione del Comitato centrale di liberazione nazionale, vincolato alle direttive anglo-americane. Emanò il Decreto luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, che, rimettendo la scelta della forma dello Stato alla decisione dei cittadini, di fatto sospese lo Statuto albertino e instaurò un regime di “costituzione provvisoria”: cesura sulla quale non si conosce il giudizio di Vittorio Emanuele III, che aveva, sì, trasferito al figlio tutti i poteri nessuno escluso, ma non la Corona.

   Nell'impossibilità di rettificare in questa sede le inesattezze della narrazione esposta da Cazzullo, ne vanno corrette almeno alcune affermazioni sulle quali la storiografia ha fatto luce da tempo. Il governo Mussolini, insediatosi il 31 ottobre 1922 senz'alcun bisogno della leggendaria “marcia su Roma”, comprese esponenti di tutti i partiti costituzionali. Alla Camera fu il capogruppo De Gasperi a motivare il voto favorevole del Partito popolare italiano. Ad approvare a larghissima maggioranza quel governo furono deputati liberamente eletti il maggio 1921: un caso unico di “suicidio politico”, come, fra altri, ha insegnato per decenni lo storico socialista Giovanni Sabbatucci, morto ottantenne pochi giorni addietro.

   Scrupolosamente costituzionale, come gli viene riconosciuto da studiosi non faziosi, il re assecondò i pareri di tutti i gruppi parlamentari, delle forze costituzionali e anche dell'altra riva del Tevere, con la quale Mussolini era in rapporti diretti. Negli anni del regime autoritario (non totalitario), il re sanzionò, emanò e promulgò leggi approvate dal Parlamento, anche quando (come quelle razziste del 1938) non le approvava affatto. Non aveva facoltà di rinviarle alle Camere, come invece previsto dalla Carta repubblicana. La sua condizione non fu troppo diversa da quella del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che recentemente ha dichiarato di aver firmato anche leggi da lui non condivise. “Così si può colà dove si puote”: il Parlamento, eletto dai cittadini, sempre pronti a scaricare su altri le proprie responsabilità.

   Mentre ha omesso di ricordare che fu Vittorio Emanuele III, nella pienezza dei suoi poteri, a sostituire Mussolini con Pietro Badoglio, e a smantellare il Partito fascista e tutti i suoi organi e istituti (25 luglio 1943: decisione presa a prescindere al voto del Gran Consiglio), Cazzullo ha reiterato l'accusa di “fuga da Roma” del re (9 settembre 1943), già usata da Mussolini e dai repubblichini. Il fuggiasco procede occultamente sotto finte spoglie. L'auto del sovrano, in divisa militare, uscì dalla Capitale con lo stendardo reale bene in vista. Né è stato sottolineato che l'accettazione della resa (3 settembre) salvò la continuità dello Stato e la sua quasi totale integrità territoriale.

   Quando, dopo lunghe digressioni, giunto al punto il narratore ha ricordato quanti andarono alle urne ma non ha detto una parola sui tre milioni di aventi diritto al voto che ne furono impediti, o per motivi politici, o perché ancora prigionieri di guerra (centinaia di migliaia) o perché non ebbero la tessera elettorale o, infine, perché residenti nella XII Circoscrizione elettorale (Friuli-Venezia Giulia, Fiume, Zara...), esclusa dalla consultazione, come la provincia di Bolzano, con la promessa di potersi pronunciare quando fosse cessata la loro condizione di terre disputate: impegno mai mantenuto dal governo. Su 28 milioni di elettori, i votanti furono circa 25 milioni. La monarchia ottenne 10.700.000 suffragi; la repubblica 12.700.000: poco più della metà dei voti validi, molti meno della metà degli elettori e con un margine di vantaggio sul numero dei votanti così ristretto da legittimare la richiesta di verifica dei verbali dei seggi, inviati dagli Uffici elettorali circoscrizionali a quello Centrale.

   Il 10 giugno, a cospetto di dati ancora provvisori, il presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giuseppe Pagano, chiese che fossero rendicontati non solo i voti validi ma anche le schede bianche, nulle, contestate e non attribuite (circa 1.500.000), fino a quel momento ignorate. Prima ancora che la verifica avesse corso (13-16 giugno), il Consiglio dei ministri compì il “gesto rivoluzionario” di cui sopra si è detto. Ormai partito il Re dal suolo patrio, la verifica si risolse in un'operazione burocratica, suggellata dal colpo di Stato contro la lingua italiana messo a segno da 12 dei 18 componenti della Corte Suprema secondo i quali per “votanti” non si intende quanti vota ma solo i voti validi: decisione non condivisa né da Pagano né dal Procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, e rimasta unica nella storia elettorale d'Italia perché del tutto infondata. “Votante” è chi va al seggio, ritira la scheda, la vota e la depone nell'urna. Alle 18 del 18 giugno, letti gli esiti comunicati dall'Ufficio Elettorale Centrale, Pagano non “proclamò” affatto la Repubblica (prevalsa per effetto della legge elettorale), né accolse l'invito rivoltogli da De Gasperi di accompagnarlo al Viminale. Nessuno fece notare (e Cazzullo ha perso l'occasione di dirlo) che dopo il 10 giugno e anche dopo la partenza di Umberto II dall'Italia tutti gli atti con valore legale continuarono a essere intestati “in nome del Re” sino al 19 giugno, quando la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò il verbale dell'adunanza del 18.

