L'Italia e l'anti-Italia si combattono da due  secoli e continuano a farlo. In questo modo non ci percepiremo mai come  popolo 
 
 
Sempre più frequenti segnali di "cedimento" del senso stesso di  "unità nazionale", che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando l'ultimo  decennio della vita italiana, dovrebbero indurre a porsi, innanzitutto, una  domanda guardando, per la risposta, nel profondo del proprio animo: "quale  italiano, considero positivamente il fatto che quasi 140 anni orsono qualcuno  abbia agito affinché questa Nazione tornasse ad essere unita dopo 1500 anni di  divisioni, oppure mi ritrovo, in fondo, insoddisfatto per ciò che tale evento ha  determinato ritenendo, quindi, l'Italia unita un errore ?"
Dal tipo di risposta che ognuno vorrà darsi, dipenderà il modo  in cui verrà giudicato l'operato della Dinastia e degli uomini politici che,  bene o male, hanno fatto l'Italia. La Storia è, probabilmente, la meno amata  delle discipline scolastiche. E' pesante nell'analisi e, soprattutto, è pesante  da digerire. In effetti è assurdo sperare di comprendere storicamente un dato  evento negli anni immediatamente seguenti il fatto che lo ha determinato; lo si  può comprendere e raccontare, ma mai capire appieno. Basti pensare alla  rivoluzione Francese del cui "mito" molti angoli sono stati smussati solo  duecento anni dopo il verificarsi della stessa.
Ciò vale, indubbiamente, anche per il risorgimento nazionale,  fenomeno storico che si può e si deve ancora analizzare e sviscerare,  sfrondandolo di un'inevitabile, prosaica, retorica post-unitaria. Ciò,  indubbiamente, potrà portare l'acqua a questo o quel mulino, leghista, neoguelfo  o neoborbonico, ma il risultato finale resta che, comunque, il Risorgimento, ha  portato all'Unificazione della Nazione grazie a un Re che ebbe l'acume di  circondarsi di persone di straordinaria intelligenza politica e diplomatica,  nonchè di avventurieri che operarono, con indubbio disinteresse, solo per un  ideale "garibaldino" che segnò un'epoca e tre generazioni di italiani.
Dunque, anche considerando un Risorgimento "ripulito" da tutte  le sopraelevazioni che una certa retorica ha voluto, per troppi anni,  costruirgli sopra, non si può non accettare, unionisti ed anti unionisti, il  fatto che nel corso del XIX secolo furono tanti gli italiani che si ritrovarono  legati dal comune ideale di libertà del "suolo patrio" dal giogo straniero.  Tanti, sicuramente, di ogni regione e da ogni regione, ma certo non tantissimi,  come si volle credere e far credere al tempo dei plebisciti post-unitari. Di  certo una maggioranza stragrande tra quella classe medio-alta della nascente  borghesia imprenditoriale, di una parte del mondo agrario, in particolare al  nord ed al centro, di una parte non piccola dell'aristocrazia che, a volte,  specie nel nord, corrispondeva alla stessa classe imprenditoriale, a gran parte  degli uomini di cultura. Insomma buona parte della così detta "Intellighenzia"  italiana, che aveva vasta presa su tutti altri, rappresentati dalla moltitudine  di contadini, braccianti, agricoltori che formavano la stragrande maggioranza  della popolazione negli stati pre-unitari e che, specie nel meridione, vivevano,  in fondo, nella fedeltà al vecchio motto, frutto diretto di secoli di  dominazione straniera "con la Franza o con la Spagna, a me basta che se magna".  Il che non voleva certo essere una testimonianza di un'innata indolenza dei  popoli del sud, ma una drammatica riprova della necessità, per tutte le genti  italiane, di vivere, per secoli, una continua battaglia diuturna per la  sopravvivenza tra due o più padroni, spesso in guerra tra loro. Questa  "intellighenzia" ebbe modo, in gran parte d'Italia, di portare dalla parte  dell'idea nazionale un sempre maggior numero di coloro che, incerti all'inizio,  vedevano sempre con sospetto il cambiamento. Non tanto per indefessa fedeltà ai  principi sotto il cui scettro vivevano - fatte le debite, onorevolissime,  eccezioni - ma per l'innato conservatorismo delle classi rurali italiane che,  all'epoca, rappresentavano almeno 1'80% della popolazione. Il processo di  diffusione dell'idea nazionale iniziò a diffondersi, sempre più prepotentemente,  sin dal giorno successivo alla restaurazione che seguì il Congresso di Vienna  nel 1815. Con il Bonapartismo, per la prima volta dopo secoli, era stato  organizzato e si era effettivamente costituito un Regno d'Italia che, per alcuni  anni, aveva riunito alcuni milioni di italiani, fino ad allora appartenenti a  differenti Stati (Ducati, Stati della Chiesa, Lombardo-Veneto) sotto un'unica  bandiera, non a caso, tricolore.
Tale esperienza, che con la restaurazione sembrava  definitivamente tramontata, dimostrò, invece, di aver lasciato tracce ben più  evidenti di quanto fosse sembrato.
Sfrondando una retorica anti-sabauda, trasudante, anche  volgarmente a volte, livore contro la Dinastia, occorre dire, ad esempio, che  proprio i Savoia furono, tra i restaurati sovrani italiani, quelli che seppero,  in qualche modo, meglio sfruttare l'eredità napoleonica nel campo, per dirne  una, delle riforme economiche.
Basti, tra tutti, l'esempio della riforma monetaria. Tra tutti  i provvedimenti napoleonici infatti, uno di quelli che maggiormente lasciò il  segno nella storia fu indubbiamente l'introduzione del sistema decimale nei  conti, nei pesi e nelle misure.
L'introduzione del Franco Francese, diviso in 100 centesimi,  che venne adottato anche in Italia con la lira, divisa sempre in 100 centesimi,  segnò, insomma, l'inizio della moderna monetazione. Proprio quella che tutt'oggi  ancora usiamo.
Ebbene, di tutti i Principi italiani restaurati sui loro Troni  dopo il periodo napoleonico, fu proprio il bistrattato Vittorio Emanuele I di  Savoia a voler mantenere tale sistema monetario nei propri Stati, seguito, a  ruota, dalla Duchessa di Parma che, và rciordato, era quella Maria Luisa  d'Asburgo, vedova dello stesso Napoleone. Tutti gli altri tornarono al vecchio  sistema "carolingio" basato su Ducati, corone, carlini, fiorini, tornesi,  talleri, Grana, Tarì ecc, con quali positive conseguenze per gli scambi tra  Stato e Stato è facile immaginare, in assenza, anche negli anni a venire, di uno  "zollverein" italiano.
La Costituzione non venne concessa, è vero, nemmeno dai Savoia,  ma probabilmente era veramente troppo pretenderlo da un uomo che, in fondo, era  e restava un personaggio del'700 che aveva visto, in meno di vent'anni,  mutare
un mondo, il suo mondo, statico, nelle sue principali strutture  da più di 1.000. I moti italiani del 1821, pur se non portarono nell'immediato a  nulla di concreto, iniziarono a dimostrare, agli osservatori più acuti che, se  un giorno si fosse giunti a dover guardare a qualche principe per guidare un  eventuale processo di indipendenza italiana, questo avrebbe dovuto essere  cercato nell'Italia nord-occidentale; in quel Piemonte cioè che era stato  scosso, in quell'anno, da forti femiti liberali ai quali, per la prima volta,  aveva dato la piena desione un Membro nons econdario della famiglia  regnante.
