Prima pagina de Il Giornale del 19 Marzo 1983.
Indro Montanelli saluta il Sovrano scomparso con questo fondo in cui chiede la sepoltura a Superga. Il che dimostra che anche un gigante come Montanelli poteva fare qualche errore.
Nessuno può dire che Re sarebbe stato Umberto di Savoia, se fosse rimasto Re. Nelle poche settimane in cui lo fu, anche i più arrabbiati repubblicani che ebbero a che fare con lui ne riconobbero l'equilibrio, la correttezza e la lealtà. Chiamato a rispondere di colpe non sue, lo fece senza trincerarsi dietro quelle di suo padre. Mai una parola uscì dalla sua bocca, né allora né poi, contro di lui. Quando, anni dopo, gli chiesi a Cascais se era vero che l'8 settembre il Re gli aveva proibito di restare a Roma alla testa delle truppe che dovevano difenderla dai tedeschi - un gesto che forse avrebbe salvato la monarchia - me lo smentì, mentendo. Mi accorsi che non difendeva la memoria di suo padre per affetto di figlio: di affetti, nelle case ragnanti, ce ne sono sempre pochi, e in quella dei Savoia meno nelle altre. Difendeva, da Re, il Re.
Qualcuno gli rimprovera di aver contestato i risultati del plebiscito che sanciva la fine della Corona, qualche altro gli rinfaccia di esservisi troppo facilmente rassegnato. Credo che Umberto si rendesse conto che anche se qualche broglio c'era stato, esso non era tale da sovvertire il verdetto: su un margine risicato, quale in ogni caso sarebbe stato quello del 2 giugno, possono vincere le repubbiche non le monarchie. Capì che una resistenza avrebbe significato il sangue per le strade. E preferì abbandonare la partita.
Raccontano che, salendo a Ciampino sull'aereo che doveva condurlo a Lisbona, a chi gli diceva che presto sarebbe tornato, rispondesse: "I Re sono come i sogni: o si ricordano subito, o non si ricordano più".
Una battuta troppo brillante per appartenere al suo repertorio. Ma nemmeno le illusioni appartenevano al suo repertorio. Era perfettamente consapevole che la sentenza del referendum era senza appello e che lui non avrebbe avuto successori nemmeno a titolo di «pretendenti»: la sua famiglia non era mai stata, forse anche per colpa sua, una famiglia, e ora che a tenerla insieme non c'era più l'autorità di un Sovrano. nell'esercizio delle sue funzioni né la «ragione del trono», essa si avviava fatalmente a uno, sfascio di coppie scoppiate e di storie da rotocalco. Ma invece di profittarne per liberarsi dalle stecche di balena in cui lo avevano fin da ragazzo imbustato, e fare come i Don Juan di Spagna e i Carol di Romania che si consolavano della perduta corona nelle frivolezze della mondanità e dei casinò, Umberto rimase Re dalla testa ai piedi, e lo è stato fino all'ultimo, anche - mi dicono - di fronte alla morte.
La villa di Cascais, dove si era rifugiato, e dove andai alcune volte a trovarlo, solitaria e malinconica, anche un po'squallida come tutte le case dei Savoia, di fronte a un mare plumbeo battuto soltanto dalla risacca e dai gabbiani, gli somigliava. La vita che vi conduceva era anch'essa solitaria, malinconica, macerata dalla nostalgia. Per rivedere la sua patria, avrebbe rinunciato a tutto. A tutto, meno che alla sua qualifica di Re. La portava non come un blasone o un pennacchio, ma come un cilicio. Dalla mattina alla sera era a disposizione degl'italiani che andavano a trovarlo. Li riceveva tutti, dai più illustri ai più umili, e tutti trattava come se fosse ancora il loro Re, con un distacco corretto dalla più squisita cortesia, che a tutti imponeva, senza mostrarlo, l'osservanza di una certa etichetta. Non usciva che per qualche breve passeggiata sul lungomare, ma non disertò mai quelle uggiose cerimonie che tuttora fanno da mastice della internazionale dei troni: matrimoni, battesimi e funerali.
Anche se non so che Re sarebbe stato se fosse rimasto Re, so che nessuno lo fu più e meglio di lui dal giorno in cui smise di esserlo, e da allora sono trascorsi trentasette lunghi anni. Nessuna dinastia credo, neanche quella Hohenzollern, ha avuto un epigono che all'impegno di onorarne il nome e il ricordo abbia saputo fare tanto, sacrificio della propria vita, e con piena coscienza della sua assoluta inutilità. Dei suoi antenati, quello a cui più somigliava è Carlo Alberto: se non nel carattere, nella sventura e nella dignità con cui portata. Forse è per questo che scelse come terra di esilio, il Portogallo.
Come i sogni, lo avevamo dimenticato. Ci volevano l'agonia e la morte per richiamarcelo alla memoria. Ora ci auguriamo che l'Italia repubblicana senta il dovere di rendere un sommesso omaggio a questo ultimo Savoia, il più incolpevole e sfortunato di tutti, accogliendone le ceneri a Superga, come egli stesso ha desiderato e richiesto; e che lo faccia con più sollecitudine di quella con cui, dopo aver riconosciuto l'opportunità di consentirgli il ritorno da vivo, non gliene ha dato il tempo. In fondo, è un pezzo detta nostra storia che finisce con lui. E chi rinnega la propria storia, bella o brutta che sia - ma non è mai né tutta bella, né tutta brutta - rinnega se stesso.
Indro Montanelli
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