   Si dirà che queste sono cose arcinote e documentate. Ma allora perché non dirle invece di narrare storielle irrilevanti? Perché, mentre Umberto viene definito “uomo ordinario”, di Vittorio Emanuele III si ripete che fu complice del regime? Alle urne gli italiani andarono nel 1919, 1921, 1924, il 24 marzo 1929, subito dopo la Conciliazione Stato-Chiesa dell'11 febbraio, e ancora nel 1934. Seguirono gli “anni del consenso” (Renzo De Felice). Il re poteva/doveva scendere in piazza da solo contro piazze stracolme di persone che inneggiavano al governo Mussolini (vezzeggiato anche da Stati “democratici”) e continuarono a credergli sino alla catastrofe del 1943?

 

Aldo G. Ricci, archivista...

Per conoscere, capire e parlare degli anni 1943-1948, cioè dal governo Badoglio alla vittoria della Democrazia cristiana guidata da De Gasperi, è d'obbligo la lettura, matita alla mano, dell'edizione critica dei “Verbali del Consiglio dei ministri” di quegli anni, curati da Aldo Giovanni Ricci: dieci volumi in quindici tomi, con introduzioni e uno sterminio di note.

   A 24 anni Ricci entrò per concorso all'Archivio Centrale dello Stato. Occhiuto direttore della Sala di studio frequentata da generazioni di studiosi e poi della Biblioteca, vice sovrintendente sino al 2002 e sovrintendente dal 2004 al 2009, Ricci non rimase succubo dei chilometri di scaffali e dalla mole immensa di faldoni, croce e delizia degli storici che per scrivere non si limitano a sfogliare qualche libro altrui ma risalgono alle fonti. Nella congerie di carte allo studioso accade di imbattersi nella conferma di quanto riteneva o di documenti che costringono a sostare e talvolta a correggersi perché “sapientis est mutare consilium”.

   Ricci ne ha conosciuti e aiutati tanti. Li ha assecondati nella ricerca e nel confronto. Era, del resto, la sua personale esperienza. Laureato con Lucio Colletti e poi suo assistente volontario, fece i conti con il marxismo, con tutte le “eresie” del socialismo e con Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (Ginevra, 1773-1842). Poi studiò i massimi protagonisti del Risorgimento italiano, da Cavour (ne pubblicò per primo i verbali dei governi nella collana “Libro Aperto”) a Garibaldi, biografato in “Obbedisco. Garibaldi eroe per scelta e per destino” (Palombi, 2007) e a Mazzini, una cui raccolta di ricordi e pensieri pubblicò nel 2011, 150° della proclamazione del regno d'Italia. All'attività scientifica, inclusa la collaborazione con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Ricci unì la pubblicazione in quotidiani e periodici di articoli che sono veri propri saggi, conferenze, interventi in una miriade di convegni e le lezioni dalla cattedra di storia dei partiti nell'Università Guglielmo Marconi di Roma e nel master “Esperti in politica” presso la Lumsa di Roma.

 

… storico del centrismo degasperiano...

Ricci ha concentrato le sue riflessioni sull'intervento dell'Italia nella Grande Guerra e le ripercussioni sul dopoguerra, tra avvento dei partiti di massa e polverizzazione dei democostituzionali, e sulle lacerazioni del socialismo in fazioni più intente a contendersi lo spazio della sinistra che a proporsi quale forza di governo. Ripropose con introduzione critica “Rifare l'Italia” di Filippo Turati (Roma, Talete, 2008). Del pari approfondì la crisi del secondo dopoguerra in quattro saggi concatenati: “Aspettando la Repubblica” (Roma, Donzelli, 1996), “Il compromesso costituente” (Foggia, Bastogi, 2000), “La rinascita dei partiti in Italia, 1943-1948” (con Pino Bongiorno, Roma, 2009) e “La breve età degasperiana, 1948-1954” (ed. Rubbettino, 2010). Tirando le somme di anni di studi su guerra e immediato dopoguerra Ricci tracciò il bilancio dell’egemonia esercitata dallo statista trentino anche alla luce della crisi della cosiddetta Prima repubblica e del confronto con la vanità parolaia di inizio Duemila. I governi De Gasperi vararono Cassa del Mezzogiorno, adesione al piano Marshall, firma del Patto Atlantico (malgrado l'opposizione accanita delle estreme e, va aggiunto, i dubbi di tanti democristiani e del clero, diffidente verso il mondo anglo-americano, protestante assai più che cattolico), piano per il lavoro e impulso alle grandi opere che prepararono il “miracolo economico”.