Il tutto era partito, nell'occasione, sull'onda di eventi  interni spagnoli, nel corso dei quali una parte dell'esercito, armato e pronto  ad imbarcarsi per andare a reprimere gli indipendentisti nelle colonie sud  americane della stessa Spagna, si era ribellato nel porto di Cadice chiedendo la  concessione della Costituzione. A seguito di questi anche in Italia,  inizialmente nel Regno di Napoli, si erano sviluppati moti liberali. Un  reggimento dell'esercito Reale, di stanza a Nola, si era ribellato e, guidato da  due ufficiali, Morelli e Salviati, aveva mosso su Napoli.
Il Re Borbone, Ferdinando I, non aveva avuto la forza o il  coraggio di contrastare tali truppe e ciò aveva indotto i costituzionali ed i  liberali napoletani ad insorgere per sostenere il gesto dei militari. Pressato  dalle circostanze, il Sovrano aveva cercato di prendere tempo, sapendo che ben  presto le potenze eruopee sarebbero in qualche modo intervenute per salvare e  ripristinare l'ordine costituito varato aVienna appena sei anni prima.
Stante però la lentezza degli atti delle potenze eruopee ed il  sempre più vivo movimento popolare, il Re dovette, comunque, far buon viso a  cattiva sorte approvando una serie di concessioni, accolte con favore dalla  popolazione, tra cui la promessa di una carta costituzionale.
Nel mentre tali eventi si svolgevano, finalmente l'Austria,  arbitro della vita e della politica italiana, riusciva a convocare a Verona un  assise delle maggiori potenze per affrontare la situazione. Per Ferdinando I era  la salvezza! Restava il problema di come far giungere agli alleati il "suo grido  di dolore" per le riforme che era stato costretto a varare e a subire. Vi era il  fondato rischio che i napoletani, pur legatissimi all'Istituto Monarchico,  potessero in qualche modo limitare la sua libertà d'azione impedendogli di  raggiungere Verona. Ecco quindi il primo gesto che, agli occhi di molti, iniziò  ad incrinare l'immagine di Re Ferdinando e della Sua Casa. Egli infatti chiese  ed ottenne che, per poter "difendere" la costituzione innanzi alle potenze  riunite, potesse raggiungere la Città veneta lasciando in "garanzia" (affetto  paterno!) il proprio figlio ed erede, Francesco, duca di Calabria.
Non appena in Veneto però, al sicuro sotto le bandiere  dell'Imperatore d'Austria, ecco il disconoscimento di Ferdinando dei suoi  proprii stessi atti nonchè la richiesta di un corpo di spedizione - subito  concesso da Vienna - per la riconquista delle Due Sicilie. Finito il sogno  costituzionale i reggimenti asburgici, in breve, ebbero ragione, con una rapida  campagna militare, delle raccogliticce truppe napoletane, così da permettere al  Sovrano napoletano il ritorno nella Sua Capitale e l'avvio di una pesante  repressione verso i capi ed i sostenitori dei moti.
Come accennato anche il Piemonte venne interessato da una serie  di sollevazioni che videro il coinvolgimento anche di reparti di truppa nonchè  di esponenti dell'aristocrazia. Anche in Piemonte tali sommosse vennero  affrontate ma, indiscutibilmente, con un altro stile.
Innanzitutto il Re Vittorio Emanuele I, alla notizia della  sollevazione della guarnigione di Alessandria e dell'adesione a tale moto anche  di esponenti di famiglie fedelissime alla Dinastia, non volle adottare alcun  provvedimento repressivo. Preferì abdicare, lasciando in buon ordine i propri  Stati, lanciando un ultimo proclama al popolo. Restava da scegliere chi avrebbe  affrontato la situazione e, per la prima volta, si affacciò sulla scena politica  italiana il nome del principe Carlo Alberto, ventitreenne Capo del ramo cadetto  dei Savoia Carignano.
Il Rampollo si trovò a Torino in quei giorni investito della  Reggenza dello stato, in assenza(era a Modena, ospite del genero, Principe di  quel Ducato) del nuovo legittimo Re, Carlo Felice, che con l'abdicazione di  Vittorio Emanuele I, avrebbe dovuto salire al Trono. Pressato dagli ambienti più  illuminati
della stessa Corte, Carlo Alberto cedette alle pressioni della  piazza e concesse un Costituzione, subordinando però la decisione finale, e non  poteva far altrimenti, all'approvazione del nuovo Sovrano.
Con tale gesto Casa Savoia poneva già una prima ipoteca sul  ruolo fondamentale che avrebbe svolto nei decenni a venire e lo stesso Re Carlo  Felice, con la sua decisione di revocare tale riforma, in fondo, con il senno di  poi, contribuì, involontariamente, a far volgere sulla Dinastia piemontese le  speranze dei liberali italiani. Lo stesso allontanamento di Carlo Alberto dalla  Corte, contribuì infatti ad inserire il Principe nell'elenco delle "vittime"  delle repressioni dei moti liberali che, anche nel Regno Sardo, non  mancarono.
Insomma se a Napoli la Dinastia fu compatta a fianco del Re  Ferdinando, in quello che i liberali partenopei considerarono un vero e proprio  tradimento, a Torino un esponente della Casa Regnante "pagava", in proprio, con  il bando; un gesto storico compiuto perchè, in buona parte, condivideva istanze  e speranze di tanti.
Vi era, insomma, un esponente di una Dinastia Italiana a cui,  per la prima volta, si poteva guardare con la speranza che un giorno avrebbe  potuto recepire le istanze dei nuovi tempo. Di certo dovettero passare ancora  molti anni e lo stesso Carlo Alberto, nella sua qualità di erede al Trono, non  avendo Carlo Felice successori diretti, dovette "ricrearsi" una verginità  conservatrice per poter mantenere il suo diritto di regnare, Tale diritto, pur  se osteggiato dal vecchio Sovrano, anch' egli uomo, in fondo, de1 XVIII secolo,  non potè comunque essergli negato e, nel 1830, alla morte di Carlo Felice, e la  conseguente estinzione della linea Sabauda primigenia, iniziava il Regno dei  Savoia-Carignano, ramo cadetto della Dinastia che avrebbe portato a compimento,  appena trent'anni dopo, il processo di unificazione. La salita al trono di Carlo  Alberto destò le speranze dei moderati e dei liberali italiani proprio per il  ruolo avuto dal giovane principe nelle insurrezioni del decennio precedente.  Carlo Alberto non aveva nemmeno 33 anni, era uomo di straordinaria statura,  oltre che fisica (era alto 2,03!) anche morale, imparentato con la Casa  d'Austria, attraverso la moglie, e già padre di due figli che assicuravano il  futuro della Dinastia. Uno di questi sarebbe stato il futuro Vittorio Emanuele  II.
Lo stesso anno dell' ascesa al Trono di Carlo Alberto, un'altra  ondata rivoluzionaria attraversava l'Europa ed anche l'Italia, seppur più  marginalmente rispetto ad altri paesi.
