di
Aldo A. Mola
L'attendismo degli
aventiniani e “ludi cartacei”
Da quando data il “regime fascista”?
All’inizio di quest'anno alcuni articoli hanno rievocato il discorso del 3
gennaio 1925, con il quale Benito Mussolini respinse ogni addebito per la morte
di Giacomo Matteotti e rivendicò la “rivoluzione” fascista. Per le molte
violenze (anche “irreversibili”) perpetrate dagli squadristi nel cammino
da “movimento” a partito (marzo
1919-novembre 1921), nell'assalto al governo e sino all'estate del 1924, il
“duce” sfidò chiunque, dentro e fuori l'Aula, a incriminarlo e a farlo tradurre
dinnanzi al Senato costituito in Alta Corte, come previsto dallo Statuto.
Nessuno raccolse la sfida.
A parte il drappello dei giolittiani, quel
giorno assenti, i 19 deputati del partito comunista d'Italia e gli otto
germanofoni e slavofoni, da sei mesi le “opposizioni” (i repubblicani, i
rappresentanti dei due partiti socialisti e i popolari) si erano chiamati fuori
dal confronto in Aula, arroccandosi in una sorta di “Aventino”, in attesa degli
eventi. Il loro portavoce più autorevole era Giovanni Amendola. Capofila dei
democratici, massone, teosofo, già ministro, noto anche all'estero e apprezzato
dal Re, questi compì un errore strategico. Mentre tanti fascisti della prima
ora, su ordine dello scaltro Mussolini, avevano deposto ogni velleità di cambio
istituzionale, quindi avevano nella monarchia e negli alti gradi militari
l'interlocutore naturale, Amendola si trovò circondato da partiti accomunati
nella lotta frontale contro i fascisti e la Corona, tacciata di connivenza col
regime nascente.
In pochi mesi divisioni e contrapposizioni
si acuirono. In marzo Franco Ciarlantini dette impulso alla redazione di un
“manifesto” dell'ideologia fascista internazionale. Lo scrisse il filosofo
Giovanni Gentile, già ministro della Pubblica istruzione nel governo Mussolini.
Presentato come espressione degli “intellettuali fascisti”, esso venne
pubblicato nel Natale di Roma (21 aprile), ricorrenza già celebrata da
anticlericali e massoni quale fondativa dell'idea d'Italia. Tra i suoi 250
firmatari ricorrono futuri antifascisti, dissidenti e massoni autorevoli come
Ferdinando Martini (Grande Oriente d'Italia) e Curzio Malaparte (regolarizzato
da Raoul Palermi nella Gran Loggia d'Italia), letterati, critici e storici
famosi, come Luigi Pirandello, Corrado Ricci, Giuseppe Ungaretti, Ardengo
Soffici, Ugo Spirito, Gioacchino Volpe e Guido da Verona, il bello spirito che
stava per rovinarsi la carriera con la parodia dei “Promessi sposi” di
Alessandro Manzoni proprio mentre Mussolini, fiutati gli incensi dell'Anno
Santo, era già in marcia verso la Conciliazione. Non mancò una firma femminile
di prestigio: Margherita Sarfatti, una dei 33 ebrei firmatari del Manifesto di
Gentile.
Su proposta di Amendola, Benedetto Croce, a
sua volta già ministro della Pubblica istruzione, filosofo, critico, spirito
libero che aveva votato a favore del governo Mussolini anche dopo l'“affare
Matteotti”, scrisse la replica a Gentile, pubblicata il 1° maggio su alcuni
quotidiani. Essa venne classificata “manifesto degli intellettuali
antifascisti” da che scordava che “intellettuale” è termine spregiativo agli
occhi di Giosuè Carducci. Tra i suoi primi quaranta firmatari alcuni tennero il
punto. Fu il caso di Guido De Ruggiero, Luigi Einaudi, Ettore Janni, valdese,
Arturo Carlo Jemolo, Francesco Ruffini, giurista liberale. Altri, come Giovanni
Ansaldo, Arturo Labriola, Giovanni Miranda, massone autorevole, dopo qualche
anno scesero a patti col regime, ritenuto definitivamente vittorioso. Lo firmò
anche Matilde Serao.