   De Gasperi, infine, con Luigi Einaudi, fu in Italia tra i veri fautori della scelta europeistica, imboccata all'indomani della guerra e del Trattato di pace del febbraio 1947. L'istituzione della Ceca e dell'Euratom suscitarono gli entusiasmi poi gelati dalla decisione della Francia di bocciare senza appello la Comunità europea di difesa. Si dice che al suo annuncio De Gasperi abbia pianto desolatamente. La via verso la Federazione si era bruscamente interrotta, proprio mentre la guerra della Francia per conservare l'impero coloniale nella lontana Indocina andava contro la sconfitta. Il ripiegamento verso la futura Europa delle nazioni (e dei nazionalismi: Charles De Gaulle) mise in ombra gli Statisti, come appunto De Gasperi, e riportò in auge i partiti, ancorati a rigidità ideologiche, fonte di lunghi ritardi sulla via del disgelo, avviato, promesso, poco promosso e di là da venire, malgrado la breve stagione di Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII.

… e divulgatore

Nel 1996 Ricci dedicò ai figli Ilaria e Giovanni una raccolta di 26 articoli sotto il titolo “Storie della storia d'Italia”, pubblicata dalla Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane, presieduta da Aldo Aniasi e con segretario il vulcanico Lamberto Mercuri). Nella prefazione il socialista Gaetano Arfé affrontò il nodo di cui abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito dell'opera di Franco Bandini e Luciano Garibaldi. In Italia molti “divulgatori della storia” non facevano affatto “ricerca” ma, al più, frugavano in archivi alla ricerca di un “documento esclusivo” per fare un po' di rumore. Ben diverso, precisò Arfé, era il metodo dell'allora vice-soprintendente dell'Archivio Centrale dello Stato, che sapeva inquadrare ogni episodio nella cornice della “lunga durata”: i problemi costitutivi dello Stato, l'assetto dei poteri, gli ideali che coniugavano le dirigenze consapevoli di fine Novecento alle non ancora del tutto esaurite culture politiche del Sette-Ottocento e alla conoscenza della storia senza barriere cronologiche né tematiche.

   Un lustro dopo, Ricci pubblicò il saggio che ne documenta l'ampiezza degli orizzonti: “La Repubblica”, dedicato a suo padre, Dante. Uscì nella collana “L'Identità italiana” diretta da Ernesto Galli della Loggia per “il Mulino”, che già contava libri di Anna Foa, Piero Dorfles, Luciano Cafagna, Franco Cardini, Alessandro Campi, Nico Perrone... In sei capitoli, dai Comuni medievali alla vittoria della Repubblica nella “giornata particolare” del 2 giugno 1946, che “rappresentò la tormentata” (e, diciamo pure, risicata) “conclusione di un cammino” a segmenti discontinui, Ricci collocò il proprio saggio nella fioritura di studi sulla crisi del sistema-Paese, sul problema dell'Italia-Nazione, sulla morte della patria (tema all'epoca molto discusso) e sull'esistenza o meno di un patriottismo della Repubblica o, come alcuni scrivevano, di una “religione civile”. Erano anche gli anni nei quali il presidente Carlo Azeglio Ciampi ripropose agli italiani il canto nazionale, il tricolore, l'orgoglio della propria storia, ma senza alcuna indulgenza verso nazionalismo, isolazionismo, populismo, sibbene da europeo nato in Italia, come fu ricordato da chi, come Mario Draghi, ne condivise l'impresa di modernizzare l'Italia nel rilancio dell'europeismo.

   Con quelle premesse di divulgatore scientificamente attrezzato Aldo G. Ricci condivise il progetto del mensile “Storia in Rete” (SiR) diretto da Fabio Andriola e affiancato da un comitato comprendente lui, Nico Perrone e Giuseppe Parlato e sorretto, dall'esterno, da Luciano Garibaldi.

In quell'ambito si ritagliò la rubrica mensile “Libri&Recensioni”.

Filosofia della storia

Vent'anni dopo, forse anche per l'amarezza dell'improvvisa sospensione dell'approdo di SiR in edicola, Ricci ha sentito l'urgenza di raccogliere 32 saggi (articoli, relazioni svolte in convegni...) dal titolo eloquente: “Elogio della Storia. L'Italia nella guerra civile europea 1914-1953”, pubblicato nella collana Passato-presente della Editrice Oaks, con partecipe prefazione di Ernesto Galli della Loggia. Come ha rilevato Stefano Folli, l'attualità del volume sta anche nella drammaticità dei tempi incalzanti. Mentre si moltiplicano i fronti di guerre sempre più devastanti e sanguinose, l'illusione della “fine della storia” e di una pace perpetua universale, libera da assilli ideologici e da rovelli morali, liquidati come moralismi dei tempi andati, si rivela per quello che era ed è: illusione di sottrarsi alla Storia, che torna a martellare prepotente sulla vita quotidiana e costringe anche Stati dalla vocazione neutralistica a schierarsi, ad armarsi e, anzi, a distribuire ai cittadini le istruzioni per la sopravvivenza in caso di guerre con armi “non convenzionali”.