Clou degli effetti di tali moti si ebbe in Francia dove una  rivoluzione moderata pose fine al Regno di Carlo X, uno dei massimi difensori  del vecchio sistema pre-rivoluzionario e fratello di quel Luigi XVI  ghigliottinato nel 1793. Il nuovo di tale evento stette nel fatto che invece  della proclamazione di una nuova repubblica francese gli stessi insorti vollero,  e pretesero, il mantenimento dell'Istituto monarchico facendo salire al Trono il  principe Luigi Filippo d'Orleans Capo, anch'egli, del ramo cadetto della Casa  Borbone-Francia. I11830 sembrò quindi essere l'anno dei Cadetti. In Sardegna per  successione, in Francia per Rivoluzione, due nuovi principi sembrarono incarnare  la possibilità di un connubio tra un istituto quale quello monarchico e la  possibilità dell'avvio di riforme in senso liberale dello Stato.
In Francia tale processo venne immediatamente avviato,  soprattutto per le pressioni di una forte borghesia, ormai avviata nel solco di  un impetuoso sviluppo economico che pretendeva riforme anche politiche ma,  soprattutto, economiche; in Piemonte invece, proprio per l'assenza di una  consistente classe sociale intermedia che potesse far sentire il proprio peso  politico ed economico, tale processo venne avviato, inizialmente, esclusivamente  nel campo economico, ed in maniera abbastanza limitata.
Di contro, gli Stati Sardi, già da allora iniziarono a  rappresentare un rifugio, tutto sommato abbastanza sicuro, per molti sudditi di  altri Stati italiani costretti all'esilio in seguito ai falliti moti  insurrezionali che interessarono, in particolare tra il 1830 ed il 1831, il  ducato di Modena e le Legazioni degli Stati Pontifici.
Come detto fu con il regno di Carlo Alberto che i  Savoia.iniziarono a ritagliarsi il ruolo di punto di riferimento per molti  esponenti del Pensiero risorgimentale italiano. Pensiero, intendiamoci bene, non  di certo tutto proteso verso l'unità nazionale, come erroneamente fatto credere  dalla retorica post risorgimentale. Era, invece, assai più sentito, il fatto  che, comunque, gli stati della penisola avrebbero dovuto liberarsi di qualunque  influenza politica, diretta od indiretta, da parte di altri paesi, l'Austria per  prima.. Ed in quella prima meta del XIX secolo tale presenza era veramente  pesante. Senza parlare di Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli ed  Istria, che in quanto provincie dell'impero austriaco erano direttamente sotto  il dominio imperiale, il ducato di Modena e Reggio, il Ducato di Parma, Piacenza  e Guastalla, il Granducato di Toscana non avevano un propria politica autonoma,  legate come erano, le loro rispettive dinastie da strettissimi rapporti con la  Casa Imperiale Asburgica. Austria-Este, a Modena, Borbone a Parma, Asburgo  Lorena a Firenze, non erano che derivazioni del potere imperiale austriaco, pur  se, specialmente in Toscana, quei regnanti erano riusciti a suscitare sentimenti  di profondo affetto nella popolazione.
Lo stato della Chiesa non aveva, per forza di cose, rapporti  dinastici con chicchessia ma, di contro, sosteneva il proprio potere politico  sull'appoggio militare fornito da questa o quella potenza e la stessaAustria era  reiteratamente intervenuta a sostegno del potere papale per ristabilire l'ordine  nelle provincie romagnole della Santa sede. Differente, ma solo in parte, il  discorso per il Regno di Napoli, il maggiore, per estensione territoriale, degli  stati italiani preunitari. La bandiera borbonica sventolava su Sicilia,  Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Molise e Abruzzi ma, anche in tale caso,  per la tranquillità della Dinastia e la pace interna della Nazione, era forte la  vigilanza austriaca che addirittura, per alcuni anni, dopo i moti del 1821,  aveva mantenuto nel Regno mediterraneo un contingente di truppe fisso ( con  oneri a carico dell'erario napoletano). Per di più, la parte 
migliore dell'esercito napoletano era composto da truppe  mercenarie che il Re Borbone assoldava regolarmente in Svizzera ed in Germania.  Tutta l'Italia era, insomma, sotto la cappa dell'interessata protezione  austriaca, sotto lo scettro di dinastie italianizzate, le cui origini e  tradizioni erano a Vienna o, come nel caso dei Borbone Napoli, a Madrid.
Ciò considerato appariva evidente come, indiscutibilmente,  l'unica vera dinastia allogena italiana fosse quella dei Savoia che nascevano, è  vero, nell'ambito del vasto mondo francofono ma è anche vero che sin dalla prima  metà del 1500, avevano capito che il futuro, per loro, sarebbe stato pagante  all'interno delle Alpi.
In Casa Savoia si parlava francese, è vero, ma la lingua dello  Stato era l'italiana e mai si era interrotto, nei secoli, quel processo di  allargamento dei confini dello Stato sempre diretto verso le provincie della  penisola.
Insomma, anche chi verso i Savoia non nutriva simpatie, andava  rendendosi contro che costoro rappresentavano l'unica forza politicamente valida  per guidare un eventuale processo di indipendenza italiana dal dominio  straniero.
Occorre dire però, per correttezza, che, alla morte del Re  Francesco I di Borbone, nel 1830, qualcuno aveva ipotizzato per l'erede di  questi, il giovane e deciso Principe Ferdinando, il ruolo di liberatore degli  italiani. Ferdinando però, divenuto Re Ferdinando Il delle Due Sicilie, bloccò  sul nascere tali speranze con la ormai celebre affermazione:" io sto bene tra  l'acqua salata e l'acqua santa" intendendo con ciò di non vedere la necessità,  per lui, di immischiarsi in faccende esterne al suo Stato, circondato per tre  parti dal mare e per una dai confini pontifici. Indubbiamente un affermazione  efficacie ma che, sicuramente, contribuì' definitivamente a rafforzare la  posizione dei Savoia e ad indebolire la Sua.
Conclusi quindi con le solite repressioni i moti de11830/31, si  apriva per la penisola italiana un ventennio di apparente tranquillità prodromo  di quella vera e propria tempesta che sarebbe stato il '48; un anno che sarebbe  entrato nell'immaginifico popolare come l'anno dei grandissimi cambiamenti. Tale  periodo per gli Stati Sardi corrispose in pieno al regno di Carlo Alberto che,  come detto, pur se deluse, in parte, le aspettative dei liberali più accesi  rimandando la concessione di una carta costituzionale, avviò un piano di riforme  economiche che accontentavano, almeno in parte, le aspettative delle categorie  più imprenditoriali gettando quelle basi che, successivamente, permisero al  Piemonte di divenire il più avanzato degli Stati italiani. I  primi segnali di cambiamento nella penisola italiana si iniziarono a vedere nel  1846, con la elezione del cardinal Mastai-Ferretti al Trono pontificio con il  nome di Pio IX; fu questo, per certi punti di vista, l'elemento determinante per  l'avvio di quell' inarrestabile processo che nel 1861 avrebbe portato alla  nascita del Regno d'Italia. Il nuovo Papa infatti, il cui regno seguiva quello  di un Pontefice tra i più reazionari della storia della Chiesa, quale fu  Gregorio XVI, seppur timidamente avviò una serie di riforme nei propri stati;  tra queste amnistie comprendenti anche coloro che, negli anni precedenti, si  erano "macchiati" di reati politici.
