Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia
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con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia
“Umberto I, Il Re buono”, a cura di Edoardo
Pezzoni Mauri e Salvatore Sfrecola con prefazione di Maria Pia di Savoia,
primogenita del re Umberto II, si sarebbe potuto intitolare “l’Italia al tempo
di Umberto I”, il Re ucciso il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci:
tre o forse quattro i colpi di pistola che, come scrive Sacchi, “posero la
parola fine alla bella favola risorgimentale che era stata il motivo conduttore
della vita del Re Umberto I”. QUi una sintesi della presentazione di Gianni
Torre per il blog Un sogno italiano.
Secondo
in ordine di successione, dopo il padre Vittorio Emanuele, Umberto fu
effettivamente il primo Re d’Italia, nel senso che la trovò unita e visse
stabilmente a Roma, dove la consorte, la Regina Margherita, con la sua spiccata
personalità, divenne presto molto popolare, per le sue opere di carità e perché
raccolse attorno a sé personalità della cultura provenienti da tutto il Regno,
in tal modo costituendo, accanto alla Corte tradizionale, un ristretto salotto
intellettuale (quasi un “Circolo della Regina”), di cui scrivono Rossella Pace
ed Edoardo Pezzoni Mauri (“Il mito della Regina!), frequentato assiduamente da
artisti, letterati, filosofi e politici, da Marco Minghetti a Terenzio Mamiani,
al Premio Nobel per la poesia Giosuè Carducci.
È
l’Italia che, finalmente unita, anche se mancano ancora Trento e Trieste, ha
l’ambizione di diventare “un grande Stato”, come aveva auspicato Cavour
all’atto della costituzione del Regno, e intraprende la strada delle riforme
amministrative, economiche e sociali con le quali il Paese, fra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sarà all’avanguardia in Europa. Basta
ricordare il Codice Zanardelli del 1889 che abolisce la pena di morte che
rimarrà, invece, nella legislazione di molti paesi europei fino al ventesimo
secolo, una riforma sulla quale ha scritto pagine di straordinario interesse il
Professor Nicola Pisani.
“Umberto I, Il Re buono” un libro sul secondo sovrano d'Italia (blitzquotidiano.it)
Siete cortesemente invitati a un Nostro Incontro di Studio e di Ricerca
dedicato al Patrimonio Storico Italiano,
con particolare attenzione alla Storia del Regno d'Italia.
2) LA
DECADENZA DELL'IMPERO
La
creazione di questi nuovi stati e l'organizzazione dei comuni, avevano
fortemente scosso l'autorità imperiale a cui era pur sempre connessa,
titolarmente, anche la corona d'Italia e questa situazione di decadenza
dell'Impero era in pieno sviluppo quando sali sul trono di Germania
l'Imperatore Federico I Barbarossa (1152). Questi dapprima si alleò con il Papa
promettendo di aiutarlo nella resistenza contro i romani che erettisi a comune
venivano spesso a contrasto con l'autorità pontificia, e contro i normanni il
cui vassallaggio era sempre alquanto pesante e pericoloso, ricevendo in cambio
dal Papa Adriano IV la corona imperiale in San Pietro. Ma il Barba-rossa se
respinse in effetti bruscamente le pretese del comune di Roma, che avrebbe
voluto essere lui ad offrirgli la corona imperiale, desistette però
dall'attaccare il regno normanno, retto allora da Guglielmo I perdendo un
momento eccezionalmente favorevole, giacché l'imperatore bizantino Manuele I
Comneno stava tentando di riconquistare i possessi italiani giungendo a mettere
piede a Bari e a Trani, spingendosi sino ad Ancona. I bizantini, non aiutati
dai tedeschi, finirono però col soccombere e furono costretti a concludere con
i normanni la pace nel 1158, mentre fin da prima Adriano IV si era riconciliato
con Guglielmo I accordandogli l'investitura del regno, comprese Capua e Napoli.
La
politica del Barbarossa si volse soprattutto al tentativo di schiacciare la
potenza dei comuni dell'Italia settentrionale; nella sua seconda discesa in
Italia, convocò nel 1158 la dieta di Roncaglia onde stabilire definitivamente i
rapporti fra i comuni e i suoi imperiali diritti e rivendicò all'impero la
nomina dei magistrati, la coniazione della moneta, l'amministrazione della
giustizia, la riscossione dei pedaggi e la disposizione dei feudi. Quando però
tentò di inviare i suoi rappresentanti nelle città, Milano cacciò i messi
imperiali mettendosi a capo delle città ribelli. Federico assediò Crema che fu
rasa al suolo dopo sei mesi d'assedio, dopo oltre due anni di difesa
disperatissima Milano abbandonata dalle altre città dovette arrendersi a
discrezione e per ordine imperiale fu distrutta dai cittadini di Como, Novara,
Pavia e Cremona, città inimicissime della capitale lombarda; sembrò per un
momento che la potenza comunale fosse distrutta per sempre (1162).