I due “manifesti” non significarono
contrasti inconciliabili. Alcuni transitarono all'una all'altra sponda. Tra
quanti sottoscrissero quello di Croce, parecchi collaborarono all'“Enciclopedia
Italiana” diretta da Gentile, che per la voce “Ebrei” si valse di Giorgio Levi
della Vida, firmatario del “manifesto Croce”, e affidò la sezione “storia delle
religioni” a Raffaele Pettazzoni, massone della prestigiosa “VIII Agosto” di
Bologna. La partita vera, comunque, non si giocò sui giornali, teatro di “ludi
cartacei”, ma nell'assetto del potere, della produzione, delle relazioni
internazionali (vi provvide un corpo diplomatico di prim'ordine, orchestrato da
Salvatore Contarini, segretario generale del ministero degli Esteri) e in
Parlamento. Fu nei suoi due rami che Mussolini si impegnò direttamente, e a
fondo, sapendosi sorvegliato dal Re. Doveva dimostrare al sovrano che la
“rappresentanza” della “nazione” (i senatori, nominati dal re; e i deputati,
eletti dai cittadini) erano favorevoli al governo.
Tante
finte riforme...
Tramite lo squadrismo intruppato nella
Milizia volontaria per la sicurezza nazionale il duce controllava la “piazza”.
Di persona teneva in pugno il parlamento, in stretta convergenza con il
presidente del Senato, Tommaso Tittoni, antico ambasciatore e ministro degli
Esteri in alcuni governi Giolitti, e molto ascoltato dal Re; e con Antonio
Casertano, presidente della Camera, ex radicaleggiante, massone incognito, il 6
aprile 1924 eletto nella Lista nazionale, come altri notabili liberali, incluso
Enrico De Nicola.
Quale presidente del Consiglio e ministro
degli Esteri, fiancheggiato dal protonazionalista e massonofobo Luigi Federzoni
all'Interno, Mussolini ebbe pieno controllo di Montecitorio e ridusse all'osso
l'opposizione in Senato. Giocò abilmente con le Camere presentando disegni di
legge graditi a parte delle opposizioni, a quel modo lusingate e private di
argomenti. Fu il caso della legge 15 febbraio 1925, n. 122 (mai attuata) che
ripristinò i collegi uninominali. Al democristiano Acide De Gasperi il duce aveva
promesso il ritorno al proporzionale. Giocava a rimpiattino. In politica, arte
della menzogna qual egli la concepiva, l'ingannato non è meno colpevole di chi
inganna. Conta il risultato finale.
Tra i capolavori mussoliniani vi fu il
conferimento del diritto di voto alle donne nelle elezioni amministrative,
approvato alla Camera il 15 maggio 1925, dopo decenni di proposte mai giunte in
porto. A suo sostegno il duce intervenne di persona, affermando che poteva
essere di qualche utilità benché la donna non abbia «grande potere di sintesi e
quindi sia negata alle grandi creazioni spirituali». Anche quella riforma finì
nel nulla, perché Mussolini abolì l'elettività dei consigli provinciali e
comunali.
Nei primi mesi dell'Anno Santo il governo
varò una folla di leggi e leggine per rinsaldare il suo controllo sul Paese e
il suo prestigio agli occhi degli osservatori stranieri. Occorrevano ordine e
disciplina: promesse e invocazioni di tutti i governi del dopoguerra, spesso
inconcludenti (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta). Per prevalere definitivamente
Mussolini si valse della macchina dello Stato, mobilitata tramite i prefetti.
Contrariante a quanto solitamente si dice e si crede il passaggio dal regime parlamentare,
in vigore dai tempi di Camillo Cavour, a quello di partito unico non fu affatto
repentino. Non si risolse in pochi giorni, settimane o mesi. Richiese tempi
lunghi e non modificò l'assetto dei poteri apicali. L'Italia rimase una
monarchia rappresentativa, come enunciato dallo Statuto. Toccava al parlamento
approvare le leggi elettorali. L'aveva fatto tante volte dal 1848 al 1919. Lo
fece nel 1923 e tornò a farlo nel 1928. Nel 1939 l'insediamento della Camera
dei fasci e delle corporazioni non richiese neppure un voto di conferma da
parte degli elettori. Fu composta di membri di diritto in virtù delle cariche
di partito e di “nominati”, in numero indefinito. I suoi componenti non furono
più “deputati”, cioè persone scelte e “mandate” dagli elettori, ma
semplicemente “consiglieri”. Se così piaceva ai legislatori e alle piazze,
affollate di cittadini entusiasti, che cosa avrebbe potuto o dovuto fare il Re?