Con tali gesti il nuovo Pontefice fu come se gettasse un sasso  in una piccionaia. I principi italiani, statici nel loro conservatorismo  politico, furono in parte affascinati e in parte spaventati da queste aperture.  Non per la portata di esse, in fondo modesta, ma per il fatto che venissero  proprio da quella Santa Romana Chiesa considerata, da sempre, uno dei bastioni  del conservatorismo della "pax europea" voluta dei congressisti di Vienna nel  1815. I liberali italiani sembrarono esplodere. La concessione delle libertà  civili sembrava a portata di mano. Se iniziava a concederle il Papa, non vi era  motivo che non le concedessero anche gli altri sovrani italiani.
Per Carlo Alberto, uomo di assoluta ortodossia cattolica, che  nutriva una venerazione quasi maniacale nei confronti del Papa e di ciò che  rappresentava, tali gesti dovettero, a livello psicologico, avere effetti quasi  dirompenti. Finalmente veniva a cadere la cortina di ferro che separava le due  anime del Re: quella del Sovrano illuminato che comprendeva come fosse  inevitabile procedere a radicali riforme del sistema, e quella del principe  educato al rispetto di quei principi della monarchia assoluta che aveva ricevuto  in eredità "per grazia di Dio".
Se insomma, il rappresentante di Dio in terra, rinunciava ad  alcune delle sue prerogative, a maggior ragione poteva farlo Lui.
A ciò si aggiungano gli eventi rivoluzionari che scossero  l'intera Europa e che posero fine, definitivamente, ai principi della  restaurazione post-napoleonica culminati con la caduta politica del principale  difensore di quel sistema: l'ormai vecchissimo principe Clemente di Metternich,  il cancelliere di ferro dell'Impero Austriaco, divenuto un monumento a se  stesso, rovesciato dalla rivoluzione nella sua stessaVienna.
In Italia il primo che si trovò a dover affrontare i fremiti  dei  costituzionali, fu il Re Ferdinando  Il; quel  Re Borbone che, ne gli'30 del secolo, ave- va rifiutato l'invito a  mettersi, quale principe italiano, a capo di una "crociata" per allontanare  dall'Italia ogni influenza straniera. 
I guai ebbero inizio in Sicilia, la turbolenta isola che da  sempre vantava diritti di autonomia rispetto al centralismo autoritario dello  Stato Borbonico.
La rivolta attraversò 1' isola ed in breve tempo si costituì a  Palermo un governo provvisorio intenzionato ad autodeterminare il futuro dei  siciliani.
La tempesta europea bloccò il Re di Napoli in ogni azione tesa  ad una immediata repressione. Da politico astuto e navigato, nonchè da uomo  indiscutibilmente intelligene, egli comprendeva che la concomitante rivoluzione  viennese lo privava del suo principale "protettore" e che, da solo,  difficilmente sarebbe riuscito a domare la rivolta anche perchè non poteva certo  dirsi tranquillo nemmeno nella parte continentale del suo Regno.
Di qui la necessità di tacitare gli animi con qualche  concessione che potesse garantire, almeno per qualche tempo, una certa  tranquillità nell'attesa degli eventi. La tanto agognata Costituzione venne  concessa ai napoletani. Anche se ciò non fu sufficiente a domare i focosi  siciliani ormai avvezzi a non fidarsi troppo delle concessioni borboniche.
Tale atto però, almeno  dava al  Sovrano un pò di respiro nella sua  Na poli.
Quei mesi furono tutto un susseguirsi di eventi. La rivoluzione  scoppiava anche in Francia, dove veniva rovesciata  la monarchia liberale dei Borbone-Orleans;
 
 Luigi Filippo si rifugiava a Londra e la repubblica, la seconda, veniva  proclamata a Parigi.
Il terrore iniziò a correre per l'Europa. I sovrani italiani  iniziarono a dubitare della loro stabilità; la costituzione venne vista quale  ancora di Salvezza e, ben presto, sia il Papa che il Granduca di Toscana ne  annunciarono la concessione ai loro popoli.
Lo stesso accadde in Piemonte, dove Carlo Alberto, in febbraio,  annunciava ai popoli sardi la sua intenzione di con= cedere uno Statuto.  Nominare una commissione e varare la nuova Carta fu, praticamente, tutt'uno.  Alla faccia di ogni bicamerale, in meno di tre settimane nasceva ed entrava in  vigore quello "Statuto Albertino" che sarebbe diventata, evolvendosi  naturalmente con i tempi, la massima Carta per gli italiani fino, di fatto,  a11948.
Fu il gesto più importante del Suo Regno e, forse, della Sua  vita politica. Il Re di Sardegna, verso il quale, come abbiamo visto, si erano  rivolte tante speranze di tanti italiani perchè divenisse il liberatore  dall'oppressione straniera, era entrato nel novero dei Sovrani  Costituzionali.
Ai milanesi, sudditi austriaci ma non certo austriacanti, non  parve vero! La rivolta scoppiata nella capitale dell'austriaco Lombardo-Veneto,  aveva ora qualche possibilità di riuscita. Ma anche i più ottimisti dei milanesi  saliti sulle barricate in quelle fatidiche cinque giornate, capivano che, pur  cacciando gli austriaci dalla Città, mai avrebbero potuto mantenersi nella  riconquistata libertà senza il sostegno di una efficiente organizzazione statale  che potesse contare su un esercito regolare. Liberare Milano e rivolgere un  proclama a Carlo Alberto affinché intervenisse con il Suo esercito, fu un  tutt'uno. E questa volta il Re, dopo gli inevitabili tentennamenti, pose fine a  vari indugi, superando il Ticino e marciando verso il capoluogo Lombardo mentre  gli giungevano, anche da Venezia, notizia di scontri ed insurrezioni. La  situazione non poteva essere maggiormente favorevole; la rivoluzione a Vienna,  il Lombardo-Veneto in rivolta, i moti d'indipendenza in Ungheria, impedivano, di  fatto, a Vienna, qualunque azione efficace. L'impero, attaccato su più fronti e  dall'interno, vacillava mentre la corte asburgica si rifugiava nella fedele  Salisburgo lasciando Vienna. Per la prima volta un Savoia, vedeva la possibilità  che si realizzasse il sogno di espansione verso la ricca e opulenta Lombardia;  da sempre una delle mete della politica estera Sabauda. Sia chiaro che ben  pochi, all epoca, e men che mai Carlo Alberto, ipotizzava, il sogno di una  completa indipendenza e unità d'Italia. Fuori lo straniero si, era un grido  generale, ma sul "dopo", molti si interrogavano.
Eppure proprio il Re di Sardegna, l'indeciso ed incerto Savoia,  al momento di scendere in piazza compì un gesto che rafforzò ancor di più in  tanti italiani la certezza che il nuovo sarebbe venuto dal Piemonte per opera di  un Savoia. Solo due mesi dopo averlo concesso lo stesso Re modificava il Suo  Statuto, modificando la voce relativa alla bandiera nazionale. Non più l'azzurro  vessillo sabaudo avrebbe garrito sulle teste dei fanti e dei cavalleggeri di  Piemonte, Liguria, Sardegna e Valle d'Aosta, bensì il tricolore, bianco, rosso e  verde, con nel centro lo stemma di Casa Savoia. Un piccolo gesto che però  assunse, ben presto, un significato politico gigantesco. Per la prima volta i  tantissimi scontenti dei governi pontificio, napoletano, lorenese, estense,  poterono dire di avere, finalmente, una loro bandiera, un simbolo sotto cui  impegnarsi per affrancarsi da secoli di dominio straniero.