   Fra le decine di saggi, ripartiti in quattro sezioni tematiche (la Grande Guerra, quando, con Caporetto, l'Italia si scoprì Nazione; fascismo, antifascismo, resistenza; la Repubblica sociale italiana, riscattata da certo oblio storiografico perché dopo appena ottant'anni dall'unità l'Italia si scoprì “una Nazione con due Stati”, ognuno dei quali fonte giuridica; il dopoguerra) ne citiamo uno solo per suggerire al lettore la misura della tensione anche emotiva dello storico a cospetto di momenti salienti della breve storia dei popoli d'Italia accomunati nel regno e poi nella Repubblica italiana: “Il significato simbolico della tumulazione del Milite Ignoto”. È la relazione pronunciata da Ricci il 9 ottobre 2021 nel convegno svolto a Vicoforte (Cuneo), due passi dalla Basilica ove, su impulso della principessa Maria Gabriella di Savoia e il concorso del Presidente Sergio Mattarella, nel dicembre 2017 furono traslate le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Il re, scrive Ricci con parole condivise, all'Altare della Patria si presentò «come una sorta di sommo sacerdote di un rito laico collettivo». Fu il “re soldato” che celebrò «il funerale di un commilitone, diventando simbolo e tramite della volontà e del cordoglio dell'intera Nazione». Perciò «il soldato senza nome, morto per la Patria al di fuori di schieramenti di parte, potrebbe rappresentare davvero ancora oggi il defunto che tutti possono onorare con una memoria almeno per una volta effettivamente condivisa. Un auspicio il mio, forse un sogno… ma sognare non costa nulla». Però, aggiungiamo, nella confusione dei “mala tempora” incombenti, il “sogno” consente di reperire il filo della filosofia della Storia animata da “pietas” e distinguerla da ogni “storiella”, intrisa di malanimo. È quanto Ricci suggerisce di fare.

DIDASCALIA: Aldo Giovanni Ricci (Novara, 1943). Sulla scia dei “Verbali dei governi 1943-1848”, ha pubblicato le introduzioni ai “Verbali del Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. Settembre 1943-Aprile 1945” (Roma, 2002, voll. 2) e ai “Verbali del Consiglio dei ministri. Maggio 1948-Luglio 1953” (Roma, 2005-2007, voll. 3), entrambi a cura di Francesca Romana Scardaccione: opere di riferimento per qualsiasi studio su quegli anni. Ricci ha anche concorso alla realizzazione di “Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio” (voll. 3, tomi 5, ed. Bastogi, 2007-2009): opera preceduta dall’individuazione sistematica di carte giolittiane presenti negli Archivi di Stato italiani. Quei volumi e “Giolitti, lo Statista della Nuova Italia” (ed. Mondadori, 2003,2012 e RusconiLibri, 2019) sono a disposizione del cattedratico, di un paio di sindaci di “luoghi giolittiani” (formula che introducemmo nel 1978 per il Convegno internazionale patrocinato da Sandro Pertini) e di altri che domandano “Ma quanti di noi sanno veramente chi fu Giovanni Giolitti?” e si propongono di riesumarlo in vista del centenario della morte (2028). È già fatto, da tempo. Però “repetita juvant”…



FONTE Nuovo Giornale Nazionale - ALDO GIOVANNI RICCI, NON “STORIELLE”, STORIA

Saggi storici sulla tradizione monarchica - XII

 

LA FORMAZIONE DELLO STATO UNITARIO

SOMMARIO: Carlo Alberto e la prima guerra d'indipendenza - Vittorio Emanuele II e la proclamazione del Regno d'Italia - L'espansione coloniale - La prima guerra mondiale - Conclusione.

 


1) CARLO ALBERTO E LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA.

I vecchi sovrani che rientrarono nei loro regni dopo il congresso di Vienna trovarono gravi cambiamenti, avvenuti durante la loro assenza; soprattutto la borghesia che tanta parte aveva avuto nella rivoluzione francese, non si sentiva di riassumere un ruolo subordinato all'alto clero ed alla nobiltà, e a questo fermento tendente ad ottenere una costituzione che contemplasse degli organismi rappresentativi che partecipassero al governo dello stato, si univa in alcuni il desiderio di vedere l'Italia libera dall'influenza austriaca e governata soltanto da principi italiani; tali sentimenti antiaustriaci erano particolarmente vivi in Piemonte anche negli ambienti della Corte, perché l'Austria dominava nella Lombardia che da secoli era costante miraggio della politica sabauda e perché un predominio austriaco sulla penisola avrebbe ostacolato la tradizionale politica della « foglia di carciofo » cioè della conquista dei territori confinanti, poco alla volta, perseguita dai Re di Casa Savoia. Antiaustriaco era lo stesso Re Vittorio Ernauele I, figlio di Vittorio Amedeo III e successore del fratello Carlo Emanuele IV che aveva preferito abdicare al trono per ritirarsi in un convento di Roma ove poi mori santamente, ma i suoi sentimenti non avrebbero mai permesso a lui di allearsi con la rivoluzione alla quale doveva la rovina dei suoi stati, per combattere l'Austria.