...e
consenso internazionale
Quel regime ebbe il plauso dei più influenti
Stati esteri, in specie della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d'America. Lo
ripetono i saggi di GianPaolo Ferraioli e di Massimo Nardini pubblicati in
“1925. L'Italia verso il regime”. Nel suo insieme il volume descrive l'abile
uso dei poteri istituzionali da parte di Mussolini, presidente del Consiglio
dei ministri e “Capo del governo”, carica istituita con la legge 24 dicembre
1925, n. 2263. Al termine di quell’anno egli poté contare su un regime
autoritario, incardinato su Partito nazionale fascista, Milizia volontaria per
la sicurezza nazionale, Tribunale speciale per la difesa dello Stato
(annunciato e di lì a poco insediato) e su una macchina oppressiva e
spionistica tra i cui strumenti fu precipua l'Opera volontaria di repressione
dell'antifascismo (una delle tante decrittazioni dell'acronimo OVRA).
Cavaliere della SS. Annunziata, e quindi
“cugino del Re”, dal 16 marzo 1924, tra la metà del 1925 e l'inizio del 1926 il
“duce del fascismo” concentrò nelle sue mani una somma di poteri senza
precedenti nella storia d'Italia: oltre che presidente del Consiglio e ministro
degli Esteri fu titolare dei ministeri militari (Guerra, Marina e Aeronautica)
nonché delle Colonie. Direttamente o indirettamente influì su produzione
agricola, industriale, commerciale e sul sistema bancario, con nuove norme su
credito cooperativo, casse di risparmio (accorpate), credito mobiliare e Banca
d'Italia. Fondato cinque anni dopo, l'Istituto per la Ricostruzione Industriale
(IRI) venne considerato anche all'estero un modello di modernizzazione. Alla
sua guida Mussolini pose Alberto Beneduce, già grande oratore del Grande
Oriente d'Italia, socialista, libero pensatore, notoriamente antifascista ma
disponibile a collaborare con il governo per attuare riforme che almeno in
parte rispondevano ai propositi di miglioramento delle condizioni generali
degli italiani. In quella direzione si prodigarono economisti, sociologi,
scienziati, igienisti, scrittori, poeti e artisti come Duilio Cambellotti, il
“cantore” del regime che nel dopoguerra ebbe parte eminente nella commissione
che scelse l'emblema della Repubblica italiana, disegnato dal valdese e massone
Paolo Antonio Paschetto.
Tutte le leggi via via limitative delle
libertà introdotte in Italia da metà Ottocento all'avvento del regime di
partito unico ebbero l'approvazione dei due rami del parlamento. Nel novembre
1922 questi conferirono a Mussolini i pieni poteri per la riforma della
pubblica amministrazione precedentemente negati al liberal-democratico Giovanni
Giolitti. Nel 1923 la Camera eletta il 15 maggio 1921 col riparto dei seggi in
proporzione ai voti ottenuti dai partiti in lizza, come già osservò il
rimpianto Giovanni Sabatucci consumò il proprio suicidio con l'approvazione
della legge elettorale smodatamente maggioritaria che assegnò due terzi dei
seggi alla lista che superasse il 25% dei consensi: uno sproposito approvato
dalla Camera eletta a suffragio universale maschile durante il V e ultimo
governo Giolitti. Nel loro insieme, dunque, i “cittadini” non furono affatto
“innocenti” nell'avvento del regime, che non videro arrivare o preferirono non
vedere. Esso si affermò “lento pede” conquistando via via aree sempre più ampie
di consenso. In massima parte non colsero di esserne vittime designate.
Rimasero plaudenti sino alla catastrofe.
Su quella premessa Mussolini cancellò la
“maledetta proporzionale” (formula cara a Giolitti, che nutrì profondo
disprezzo nei confronti di Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare
italiano, liquidato come “prete intrigante”) e ottenne la straripante vittoria
della Lista nazionale il 6 aprile 1924. Pur contando appena 227 deputati
iscritti al partito (e molti solo da pochi mesi) il “duce” resse alla campagna
d'opinione connessa al rapimento e alla morte di Giacomo Matteotti. Dal gennaio
1925 riprese alacremente la marcia verso il regime, condotta passo passo in
Parlamento, ove egli sedette in permanenza mentre, come detto, di propria
scelta cinque partiti di opposizione ne rimasero fuori.Le molte rievocazioni di
Matteotti fiorite nel centenario del delitto non hanno risposto a due domande
fondamentali: che cosa abbiano fatto i partiti non fascisti per non finire
travolti dalla legge elettorale, approvata anche da liberali e popolari, e in
quali modi efficaci essi abbiano esercitato il loro mandato nel corso del 1925.