 
Una bandiera non più simbolo di una Dinastia ma simbolo di un  concetto di nazione, seppur ancora, al momento, astratto.
La guerra si rivelò fortunata per le armi piemontese, con  l'occupazione di Milano e di alcune importanti fortezze austriache in Lombardia,  ma, dall'estero, iniziarono a giungere le prime non buone notizie. Lo Zar di  Russia, scendeva in campo a fianco dell'Imperatore d'Austria per reprimere la  rivolta d'Ungheria e fu il principio della fine.
Chiuso il fronte ungherese con l'aiuto russo, gli austriaci  tornarono, con ogni loro mezzo in Italia, decisi t= a riconquistare le provincie  perdute e a ripristinare la situazione coante. Nel 1848 non ci fu un Piave come  avvenne nel 1918.
Ben presto gli insorti veneti e lombardi furono in rotta,  scarsamente sostenuti ~ ; dalle ormai esauste truppe piemontesi, appoggiate poco  e malamente da raccogliticce milizie,per lo più volontarie, giunte dal Lazio,  dalle romagne e, soprattutto, dalla Toscana. Non appena fu chiara la situazione  che andava creandosi, Pio IX, e il Re ~ Ferdinando Il fecero comprendere come le  loro simpatie costituzionali fossero ben poco solide e scarsamente motivate. Il  Papa lasciava Roma mentre il Re di Napoli, ordinando alla propria Marina  Militare di abbandonare il blocco alle coste austriache nell'alto Adriatico,  avviato insieme alla Squadra Sarda in funzione anti austriaca al principio di  quella che sarebbe divenuta la prima guerra d' indipendenza, si apprestava alla  riconquista della Sicilia.
Le fortune di Carlo Alberto finirono a Novara dove, in  un'ultima battaglia campale, lo spossato esercito piemontese venne pesantemente  battuto dagli Austriaci del Maresciallo Radetzky. L'armistizio venne subito  chiesto e concesso.
Intanto, come detto, Pio IX fuggiva, vestito da semplice prete,  sotto la protezione del Re Ferdinando II, a Gaeta, mentre le navi napoletane  bombardavano pesantemente la ribelle Messina in maniera tanto pesante da far  meritare al Sovrano napoletano l'ormai celebre appellativo di "Re Bomba".  Inutilmente il governo di Palermo offriva la corona di Sicilia al Duca di  Genova, secondo genito di Re Carlo Alberto;
  
i giochi erano ormai fatti e, ben presto, le forze regolari  borboniche schiacciarono ogni resistenza nell'Isola. Resistevano solo le  effimere repubbliche di Roma e di Venezia; ultimo fuoco di paglia di mesi e mesi  di speranze. Anche le due città, ben presto caddero. Prima Roma, sotto gli  attacchi dei francesi del generali Oudinot, quindi Venezia, bombardata da terra  e dal mare dagli austriaci.
Tutto tornava a posto; di costituzioni nemmeno a parlarne:  immediatamente vennero revocate dal Papa, dal Re Ferdinando (tale nipote tale  nonno) e perfino dal pacifico Granduca diToscana cui però, i sudditi, pur in  fondo stimandolo profondamente, non perdonarono più di essersi andato a  rifugiare sotto le baionette austriache e di essere tornato a Firenze sulle loro  punte. Ed invece, pur dopo tale restaurazione, nulla sarebbe stato più come  prima. Un sassolino, una pietruzza, un qualche cosa aveva bloccato  l'ingranaggio. Uno dei piccoli stati italiani che aveva garantito ai propri  sudditi una Costituzione, non la revocò, non volle revocarla e da quel momento  la Corona di Casa Savoia brillò, per tanti italiani. Se Carlo Alberto, infatti,  era stato costretto ad abdicare dopo le due sconfitte subite a Novara nel 1848 e  nel 1849 - anno in cui aveva tentato di riprendere la campagna contro gli  austriaci, terminata con un'altra rovinosa sconfitta - a lui era succeduto un  giovanotto di 27 anni, con i lunghi baffi a punta, che saliva al Trono con il  titolo di Vittorio Emanuele II. Di lui si sarebbe a lungo parlato in Italia e,  forse, sarebbe bene che se ne parlasse un pò di più anche oggi.
 
Il giovane Re non potè iniziare, politicamente, meglio il  proprio regno, nel cortile di una vecchia cascina in quel di Vignale, allorchè  si trovò ad affrontare, da solo, il vincitore maresciallo Radeztky che, tra  l'altro, gli chiese, probabilmente, anche la revoca dello Statuto Albertino.  Sulla risposta che ricevette, si fondò la futura fortuna di casa Savoia in  Italia. Fu fermo infatti il giovane Re nel rifiutare di aderire a tale richiesta  non certo per lungimiranza politica, ma perchè nella sua Casa, egli affermò, la  parola data e Sacra e per di più mai egli avrebbe ricusato il gesto compiuto dal  Padre. Lo Statuto rimaneva ed un altro motivo si aggiungeva per far si che i  Savoia vestissero il ruolo di campioni delle libertà italiane. Con le sconfitte  di Novara si era toccato il fondo ma proprio da allora partiva il decennio d'oro  da cui, volenti o nolenti, sarebbe scaturita l'indipendenza italiana.
Il bello stava nel fatto che, all'epoca, nessuno lo sospettava.  In tutta italia la pace appariva infatti ristabilita; qualche sovrano italiano,  come il Granduca Leopoldo II, in Toscana, riuscì perfino a riconquistare, se non  l'affetto, almeno la stima dei propri sudditi, ma ormai un processo politico era  avviato. Ferdinando di Napoli, invece, aveva visto la sua posizione  definitivamente rovinata agli occhi dei liberali, degli insorti siciliani e,  soprattutto, di molti osservatori internazionali, disgustati dalla repressione  condotta dalla Regie Truppe in Sicilia.
Si apriva, insomma, quel che può definirsi un "decennio di  preparazione", anche sedi preparazione a che cosa ben pochi allora avevano le  idee chiare. Indubbiamente in qualcuno si accresceva la fiducia che, prima o  poi, si addivenisse ad una unificazione degli stati italiani ma, certo, come a  ciò si sarebbe giunti era abbastanza nebuloso. Federazione di Stati?  Allargamento di questo o quello stato? Monarchia federale sotto lo scettro  papale ? Repubblica ? Insomma le correnti erano tante e le idee chiare poche.  Solo Garibaldi era certo di una cosa: a qualunque mezzo via gli austriaci  dall'Italia. Poi si sarebbe visto: D'accordo anche Mazzini che, però, andava  proclamando l'instaurazione di un sistema repubblicano sgradito alla gran parte  di coloro che detenevano nelle loro mani le leve del comando ed avulso alla  stragrande maggioranza delle masse popolari che, in molti casi, ignoravano  perfino il senso della parola repubblica. Ciò senza nulla voler togliere a  Giuseppe Mazzini che, come, detto, aveva invece ben chiaro il fine ultimo della  indipendenza dei popoli italiani.