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Poiché i governi non intendevano in alcun modo favorire esperimenti costituzionali, vennero formandosi delle società segrete, la più importante delle quali fu la carboneria, che tentò con un'intensa propaganda di diffondere il desiderio di novità fra l'alta e media borghesia e il primo tentativo di rivoluzione fu quello organizzato a Napoli nel 1820 che si estese anche alla Sicilia che sempre aspirando all'autonomia, approfittò della situazione per tentare di ottenerla. Si opposero però risolutamente le potenze della Santa Alleanza, che avevano a Vienna stabilito di rimanere unite per schiacciare ogni conato, rivoluzionario, ovunque si manifestasse. Un primo congresso tenuto a Troppau nell'ottobre del 1820, con l'intervento dell'Inghilterra, dell'Austria, della Russia e della Prussia ne stabili un altro a Lubiana per il dicembre invitandovi Ferdinando I di Napoli. Il Re che, costretto dagli avvenimenti aveva concesso una costituzione, appena, libero la ritirò e con l'aiuto delle truppe austriache rientrò a Napoli dove appoggiandosi al consenso del popolo minuto colpì severamente gli esponenti della classe borghese, fautori della costituzione.

Nel 1821 scoppiò invece un tentativo dei liberali piemontesi fiduciosi nella solidarietà del Principe Carlo Alberto di Savoia Carignano (1), capo di un ramo secondario della Casa ed erede presuntivo al trono giacché né il Re, né suo fratello Carlo Felice duca del Genevese, ormai vecchi, avevano figli maschi ed il ramo principale andava così estinguendosi. L'insurrezione scoppiata nel marzo si concretizzò il 12 con l'occupazione della cittadella di Torino da parte degli insorti e con la minaccia di bombardamento della città e mise il Re Vittorio Emanuele I ché invano aveva tentato di pacificare gli insorti promettendo il perdono, di fronte ad un crudele dilemma: o versare il sangue dei suoi sudditi, o subire la violenza concedendo riforme che riteneva dannose e che avrebbero provocato l'immediato intervento militare austriaco. Preferì allora abdicare in favore del fratello Carlo Felice e poiché questi si trovava in quei giorni a Modena, il Principe Carlo Alberto di Carignano fu nominato reggente.

Carlo Alberto si trovò in una situazione terribile; da una parte i congiurati lo premevano, dall'altra Carlo Felice mai avrebbe tollerato un atteggiamento liberale. Le circostanze lo costrinsero a concedere una costituzione contro la sua volontà ma il nuovo Re, saputo questo gli intimò di recarsi con le truppe fedeli a Novara e di porsi agli ordini del Conte Vittorio Sallier de la Tour che in breve schiacciò la rivolta dando inizio ad una reazione mite e, salvo tre casi, incruenta. Carlo Alberto fu mandato presso il Granduca di Toscana suo suocero, a Firenze colpito dallo sdegno del reale zio per il tentativo di conciliazione condotto fra i diritti sovrani e l'istanza costituzionale.

Alla morte di Carlo Felice, nel 1831, Carlo Alberto gli successe al trono (2); la sua successione non fu pacifica poiché ad essa aspirava il duca di Modena Francesco IV genero di Vittorio Emanuele benché a favore dei diritti del ramo Carignano si fosse nel 1814 solennemente pronunciato il congresso di Vienna. Lo sdegno di Carlo Felice aveva ridestato le speranze del duca modenese, ma Carlo Alberto era riuscito a conquistare parte delle simpatie dello zio in seguito alla vittoriosa battaglia del Trocadero, in difesa del re Ferdinando VII di Spagna e ad essere reintegrato nei suoi diritti.

I primi anni del regno di Carlo Alberto furono tranquilli e fecondi; il Re che pur non essendo liberale, aveva sempre inteso profonda avversione per la supremazia austriaca in Italia, sapeva bene quale pericolo poteva rappresentare per la sua Casa e per il suo Regno un atteggiamento intempestivo e badava, in attesa di tempi più propizi, a rafforzare e riorganizzare il suo Stato attraverso importanti riforme giuridiche, finanziarie e amministrative; in quel tempo il Regno di Sardegna fu lo stato in condizione più prospere fra i minori d'Europa ed una tradizione di capacità e di onestà dominava incorrotta nella magistratura, nell'esercito e nella diplomazia, mentre sotto l'esperta guida del ministro Clemente Solar° della Margarita il prestigio sardo cresceva anche all'estero ed un'abile rete di relazioni veniva stesa con tutte le nazioni, anche estraeuropee.

Poi i tempi si fecero di nuovo burrascosi; i fermenti antiaustriaci e costituzionali crebbero in Italia ad opera dei federalisti giobertiani che propugnavano una federazione italiana sotto la presidenza del Papa, dei repubblicani e degli unitari che prima di ogni altra cosa volevano la cacciata degli austriaci e si volgevano a Carlo Alberto come naturale capo; fra i capi del movimento erano uomini come Massimo d'Azeglio e Cesare Balbo.