Al
bando i satanisti nel Giubileo 1925
Il 12 gennaio Mussolini aprì l'Anno Santo
presentando alla Camera il disegno di legge sulla regolamentazione delle
associazioni e sull'appartenenza dei pubblici impiegati statali e degli enti
locali ad associazioni, subito nota come legge contro la Massoneria. Fu la
prima legge dichiaratamente “fascistissima”, deplorata da esponenti
dell'opinione liberale quali Francesco Ruffini e Benedetto Croce ma approvata
quasi all'unanimità alla Camera dei deputati e con soli dieci voti contrari al
Senato, senza che i votanti fossero minacciati o coartati. Fu approvata dai
“rappresentanti” degli italiani in Parlamento. Essi condannarono la massoneria
italiana come congrega di satanisti, vincolati da tenebroso giuramento. Molti
identificarono le logge con nuove forme associative, quali i Rotary Club,
sospettati di esserne una reincarnazione, messa però al sicuro con l’assunzione
della loro presidenza onoraria da parte di Vittorio Emanuele III, di suo
figlio, Umberto di Piemonte, e dei prìncipi della Casa.
La drastica limitazione della libertà di
stampa, lo scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione,
l'abolizione dell'elettività dei consigli comunali e provinciali, l'avvento del
regime di partito unico, il ripristino della pena di morte (la cui abolizione,
con il codice penale del 1889, aveva costituito un primato mondiale dell'Italia
liberale), la dichiarata decadenza dei deputati “assenteisti” (1926), la
costituzionalizzazione del Gran consiglio del fascismo (che, va ricordato, non
ebbe alcun potere sulla successione alla Corona ma solo la facoltà di esprimere
pareri su leggi che la riguardassero) e la riforma elettorale Rocco del 1928
vennero dopo.
Il 24 marzo 1929 il regime mussoliniano ebbe
trionfale conferma alle urne nel clima propiziato dai Patti Lateranensi,
celebrati come Conciliazione e considerati così vincolanti per la storia da
essere inseriti nella Costituzione della Repubblica in vigore dal 1° gennaio
1948.
Il regime di partito unico, dunque, non fu
una Rivoluzione. Vittorio Emanuele III conservò i poteri statutari e, quando
venne l'ora, revocò Mussolini da capo dal governo e lo sostituì con l'Esecutivo
presieduto dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio che in pochi giorni
smantellò il Pnf e tutti i suoi organi e istituti. Quel regime, però, non fu
affatto indolore e, di errore in errore e dopo l'orrore delle leggi
antiebraiche, il 10 giugno 1940 precipitò l'Italia nella catastrofe della nuova
guerra europea dal 1941 divenuta mondiale.
La lezione del 1925 giova a far comprendere
che il parlamento è il presidio delle libertà. Molto oggi si dice della sua
inadeguatezza rispetto alla “democrazia decidente”: formula opaca,
quest'ultima, che prospetta e alimenta, a ben vedere, sfiducia nelle elezioni
quale libero esercizio della sovranità dei cittadini. La pulsione verso
l'astensionismo dalle urne è una nuova forma di “aventinismo”, dannoso non meno
di quello di un secolo addietro. Perciò la riflessione sulla “marcia del
Parlamento” nel corso del fatidico 1925 non è mera rievocazione del passato
remoto ma invito a vedere i germi di nuovi regimi personalistici, sostitutivi
degli equilibri dei poteri garantiti dalla Costituzione vigente.
Aldo
A. Mola
DIDASCALIA:
Il libro “1925. L'Italia verso il regime”, con premessa della Principessa Maria
Gabriella di Savoia (BastogiLibri, maggio 2025), comprende saggi di Carlo
Cadorna, Raffaella Canovi, Antonio Cecere, Daniele Comero con Rossana Mondoni,
GianPaolo Ferraioli, Luca Giuseppe Manenti, Alessandro Mella, Massimo Nardini,
Luigi Pruneti, Aldo Giovanni Ricci, Tito Lucrezio Rizzo, Giorgio Sangiorgi e
Antonio Zerrillo: panorami su politica estera e interna, forze armate, vita
economica, culturale e sociale, tramonto delle libertà politiche e associative
e figure rappresentative di un'epoca, come Gabriele d'Annunzio e il generale
Pietro Gazzera.
Il volume, pubblicato dall’Associazione di
studi storici Giovanni Giolitti e dall'Associazione di studi sul Saluzzese, con
adesione di enti, istituti di studi e associazioni, è in libreria e può essere
ordinato a bastogilibri@gmail.com.