La potenza
smisurata del Barbarossa provocò però una coalizione contro di lui, egli tentò
alla morte di Adriano IV di contrapporre al successore canonicamente eletto,
Alessandro III, un antipapa suo 'parente che si chiamò Vittore IV; mentre la
Germania e parte dell'alta Italia riconobbero l'antipapa, intorno ad Alessandro
III si strinsero i comuni antimperiali, la Sicilia, la Francia e l'Inghilterra.
Il Papa scomunicò l'imperatore, tentando di deporlo, ma fu costretto a rifugiarsi
prima a Genova e poi in Francia.
Le città della Marca veronese, Verona, Vicenza, Padova e Treviso strinsero
una lega antimperiale: la lega veronese, che ebbe l'appoggio di Venezia ed
anche dell'imperatore bizantino, ancora padrone di Ancona, che sperava di
riunire sul suo capo le due corone imperiali; la rivolta di Cremona e Mantova,
Bergamo e Brescia che con i milanesi strinsero il patto di Pontida, furono il
primo nucleo della Lega Lombarda (aprile 1167). Federico tornò in Italia,
sottomise Ancona e Roma in cui installò il suo antipapa, ma la lega lombarda,
ormai forte e compatta, lo costrinse a fuggire in Germania travestito nei primi
giorni del 1168; egli rientrò in Italia dopo sei anni, ricominciando le
ostilità; dopo assedi, lotte e tentativi di pace falliti, fu ancora battuto
dalla lega a Legnano il 29 maggio e si piegò a riconoscere in Alessandro III il
vero Papa. La potenza imperiale nell'Italia settentrionale era tramontata per
sempre e nuovamente prendevano vita le istituzioni comunali riconosciute dal
Barbarossa nella pace di Costanza il 25 giugno 1183.
Al
Barbarossa successe il figlio Enrico VI che sposando l'ultima degli Altavilla,
Costanza, riuscì ad impadronirsi della corona normanna con breve lotta contro
Tancredi conte di Lecce, rampollo illegittimo della Casa. Così l'impero che
aveva perduto gran parte del suo potere nel settentrione veniva a costituirsi
una base potente nel capo opposto della penisola, minacciando i territori
pontifici e comunali che si trovarono stretti come in una morsa nei territori
imperiali, ma Enrico VI morì improvvisamente a Messina nel 1197 mentre preparava
una spedizione contro l'impero d'oriente e la moglie Costanza, seguendolo nella
tomba l'anno dopo, lasciò il Papa Innocenzo III come reggente durante la
minorità del figlio Federico.
Innocenzo,
non volendo che le corone dell'Impero e di Sicilia fos¬sero riunite, incoronò
imperatore nel 1209 il duca Ottone di Brunswick, vincendo le opposizioni di un
partito tedesco ad esso contrario; il nuovo imperatore si mostrò però ben
presto avido di potere e dispo¬tico, invadendo il patrimonio di S. Pietro e la
parte continentale del regno di Sicilia; allora Innocenzo III lo scomunicò,
eccitò contro di lui la lega toscana e i sovrani di Francia e Inghilterra,
infine lo depose riconoscendo come imperatore Federico II di Sicilia, dietro
promessa di questi di rinunciare ai domini italiani e di riconoscere l'alta
so¬vranità pontificia sulla Corsica e la Sardegna.
Federico II
condusse una politica quasi esclusivamente italiana, risiedendo quasi sempre
nella penisola, soprattutto a Palermo, e curandosi poco delle vicende della
Germania. La sua grande intelligenza e la sua formazione lo portarono a
rendere il regno e la sua corte palermitana un centro importantissimo di
cultura ove brillarono i migliori ingegni dell'epoca, fra i quali il suo
ministro prediletto
Pier delle Vigne, che fu anche squisito poeta, Giacomo da Lentini e Jacopo
Mostacci.