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Premuto dagli avvenimenti e dall'esempio di papa Pio IX che aveva concesso un'ampia amnistia ai condannati politici, Carlo Alberto il 4 marzo 1848 concesse ai suoi popoli uno Statuto; lo aveva preceduto l'11 febbraio il Granduca di Toscana, lo seguiva il 15 marzo Pio IX. Intanto gli avvenimenti incalzavano; il 23 marzo era dichiarata la guerra all'Austria e tutti i principi italiani mandavano soldati rispondendo all'invito di Carlo Alberto: ecco le prime vittorie Goito, Pastrengo, Manzambano, Valeggio, poi il 10 luglio Vicenza cade nelle mani degli austriaci. I principi italiani, temendo che la vittoria tornasse a solo vantaggio del regno di Sardegna, ritirarono le loro truppe e, mentre Carlo Alberto metteva in giuoco corona e regno contro la preponderante forza austriaca, Mazzini a Milano promuoveva una campagna antimonarchica e antipiemontese. Il 22 luglio l'esercito piemontese fu battuto a Custoza e il 4 agosto a Milano; Carlo Alberto è costretto all'armistizio di Salasco e, mentre vede tramontare un sogno di grandezza e d'indipendenza, i nemici della corona continuano la campagna di odio e di fango contro di lui e contro l'esercito piemontese, di cui avrebbe dovuto rimanere indiscusso il valore e il prestigio militare.

Pure l'anno seguente, allo scadere dell'armistizio, Carlo Alberto passa ancora il Ticino, a capo di un esercito di 120.000 uomini e dopo qualche scaramuccia impegna la battaglia risolutiva a Novara, il 23 marzo 1849. I piemontesi sono sconfitti, è la fine. Carlo Alberto la sera stessa abdica al trono in favore del figlio Vittorio Emanuele duca di Savoia e parte per Oporto in Portogallo, per spegnersi il 28 luglio dello stesso anno (3) in volontario esilio.

Molteplici furono i motivi della tragica fine di questa prima guerra dell'indipendenza nazionale, ed in primo luogo la sproporzione di forze fra l'Austria, potenza di prima grandezza ed il Regno di Sardegna, che si trovò praticamente solo nella modestia dei suoi mezzi e delle sue possibilità militari, non certo paragonabili a quelle della rivale; in secondo luogo c'è però da considerare la campagna denigratoria svolta all'esterno dai gruppi repubblicani, specialmente milanesi, l'azione non sempre unita e concorde dell'opinione pubblica italiana, sovente sbandata e confusa, ed anche la situazione interna dello Stato, dove la turbolenta Camera dei deputati spesso si mostrava più di impaccio che di aiuto alla grande impresa del Re.

 

 

Carlo Alberto, che credette di porsi a capo di una crociata italiana contro l'austriaco, In realtà fu solo, ché tutti lo abbandonarono, dai principi italiani al repubblicani, dai deputati al popolo milanese non conscio della sua missione.

Fu  solo con quelle forze che nella storia dei secoli erano state il sostegno della sua Casa: la diplomazia e l'esercito; con quei generali che sul campo di Novara, da Perrone a  Passalacqua, si trascinarono ai piedi del Sovrano per baciare la sua mano e morire.

Restavano in Italia le repubbliche di Venezia, insorta, contro l’Austria sotto la guida del dittatore Daniele Manin e di Roma dove fuggito il Papa a Gaeta, era stato insediato un triumvirato diretto da Mazzini; ma entro l'anno cadevano e Venezia, tornava all'Austria mentre Pio IX rientrava a Roma, protetto dalle truppe francesi e fermamente deciso a non cedere in futuro a nessuna lusinga costituzionale che avrebbe segnato la fine del dominio temporale. Il prestigio austriaco in Italia permaneva intatto, come era stato sancito a Vienna trent'anni prima.

 

(1) Carlo Alberto apparteneva al ramo sabaudo dei Principi di Carignano, discendenti da Tommaso, primo principe di Carignano, figlio di Carlo Emanuele I; derivazioni del ramo Carignano furono i Savoia Soisson estinti con la morte di Eugenio il Grande, generalissimo degli eserciti imperiali, e i Savoia Villafranca estinti con la morte del principe Eugenio di Carignano, nel 1888. Al ramo Carignano appartenne Maria Teresa prozia di Carlo Alberto e sposa del Principe di Lamballe, che fu una delle vittime più illustri della rivoluzione francese.

(2) Carlo Felice fu l'ultimo dei sovrani sabaudi sepolto nell'antica Abbazia di Altacomba, la  necropoli sabauda abbandonata dal secolo XVIII per la basi­lica di Superga. L'Abbazia, devastata sotto la rivoluzione francese, fu restaurata da Lui, che volle qui avere la sua tomba.

(3) Carlo Alberto si ritirò ad Oporto in Portogallo, sotto il nome di Conte di Barge, senza permettere nemmeno alla moglie, Regina Maria Teresa, di seguirlo.