A Torino, intanto, mentre ci si leccava le ferite della guerra  perduta, si affacciava sull'orizzonte della scena politica torinese la figura di  un omino che avrebbe segnato con il suo operato la storia della Nazione: quel  Camillo Benso di Cavour che fu l'elemento determinante per il raggiungimento di  quegli obiettivi cui nessuno a Torino mirava ma che lui, invece, quantomeno  intuiva. Cavour si presentò sulla scena politica subalpina con idee ben precise:  innanzitutto riformare economicamente lo Stato. Solo con un'economia moderna ed  efficiente, sarebbe stato possibile creare le strutture per sostenere un  eventuale futuro conflitto contro l'opprimente vicino austriaco.
E ben presto, la sua straordinaria intelligenza iniziò a  lavorare in tal senso. Tra il 1852 ed il 1860 il Piemonte raggiunse livelli di  sviluppo tali da metterlo alla pari, fatte le debite proporzioni dimensionali,  con i più progrediti paesi europei.
Mentre avveniva ciò a Torino, nel resto d'Italia i sovrani  degli antichi stati vegetavano in un limbo statico ed ovattato come se tutto  dovesse, in eterno, restare tale e quale. Gli anni non erano però passati invano  ed in ognuno degli stati pre unitari covava un fuoco, più o meno vivo, di  latente rivolta contro i vari regimi illiberali restaurati dalle armate  austriache. Le repressioni erano frequenti ovunque; erano più o meno severe e  spesso si concludevano con bandi che esiliavano questo o quel facinoroso.
Dalla Sicilia, dalla Lombardia, dalle Romagne, dai Ducati,  esponenti più o meno noti delle correnti liberali e costituzionali venivano  costretti a rifugiarsi in lidi più sicuri e, che piaccia o no, Torino  rappresentava quanto di più sicuro o garantista offrisse in quegli anni il  "convento" in Italia. Lo Statuto infatti, precisava e tutelava i diritti dei  cittadini e le idee nella grigia Torino, correvano come mai erano corse in  qualunque altro stato italiano preunitario. La stampa era libera - secondo i  parametri dell'epoca- e il parlamento, pur se eletto da un ridottissima parte  della popolazione (così come avveniva, del resto, negli altri stati democratici  d'Europa), rappresentava pur sempre una prima libera assise in cui estrinsecare  pensieri e proposte. La svolta si ebbe nel 1854, allorchè il governo Sardo  accettò che venisse aperta a Torino la Lega Nazionale. Con nascita di questa  Organizzazione i Savoia si trovarono, involontariamente, definitivamente messi a  capo di un movimento di lotta nazionale, senza nemmeno, probabilmente,  rendersene conto.
La Lega nacque, in pratica, come società di mutuo soccorso a  favore proprio di quei fuoriusciti che, per motivi politici, erano costretti a  rifugiarsi nel Piemonte costituzionale. In pratica veniva a crearsi un centro di  raccordo per chiunque, prescindendo dalla regione di provenienza, fosse stato  costretto ad abbandonare i luoghi d'Origine per motivi politici. Nei locali  della Società Nazionale nacque, di fatto, il concetto di Italia.
Il fenomeno non sfuggì al Cavour che, ben presto, pensò di  utilizzarlo nell'interesse del proprio Paese. Sia ben chiaro, del proprio Paese,  non della comune Patria italiana che ancora restava retaggio e speranza di  pochi.
Da genio della politica quale era, Cavour comprendeva però  benissimo che, pur se in regime costituzionale e garantista, nulla avrebbe  potuto essere portato a compimento senza l'avallo del Re Vittorio Emanuele Il  ma, fortunatamente per Lui, non dovette incontrare grandi difficoltà per  convincere il Sovrano ad imbarcarsi nella travolgente e fantastica avventura  risorgimentale.
Anche al Re, infatti, l'idea di poter vendicare la sconfitta di  Novara non dispiaceva, specialmente se da ciò fosse derivata la possibilità di  allargare i confini del proprio Regno incamerando, magari, la prospera  Lombardia. In fondo era questa la tradizionale politica espansionistica di  praticamente tutti i Savoia che, partendo da poche vallate nella Savoia, erano  riusciti a costituire, nei secoli, la seconda maggiore entità statale italiana  dopo il regno delle Due Sicilie.
E la mente di Cavour iniziò a lavorare. Nel 1858 si ebbe la  svolta. A Plombiers, in Francia, il Primo Ministro di Sardegna si incontrava con  Napoleone III, imperatore dei francesi, stringendo, di fatto, un' alleanza in  funzione anti-austriaca.
Per sommi capi, i punti centrali dell'accordo stavano nella  garanzia della Francia ad intervenire militarmente a fianco dei piemontesi nel  caso in cui questi fossero stati attaccati dall'Austria. In caso di vittoria, le  due potenze avrebbero contribuito a ridisegnare la carta geografica d'Italia: il  Piemonte avrebbe ottenuto il Lombardo-Veneto Austriaco, insieme ai ducati di  Parma e Modena; con gli ex-territori toscani, ed eventualmente qualche pezzetto  di stato pontificio, sarebbe nato un regno dell'Italia centrale (da affidare ad  un Bonaparte), mentre nel sud, i Borboni avrebbero potuto essere soppiantati da  una Dinastia francese (forse gli eredi di quel Gioacchino Murat, maresciallo  napoleonico che, durante il bonapartismo aveva regnato per alcuni anni su  Napoli.)
Un piano ardito, realmente cavourriano, che avrebbe dato al  Regno di Sardegna un estensione mai vista precedentemente ed alla Francia (che  comunque avrebbe ottenuto le provincie piemontesi di Nizza e Savoia) sarebbe  venuta la possibilità di soppiantare il predominio austriaco nella penisola ma  mitigato, comunque, dalla presenza di una forte entità statale finalmente  italiana. A questo punto, occorre fare qualche considerazione a margine degli  eventi storici. Il lettore non potrà non considerare come, di fatto, solo il  Regno di Sardegna, tra gli stati italiani, abbia avviato e ben gestito nella  prima metà del XIX secolo una politica estera. Ciò fu fattore essenziale per  ogni sviluppo della situazione politica della penisola. Mentre infatti i governi  di Napoli, Roma o Firenze, continuava a crogiolarsi nella speranza che nulla  sarebbe mai cambiato, a Torino la classe politica perseguì con fermezza e  determinazione la difesa degli interessi nazionali, interesse identificabile con  l'espansione dei confini dello Stato. Da ciò e solo da ciò, il verificarsi di  tutto quel che accadde in Italia tra il 1859 ed il 1861, anno della  proclamazione del regno d'Italia. Cavour dunque, premeva affinchè si  determinassero le condizioni una guerra tra Austria e Piemonte, ma la Francia  sarebbe intervenuta solo se fosse stata Vienna a minacciare Torino attaccando il  Piemonte. Come fare? Ci si riuscì benissimo, allorchè il Conte Camillo si rese  conto che, ormai, nei confini del Regno si trovavano migliaia di fuorisciti,  specialmente lombardi. Ecco quindi che nella primavera del 1859, un bel mattino  plotoni di armati, formati da fuorisciti italiani, iniziarono a compiere manovre  lungo il Ticino, chiaramente armati dal Regio Esercito Sardo. La cosa non  piacque agli austriaci che intimarono il disarmo di quelle truppe raccogliticce.  Cavour, sostenuto dal Re, non aspettava altro. Rifiutò la minaccia austriaca ed  ogni ultimatum e l'Austria, ormai sbilanciata, non potè far altro che marciare  sul Piemonte. Era fatta! Il Piemonte aggredito si rivolse alla potente armata  imperiale francese che, ben presto, iniziò a giungere, per terra e per mare. Fu  una campagna sanguinosa, sanguinosissima ma trionfale per i franco-piemontesi.  Gli austriaci, in rotta ovunque, abbandonarono la Lombardia e si asseragliarono  in alcune fortezze. Cavour vedeva concretizzarsi il suo piano e così anche  Napoleone III, ma ahimè, l'imponderabile si verificò, sfuggendo anche al  controllo di Cavour.