La sua politica assolutista ed il suo indugio a mantenere la promessa di
partecipare alla crociata per la liberazione della Terra santa, lo portarono
però a contrastare sia con i Papi che con i comuni. Gregorio IX papa lo
scomunicò e dopo che Federico II ebbe sconfitto l'esercito della lega comunale
a Cortenuova, presso Bergamo, nel 1237 divenne il protettore delle libertà
comunali contro l'imperatore eretico e scomunicato. La lotta si inasprì al
punto che il Concilio di Lione, alla presenza di Papa Innocenzo IV, depose
Federico, nel 1245, quale spergiuro, sacrilego e sospetto di eresia; ma i Re
eletti in Germania contro di lui, Enrico Raspe e poi Guglielmo d'Olanda, non
riuscirono a prevalere sul figlio di lui, Corrado, per il quale si schierò gran
parte della nobiltà laica dell'Impero. La lotta terminò solo con la morte di
Federico avvenuta nel castello di Fiorentino, il 13 dicembre 1250
Poiché Federico II aveva ordinato che l'unione delle corone di Germania e
di Sicilia durasse in perpetuo, la reggenza in Sicilia in nome di Corrado
imperatore, fu assunta da Manfredi principe di Taranto, suo fratello naturale;
morto Corrado poco dopo, nel 1254, lasciando un solo figlio, Corradino,
Manfredi si fece incoronare Re e-la sua potenza si accrebbe fino a farne il
capo della fazione imperiale in Italia, già detta dei Ghibellini, tanto che
egli sognò per un momento di cingere la corona di un regno italico.
La sua potenza
preoccupò però il Pontefice, che conservava sempre i diritti di alto
patrono del regno di Sicilia e questi offrì la corona a Carlo d'Angiò fratello
del Re di Francia e signore di Provenza e di Nizza. Carlo scese in Italia, fu
incoronato da papa Clemente IV, Re di Sicilia e sconfitto Manfredi nel 1266 presso
Benevento si impadronì del territorio.
Un ultimo
tentativo degli Svevi di rioccupare il trono siciliano, fu quello di Corradino
che, sconfitto a Tagliagozzo il 23 agosto 1268, fu imprigionato e decapitato
per ordine di Carlo d'Angiò a Napoli il 29
ottobre.
di Aldo A. Mola
Aldo A. Mola Le vie
imperiali...
Sconfitto a Waterloo a metà giugno 1815,
Napoleone “passò”. Ma lasciò molto più di una labile “orma”. A parte i Codici,
rimasti modello per tanti Paesi, consegnò ai posteri le strade che ancora ne
portano il nome, le migliori d'Europa dal tempo dei romani. Come narrò Hermann
Schreiber in “Le vie della Civiltà. Strade e percorsi storici” (Edizioni
Odoya), il declino dei “Cesari” portò con sé quello della rete viaria estesa
dalla Città Eterna alle più remote province dell'impero. Assediata da erbacce,
essa affondò sotto la polvere dei secoli. Anche la civiltà classica finì tra le
sepolte.
Con il repentino disfacimento del Sacro
romano impero agli insediamenti sulle coste, fiorenti in età romana, furono
preferiti borghi arroccati in posizioni più difendibili in caso di scorrerie ma
poveri di collegamenti. Il nemico era ovunque. Quando iniziarono a riaversi, le
comunità investirono in mura e chiese fortificate molto più che in strade.
Sotto l'avanzata araba e quella, successiva, turco-ottomana l'Europa si
restrinse. La svolta giunse con Napoleone. La rete stradale serviva ai fulminei
spostamenti delle sue armate, come quella romana per le legioni, e per
vivificare il commercio all'interno del “blocco continentale”. Affrontò
d'impeto gli ostacoli naturali, a cominciare dalle Alpi, aggredite dalla Costa
Azzurra al confine italo-elvetico.
Nel decennio 1839-1847 i Congressi degli
scienziati italiani ideati Carlo Luciano Bonaparte, nipote dell'imperatore e
principe di Canino, proposero di abbattere le barriere doganali e di potenziare
la rete viaria sull'esempio di Gran Bretagna e Francia. Vaganti dall'una
all'altra città storica (ma con esclusione del diffidente Stato pontificio) gli
scienziati sapevano quanto fosse arduo viaggiare e trovare albergo per una
sosta prolungata e bisognosa non solo di un'aula per svolgere i lavori
assembleari ma di ampi spazi per scambiarsi informazioni riservate. Lasciati da
parte i pugnali carbonari e mazziniani, essi mirarono a formare l'“opinione
nazionale”. Erano “i fatti” a parlare. L'incremento della produzione agricola e
manifatturiera esigeva una concezione delle vie di comunicazione non soffocata
da controlli di polizia e dazi doganali.