Dopo pochi mesi morì santamente e della sua fine edificante restano diverse interessanti relazioni. Il suo corpo fu poco dopo trasferito a Torino e tumulato nella Basilica di Superga.

giovedì 5 dicembre 2024

Morto Enzo Trantino, storica figura dei monarchici italiani

Il Blog Monarchici in Rete esprime profondo cordoglio  e porge alla famiglia dell'On. Trantino le più sentite condoglianze per il gravissimo lutto, che colpisce  tutti i monarchici.



E’ morto Enzo Trantino e Catania piange la scomparsa di un avvocato illustre, di un politico che ha fatto la storia della Destra italiana e di un uomo colto che fino alla fine ha tenuto in esercizio la sua mente eccelsa scrivendo anche per il quotidiano La Sicilia.

 

Da giovane aderì al partito monarchico e poi entrò nel Movimento Sociale Italiano e quindi in Alleanza Nazionale. E’ stato sottosegretario al ministero degli Affari esteri e deputato per nove legislature. E’ stato anche presidente della commissione d’inchiesta sull’affare Telecom Serbia.



fonte:https://www.lasicilia.it/catania/morto-enzo-trantino-scompare-una-figura-storica-del-foro-catanese-2342969/

IL SOLSTIZIO D’INVERNO L’INNO A ROMA

 

Siete invitati a una Nostra Conferenza, dal Titolo
IL SOLSTIZIO D’INVERNO L’INNO A ROMA. 

LA CAPITALE SI CELEBRA


La Conferenza con immagini, occasionata dal Solstizio d’Inverno
e dal Centenario della Morte di Giacomo Puccini,
metterà in luce la relazione
tra la Storia Risorgimentale della Capitale e l’Opera del Maestro.
Dall’Inno a Roma alla Tosca la musica di Puccini
scandisce il processo di Unificazione Nazionale,
esaltando “il sol che nasce sulla nuova Storia”.
La Conferenza sarà intervallata dalle arie più belle del melodramma pucciniano.

LIBRERIA  HORAFELIX
VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA
MARTEDI’  17 DICEMBRE  2024   ORE 18
INGRESSO  CON  CALICE   AUGURALE     € 5
INFO E PRENOTAZIONI    338 4714674  
Email   
terzanavigazionefutura@gmail.com

lunedì 2 dicembre 2024

Alluvione Valencia, Re Felipe e quel fango responsabile che il Paese non può più capire

 del Nostro Amico Francesco Di Bartolomei

02 Dicembre 2024




Auguri a tutti quelli che scavano nel fango per ritrovare un casa e se stessi, auguri anche a lei Maestà che riesce a fare il suo lavoro anche in queste condizioni, dimostrando a chi ne ha bisogno che la via della responsabilità anche quando è scomoda è sempre necessaria


Re Felipe, fonte: 

Dopo li disastro naturale di Valencia, sulla stampa italiana è stato dato il massimo risalto alle contestazioni che ha ricevuto il Re Felipe VI di Spagna nella sua visita alla città, occorsa poco dopo il tragico evento. In Italia da sempre si ironizza sul ruolo delle case reali europee, specie in questi ultimi decenni. Si fa un po' fatica a capirne il motivo visto che questo paese è una repubblica dal 1946 e non ha avuto mai a riguardo una cultura barricadiera come quella francese, ad esempio.

Da noi chi si diletta storicamente a parlarne finisce in genere a giustificare la nascita delle istituzioni repubblicane, sulla base degli errori o delle responsabilità dei Savoia (vere o presunte) nel periodo del fascismo e della seconda guerra mondiale. Benchè poi, tali responsabilità non siano mai state acclarate in un processo che, avrebbe finito probabilmente col trascinare un'intera nazione in quelle responsabilità, compresi alcuni nobili padri costituenti della neonata repubblica.

Qualcosa che nasce solo per essere contro qualcos'altro difficilmente avrà vita semplice e lo si è visto. In genere chi parte con una contrapposizione di questo tipo finisce col esacerbare nella lotta tra le fazioni qualsiasi cosa, non focalizzando mai esempi inclusivi o responsabili ed arrivando ad un certo punto neanche più a concepirli o capirli. L'inclusione istituzionale o la condivisione non è retorica ma senso di responsabilità, anche quando le cose non vanno per come dovrebbero andare. Le responsabilità principali del disastro valenciano dopo l'aspetto naturale preponderante, per cui poco o nulla centra lo stato spagnolo (a prescindere se si creda o meno alla crisi climatica), sono di Carlos Mazòn, presidente della comunità autonoma valenciana, politico di un centro-destra-quello iberico-che stenta a costruire un alternativa credibile al pur bollito Pedro Sanchez (scappato come il Mazòn alle prime contestazioni degli alluvionati).

Questo esponente locale ha tenuto il tipico atteggiamento degli amministratori di determinate regioni produttive europee, per i quali la macchina economica del loro territorio non può fermarsi per nessun motivo anche a costo di rischi oggettivi, che nel caso vanno minimizzati, tanto poi se va male si darà la colpa allo stato centrale.