Mentre infatti Vittorio Emanuele II cavalcava alla testa delle  truppe Regie sciabolando gli austriaci, nei ducati e nel Granducato di Toscana,  sembrarono cadere tutti i freni inibitori che bloccavano le istanze di libertà  di quelle popolazioni. Il duca di Parma, il Duca di Modena ed il Granduca di  Toscana, si resero tristemente conto, in breve, di quanto effimero fosse il loro  potere allorchè in tre distinte rivoluzioni, assolutamente pacifiche, compresero  che era l'ora di abbandonare le loro capitali.
Infatti, tranquillizzati per il fatto che le armate austriache  fossero impegnate in ben altre faccende e non potessero quindi intervenire,  toscani, emiliani e romagnoli scesero in piazza per chiedere l'intervento a  fianco delle armate sarde ai loro sovrani che, invece, preferirono partire di  gran fretta raggiungendo le linee imperiali austriache nella speranza che anche  questa volta, avrebbero potuto recuperare i rispettivi troni.
Ma, questavolta, qualcosa di nuovo era evidente nell'aria ! A  fianco infatti delle armate del Re di Sardegna erano plotoni di esuli che  colsero in quelle pacifiche rivoluzioni, la possibilità di rientrare nelle città  d'origine, sotto la protezione piemontese. Per la prima volta non era dunque una  rivolta od una rivoluzione fine a se stessa, ma una rivolta con precisi fini  politici: l'unificazione di alcuni ex-stati con il regno di Sardegna.
Così avvenne, e proprio questo fatto mandò all'aria i piani  cavourriani e napoleonici di risistemazione dell'Italia. Infatti con la domanda  di annessione' dei ducati e delle legazioni pontifice al Regno di Vittorio  Emanuele II cadeva, ad esempio, la possibilità di creare quel regno dell'Italia  Centrale da affidare ad un principe napoleonico; cadeva la possibilità di  conservare la piena indipendenza del Papa, e ciò terrorizzò Napoleone III che,  inaspettatamente, chiese un armistizio che salvo il Veneto all'Austria.
Cavour era furioso e si dimise. Il Re accettò le dimissione.  Sembrò che tutto potesse tornare come prima ma, invece, il processo avviato si  rivelò inarrestabile anche per coloro che lo avevano avviato.
Il governo Sardo si rese garante dellavolonta di Toscani,  Emiliani e Romagnoli, nonostante che l'armistizio prevedesse il ritorno sui  troni degli antichi sovrani e nessuno osò, questa volta, riprendere le armi in  difesa dei piccoli principi italiani. Sembrava finita, ed invece si era appena  all' inizio, grazie alle camicie rosse di  Garibaldi.
 
Nei mesi successivi Cavour tornava al potere, alla guida di un  nuovo Gabinetto; mai scelta di Re fu più felice: il conte piemontese era l'unico  uomo politico in grado di gestire e controllare gli eventi che si sarebbero  succeduti nel giro di un anno.
Nel maggio 1860 da Quarto, presso Genova, due vapori mercantili  imbarcavano un migliaio di volontari in camicia rossa. Era iniziato il grande  momento di Giuseppe Garibaldi. Questa spedizione dei Mille, che fu uno degli  elementi più ricorrenti nella retorica risorgimentale post-unitaria, nacque  indubbiamente per la volontà del Generale ma è bene considerare che egli non si  rese conto di essere una, seppur importante, pedina, nel raffinato gioco della  diplomazia piemontese. A Torino non potevano essere ignote le intenzioni di  Garibaldi: si imbarcava a Genova, principale porto del Regno, su due vapori del  più importante armatore genovese(Rubattino), caricava oltre 1000 uomini, non  certo invisibili, nelle loro camice rosse, armi e cannoni (pochi) e se ne  partiva tranquillo. Qualunque ministro dell'interno di un qualunque Stato che  non avesse riferito della cosa o non ne fosse stato informato, avrebbe dovuto  essere non destituito, ma fucilato.
Tutto si sapeva e l'occasione era d'oro per il Cavour.  Garibaldi marciava contro i Borboni: se vinceva, si sarebbe ben fatto in tempo  ad intervenire in suo sostegno; se perdeva, il governo di Torino sarebbe stato  assolutamente innocente e candido come una vergine. E Garibaldi vinse e vinse  molto e presto. Il Regno delle Due Sicilie dimostrò di come ormai la situazione  fosse matura e di come tale entità statale, che pure tanto lustro aveva dato  all'arte, alla cultura, alla scienze italiane, avesse fatto il suo tempo. Il  Regno cadde come un castello di carte nelle mani di alcune centinaia di  avventurieri decisi in meno di sei mesi. Ai Borboni mancò uno Statista del  ivello del Cavour. L'unica figura veramente carismatica, lo stesso Re Ferdinando  II, il "Re Bomba" era morto nel maggio 1859. Fosse stato vivo le cose,  probabilmente, sarebbero state assi più complicate per i garibaldini. Era un  Sovrano dotato di forte personalità; tutto il contrario dl giovanissimo erede;  quel Francesco Il che era più uomo di chiesa che di Spada e i risultati si  videro. Senza colpo ferire la Sicilia venne occupata. A Messina i garibaldini  erano già diventati oltre 20.000. Lo stretto venne superato nonostante la  vigilanza della pur potente flotta napoletana. La marcia in Calabria, Basilicata  e Campania fu trionfale. In settembre Napoli veniva occupata. I Borboni si  rifugiavano a Gaeta per un ultima resistenza. Successi incredibili che però  allarmarono tutte le cancellerie europee. Il Garibaldi, infatti non sembrava  volesse fermarsi a Napoli; per di più, era piombato a Napoli quell' "Agitprop"  repubblicano di Giuseppe Mazzini per indurre il Generalissimo ad instaurare nel  sud una repubblica partenopea da estendere, eventualmente, fino a Roma.  Sull'arrivare a Roma Gàribaldi era d'accordo, sulla repubblica molto meno,  avendo egli condotto la campagna al grido di "ITALIA E VITTORIO EMANUELE". Il  discorso era comunque accademico perchè quel che contava, in fondo, era  l'atteggiamento di Cavour e di Vittorio Emanuele II che dissero basta. Togliere  Roma al papa avrebbe significato un nuovo intervento delle potenze cattoliche in  Italia (Francia, Austria e Spagna), con il rischio di vedere crollare tutto quel  castello che, in parte, si era costruito da solo per eventi sfuggiti, come  detto, al controllo di tutti.