...e quelle ferrate: primato
del Vecchio Piemonte
A differenza degli altri Stati d'Italia, il
“Piemonte” albertino aveva dinanzi a sé una sfida: le Alpi. La raccolse proprio
sulla traccia di Napoleone. Con le patenti del 18 luglio 1844 Carlo Alberto di
Savoia impostò lo schema della rete ferroviaria da realizzare nel regno, con
priorità per la Torino-Alessandria-Genova con la diramazione da Alessandria a
Novara e al Lago Maggiore. Ma, come bene documentano Marco Albera ed Enrico
Cavallo in “L'altro Risorgimento. Cronache del traforo del Fréjus” (Centro Studi
Piemontesi), il progetto generale concepito da Bartolomeo Bona, capo
dell'Azienda generale delle strade ferrate, su impulso di Des Ambrois de
Nevache, comprese anche l'ardita impresa del Fréjus.
Le strade erano molto. Lo sapeva bene
Cavour, che conosceva le difficoltà e il costo aggiunto per il trasporto del
suo vino dalle Langhe a Torino. Ma ormai non erano più tutto. Proprio mentre
ferveva il loro potenziamento si affacciò dirompente la “strada ferrata”,
sull'esempio di quanto avveniva nei Paesi di seconda industrializzazione come
Gran Bretagna, Belgio e Francia, avvantaggiati dalle caratteristiche
orografiche dei loro territori. Le ferrovie richiesero maggior lungimiranza
politica e convergenza tra vertici dello Stato, amministrazioni locali,
concorso finanziario pubblico e privato e apertura a imprenditoria estera,
attratta da opportunità e da generose “concessioni” di lunga durata. Nel suo
insieme l'Italia arrivò tardi a dotarsi di una rete ferroviaria. In
quell'ambito il Vecchio Piemonte svettò. Nella primavera del 1859, alla vigilia
della guerra franco-piemontese contro l'impero d'Austria, metà delle linee
ferroviarie dell'intera penisola erano sue. I numeri parlano da soli: il
“Piemonte” contava 802 chilometri di ferrovie contro i 298 del Veneto, i 202
della Lombardia, i 256 della Toscana, i 101 dello Stato Pontificio e i 98 del
regno delle Due Sicilie, che era il più ampio tra gli Stati italiani. Alla
proclamazione del regno d'Italia (14 marzo 1861) intere regioni dell'Italia
centro-meridionale erano ancora povere o del tutto prive di strade ferrate.
Sicilia, Puglia, Basilicata, Abruzzo non ne avevano neppure un chilometro.
Torino aveva capito prima di Napoli che l'Italia era la scorciatoia dal Canale
della Manica a quello di Suez, la cui apertura procedeva rapidamente, e quindi
per le Indie e l'Estremo Oriente, ove l'Inghilterra conduceva la spietata
“guerra dell'oppio”. La radice della “questione meridionale”, oggi pressoché
scomparsa dai riflettori della storiografia, è tutta lì: nell'incapacità dei
Borbone delle Due Sicilie di pensare in europeo o almeno “in mediterraneo”. Si
ritenevano invulnerabili tra l'acqua salata e l'Acqua Santa. Nell'ottobre 1860
Vittorio Emanuele II di Savoia varcò il passo del Macerone, invase il regno e,
in raccordo con Garibaldi, giunto a Napoli dalla Sicilia, lo soggiogò senza
neppure dichiarare guerra.
Il Traforo de Fréjus, prima
che l'Italia venisse
Quelle scelte politiche fecero la differenza
e si proiettarono sul secolo successivo. Altrettanto vale per la legge che il
15 agosto 1857 decise l'apertura del traforo ferroviario del Fréjus: un'impresa
ciclopica da molti considerata impossibile o comunque al di sopra delle risorse
del regno di Sardegna. A distanza di un oltre un secolo e mezzo merita
riflettere sul fatto che essa venne deliberata quando nessuno aveva in cantiere
la futura cessione della Savoia alla Francia di Napoleone III. Fu dunque una
decisione maturata all'interno e per l'interno del regno, ma al tempo stesso
per farne il “ponte” tra l'Italia settentrionale e l'industre e pingue Europa
centro-occidentale. Il colloquio tra Napoleone III e Cavour a Plombières del 21
luglio dell'anno seguente, al netto delle leggende, non contenne né lo sbarco
dei Mille a Marsala, né l'annessone di Venezia, né, meno ancora, l'irruzione di
Porta Pia del 20 settembre 1870. Prevedeva certamente Milano, per secoli
agognata da Casa Savoia, premessa del futuro triangolo industriale
ligure-piemontese-lombardo proiettato ad assorbire i Ducati padani, l'Emilia e
la Romagna, eliminandovi le Legazioni. Ma quelli erano i “confini” del
ragionamento e delle speranze: un regno sabaudo dell'“Alta Italia”, senza
pregiudizio per il controllo dei valichi orientali da parte dell'impero
d’Austria.