D'altronde nella costa catalana come in un certo nord-est d'Italia o nelle Fiandre, la cultura politica da bar, fatta di luoghi comuni, velate ipocrisie, incongruenze e razzismo a bassa o alta intensità (a seconda di chi gli si contrappone), sono ormai quasi patrimonio culturale o per meglio dire sub-culturale. In mezzo a tutto ciò il vertice dello stato di Spagna, il Re si è posto per come si doveva porre, partendo e sapendo a ciò che andava incontro, non arretrando. All'arrivo ha trovato fango su di se e la Consorte e questo ha focalizzato l'attenzione dei media. Peccato che almeno a casa nostra, poco o nulla si è visto del dopo. Il Sovrano si è avvicinato ai contestatori e si è messo a dialogare con loro e come tra persone con cui si condivide qualcosa, si è passati dal fango agli abbracci; quando chi spinto a contestare dai vati del nulla cosmico, si è specchiato in qualcuno di cui ha percepito i veri sentimenti. Quella maggioranza silenziosa che vive lavorando ha capito, ma ai media che in quei giorni già tremavano per la sconfitta di Kamala Harris, poco interessava. Quel Re in piedi nel fango mi ricordava le illustrazioni della "Domenica del Corriere" su Umberto I a Napoli nel 1882 per il colera o su Vittorio Emanuele III e la Regina Elena a Messina per il terremoto del 1908.

Da uomo della strada preoccupato e a volte sommerso dai problemi della vita quotidiana se un genio della lampada mi dicesse: vuoi essere un potente del mondo? Non so cosa gli risponderei ma di certo so cosa non gli risponderei: il Re di Spagna. Parlo di una nazione che ho nel cuore da sempre ,sia per la fraternità che in ogni momento della storia ha dimostrato verso il nostro popolo, sia per ciò che ha rappresentato a partire dal 1492(e a dispetto dell'attuale cancel culture imperante ancora per poco). Per 3 secoli questo paese fu una Nuova Roma, sorta già qualche secolo prima a difesa della civiltà latino-cristiana. Tuttavia da più di cent'anni è uno dei pochi paesi decisamente più ingovernabile del nostro, dove le fazioni politiche soffrono fino all'inverosimile pur di non ammettere una enorme ovvietà e cioè che senza la monarchia la Spagna non esisterebbe. Probabilmente sarebbero 5 o 6 stati in lotta tra loro e schiavi di mafie d'oltreoceano.

Ogni volta che pongo anche in modo gentile questa domanda, a qualche rappresentante o analista spagnolo legato a certe visioni, mi guarda non sapendo rispondere e in genere palesa subito dopo un atteggiamento, frustrato, violento e a tratti schizofrenico. Ciò nonostante costoro, riescono a far rimanere questa nazione in un perenne clima da guerra civile(non ce la fanno ancora a digerire la sconfitta e per tanto si sfogano sulla qualsiasi arrivando all'accanimento anche sulle tombe) strisciante, anche in un momento drammatico per la Spagna come quello odierno.

Superato questo aspetto sposto la lente su casa nostra e su quello che ha generato questa notizia. In me aldilà del già detto, ciò che colpisce è quell'indice puntato sul Re, che qualche giornalista ha voluto porre, come a dire: "Cosa volete queste istituzioni retrograde hanno ciò che meritano". Bej a chi dimostra questo tipo di sentimenti, posso dire che il troppo tempo vissuto all'ombra della de-responsabilizzazione generale ha avuto il suo effetto. In Italia dopo che l'allora Presidente Scalfaro venne spintonato ai funerali palermitani del Giudice Paolo Borsellino e della sua scorta, non c'è più stato nulla di tutto questo, per il semplice fatto che nei luoghi di imminente tensione un capo dello stato non è più andato, accampando a volte il motivo di facilitare la macchina dei soccorsi. Prima no, o almeno il Presidente Pertini nel 1980 non ebbe paura dei terremotati dell'Irpinia.

In troppi tragici eventi degli ultimi decenni in questo paese qualcosa è sempre mancato (almeno nell'immediato). In particolare sotto una presidenza della Repubblica precedente all'attuale, la personalità si muoveva solo in presenza di una "claque" ben organizzata e aveva una mania fobica di far apparire la sua immagine al di sopra di ogni contestazione. Per carità umana non cito il nome del Presidente giacché parliamo di un defunto. Forse per questo in Italia non ci fa più caso nessuno e in nome di ciò ci si butta a pesce da parte dei media a fare sciacallaggio su un capo di stato straniero, tanto e pure meno rischioso.

Lo confesso, da cittadino italiano di origine umbra, che otto anni fa ha perduto una casa per cui nessuno ancora mi ha fatto sapere nulla, a certe cose ci sto attento. Mi domando però cosa sia peggio... Se avere come nel caso della Spagna un pezzo di paese che vuole necessariamente autodistruggersi senza un motivo o essere come una parte della società italiana, per la quale ha senso solamente il più bieco cinismo. Auguri a tutti quelli che scavano nel fango per ritrovare un casa e se stessi, auguri anche a lei Maestà che riesce a fare il suo lavoro anche in queste condizioni, dimostrando a chi ne ha bisogno che la via della responsabilità anche quando è scomoda è sempre necessaria.

Di Francesco Di Bartolomei.