Non si poteva rischiare e così, mentre Garibaldi si  riorganizzava a Napoli e Francesco Il si arroccava a Gaeta, con quel rimaneva  del suo esercito, il Regio Esercito di Vittorio Emanuele II, guidato dallo  stesso Sovrano, varcava i confini di quel che rimaneva dello Stato Pontifico  occupando, in breve Marche ed Umbria. Al Papa rimaneva, ormai, solo con parte  del Lazio. Anche la discesa del nascente esercito italiano fu poco più che una  passeggiata. Qualche cannonata nelle marche, un breve assedio di Ancona e tutto  finiva in gloria. L'Abruzzo venne occupato senza colpo ferire e, in ottobre, il  fatidico incontro tra i due condottieri. Garibaldi e Vittorio Emanuele Il si  stimavano e si comprendevano, a livello personale, ma, ormai, le carte dovevano  passare alla politica. Il Generale passava in riserva. Si iniziava per don  Peppino Garibaldi, come era chiamato nel sud un seppur luminoso crepuscolo.
Al Volturno, i resti dell'esercito borbonico venivano sconfitti  dalle regie truppe. ormai italiane. In pochi mesi cadevano tutte e tre le ultime  piazzaforti borboniche, scrivendo pagine di autentico eroismo che, in parte,  riscattarono le pessime figure dei mesi precedenti. Gaeta, la cittadella  fortificata di Messina e Civitella del Tronto ammainarono per ultime la bianca  bandiera con i gigli d'oro di Casa Borbone-Due Sicilie.
Finiva un Regno, l'ultimo degli stati pre-unitari e iniziava il  Regno d'Italia; nasceva una Nazione che immediatamente, si cercò, per  ottant'anni, di far diventare anche Patria. Come in tutti gli eventi storici vi  furono resistenze, nostalgie, lotte anche feroci. Nel sud, si può dire che i più  accesi legittimisti borbonici, si mostrarono dopo la fine del regno.  Aristocrazia e clero soprattutto, sembrarono rendersi conto troppo tardi del  tramonto di una dinastia cui, in fondo, erano più legati di quanto essi stessi  credessero. In Toscana, con maggior fatalismo, furono in molti a restare legati  affettuosamente alla memoria del buon" Canapone", soprannome dato dai Toscani al  loro ultimo granduca Leopoldo II, per il colore dei capelli.
I Savoia si ritrovarono Re d'Italia. Forse al principio non se  ne resero nemmeno ben conto. Certo è che, nel 1859, l'idea iniziale non era  stata quella. Venne però ben gestiti gli eventi che si susseguirono, ben gestiti  come solo una solida organizzazione statale poteva fare. E quella Piemontese si  mosse molto bene. Cavour e Vittorio Emanuele Il furono le due pedine veramente  centrali di tutta la vicenda.
Meno bene, e qui affonda le radici la contropropaganda  soprattutto neo borbonica, seppe muoversi indubbiamente la neo politica italiana  dal 1861 in poi. Passata l'enfasi della guerra, vennero al nodo tanti problemi  che, spesso vennero risolti nel peggiore dei modi: con l'utilizzo della forza  bruta. I moti di resistenza post unitari, specialmente nel sud, hanno dato  origine ad una sterminata bibliografia la quale, specialmente negli ultimi anni,  anziché contribuire ad un sereno confronto, ormai solamente storico, ha  reinfolcoalto recriminazioni ed accuse che sembravano esser state sopite da  oltre 130 anni di unità nazionale Ma se è vero che efferatezze vennero compite  tra il 1860 ed il 1870 da entrambe le parti nell ex- provincie del Regno di  Napoli e che quella vera e propria guerra civile costò più  vittime di tutte le precedenti guerre risorgimentali, è altrettanto vero che si  trattò, comunque, di episodi, anche  se alcuni dimensionalmente importanti, comunque scollegati tra loro e che videro  un sostegno popolare delle masse scollegato, estemporaneo e comunque quasi  sempre istintivo. Il regno di Napoli, asseriscono oggi i promotori dell'ideale  neo borbonico, venne stroncato nel suo sviluppo dall'invasione piemontese e ciò,  per alcuni aspetti, è anche vero. Ma altrettanto vero è che, nel 1860, se si  usciva da Napoli e da poche altre grandi città, le condizioni sociali ed  economiche dello Stato erano tra le più retrive d'Europa. E vero che a Napoli  venne inaugurata nel 18391a prima ferrovia italiana, ma è altrettanto vero che, nel  1859, la ferrovia era giunta appena al confine con lo Stato della Chiesa mentre,  il Regno di Sardegna, in meno di 10 anni aveva inaugurato qualcosa come 7.000 Km.  di rete ferroviaria, compresa la Torino/Genova che contribuì in maniera  fondamentale, per dirne uno, al lo sviluppo del porto ligure. Certo nel Regno borbonico vi  erano progetti di sviluppo imponenti (come la linea Napoli/Bari), ma avviati con  tempi realmente "borbonici", si che quando arriarono i piemontesi i lavori  ancora dovevano cominciare. A Napoli era stata avviata la prima linea di  navigazione a vapore con il bastimento "Ferdinando I", la fabbrica d'armi di  Mongiana, in Calabria, l'arsenale di castellammare di Stabia, ma si trattava di  realtà, insieme a quelle rappresentate da altre industrei - in gran parte  concentrate intorno alla capitale - che riuscivano a vivere principalmente
grazie alle commesse goverantive e a non leggere tariffe proteizionistiche,  in netto contrasto, insomma, con quanto stava avvenendo nei mercati eruopei e  mondiali, dove le varie industrie nazionali si contendevano i mercati sull'onda  di una acerrima concorrenza mercantile, sconosciuta nel nostro profondo sud.
 
 
 
È vero che il debito di guerra contratto dallo Stato Sardo  venne, in buona parte pagato con le riserve degli stati pre unitari, ma è anche  vero che tali riserve, spesso assai floride (celebre il caso degli 11 milioni di  ducati d'oro della riserva reale di Napoli avocate dal governo tirinese),  avevano potuto essere mantenute, specie nelle Due Sicilie, proprio per  l'assenza, quasi totale, di consoistenti investimenti per il miglioramento delle  infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, infrastrutture portuali, cantieri  ecc.). Era insomma facile accumulare il gruzzolo, quando ben poco si spendeva  nell'interesse generale. Come nella vita, anche nella storia, le colpe ed i  meriti non sono maida una parte sola: certo è però che le strumentalizzazioni  non servono a far luce sugli eventi, specie se questi vengono rivangati in  maniera non utile alla chiarezza
storica. Vi fu strumentalizzazione favorita dalla retorica  risorgimentale nei decenni posto unitari, per la quale i "buoni" erano solo  quelli che combattevano per la causa italiani e vi è, invece oggi, una retorica  di parte contrapposta che tende, sbagliando, a voler negare anche gli aspetti  positivi del processo risorgimentale quale, se non altro, quello dell'unità  nazionale
Oggi l'Italia l'abbiamo, nel bene e nel male. Come detto in  principio va considerato il risultato finale e questo c'è stato, grazie ad un Re  montanaro, al grassoccio conte di Cavour e a un disinteressato avventuriero,  infarcito di patriottismo e di ideali che, suo malgrado, fu utile pedina in un  gioco ben più grande di Lui, quale fu Giuseppe  Garibaldi.
Franco Ceccarelli