Anche dopo la proclamazione del regno
d'Italia, quando furono celebrati i congressi straordinari di Firenze (1861) e
di Siena (1862), le comunicazioni stradali e le strade ferrate rimasero
nominalmente estranee agli interessi degli scienziati italiani, che si
occupavano di fisica e matematica, chimica e farmaceutica, botanica e zoologia,
medicina e chirurgia, agronomia e veterinaria, archeologia e storia, filologia
e linguistica, economia politica e statistica, filosofia e legislazione,
pedagogia.
La svolta maturò dopo l'annessione di Roma e
del Lazio. Per l'XI congresso, presieduto da Terenzio Mamiani, massone di lungo
corso, venne pubblicato il volume L'Italia economica nel 1873 (Roma, Tip.
Barbera). Imponente per i tempi, esso calcò il modello dei censimenti:
meteorologia, idrografia, popolazione, istruzione pubblica (con speciale
attenzione per quella industriale e professionale), giustizia penale e civile,
carceri, opere pie, esercito, marina, lavori pubblici, finanze dello Stato,
delle provincie e dei comuni e statistica elettorale. Nella sezione dei lavori
pubblici al penultimo posto comparvero le strade ferrate: appena dieci pagine
contro le ventidue dedicate alle strade ordinarie, non per sottovalutazione ma
perché queste erano di gran lunga più sedimentate nell'attenzione dei governi.
Tuttavia l'Italia economica scrisse che la costruzione di ferrovie stava
procedendo “con non minore alacrità” e vantò con orgoglio “il gran tunnel del
Cenisio, aperto al pubblico il 16 ottobre 1871, opera gigantesca e ritenuta
chimerica fino a questi ultimi anni”. Ne descrisse i requisiti, ne elogiò gli
artefici e ne indicò il “costo totale”.
Quella galleria era motivo di vanto, ma
bisognava guardare al futuro. Erano in costruzione altri 1118 chilometri di
strade ferrate, 674 dei quali a totale carico dello Stato. Le loro “condizioni
eccezionali”, per le “difficoltà tecniche” opposte dal territorio (basti
pensare alla costiera ligure e agli Appennini), imponevano qualche
comprensibile ritardo. Ma la Nuova Italia non rinunciava all'obiettivo: fare
delle linee ferroviarie le arterie per unificare davvero il Paese.
Non bastasse, lungi dal ripiegarsi sul
territorio nazionale, “dopo maturi studi e lunghe trattative”, il Governo
italiano il 15 novembre 1869 aveva stipulato con la Confederazione Elvetica una
convenzione, con adesione del governo germanico, per la costrizione di una
ferrovia attraverso il San Gottardo: altra impresa audacissima, ammirata da
tutti i paesi civili, accennata con poche sobrie parole.
Strateghi del processo economico in corso,
innervato sul ministero della Pubblica istruzione retto da Cesare Correnti,
erano statisti quali Giovanni Lanza e Quintino Sella, titolare delle Finanze e
successore di Correnti alla Minerva.
A chi si rivolgevano progettisti e fautori
delle strade ferrate? La risposta va cercata nella struttura della monarchia
rappresentativa fondata da Carlo Alberto con lo Statuto del 4 marzo 1848,
preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 resero elettivi i consigli
comunali, provinciali e divisionali e mobilitarono migliaia e migliaia di
cittadini chiamati a concorrere alla vita pubblica di concerto con
l'amministrazione e gli “uffici”. La Carta albertina fissò la cornice dello
Stato: il Re, il “suo” governo (l'esecutivo) e il Parlamento (il legislativo),
formato da una Camera di nomina regia e vitalizia e da una elettiva.
Quest'ultima era e sarebbe rimasta il luogo proprio delle deliberazione delle
leggi di bilancio, con priorità rispetto al Senato. L'elettività propiziò
l'avvento di una dirigenza rappresentativa degli interessi superiori dello
Stato, perché da un canto liberò gli eletti da ogni mandato da parte dei
votanti, dall'altro esortò implicitamente gli elettori ad affidarsi a rappresentanti
effettivamente competenti. Se insoddisfatti, al prossimo turno elettorale se ne
sarebbero disfatti. La costruzione di una ferrovia non era però cosa di breve
durata, come i quattro-cinque anni (a volte anche meno) di una legislatura. Si
verificò dunque un miracolo nel miracolo. Mentre la Nuova Italia s’impegnava
nella realizzazione di opere gigantesche, gli elettori confermarono
reiteratamente la loro fiducia a deputati di sicura capacità, tra i quali
spicca un cenacolo di “ingegneri ferroviari” vocati a spiegare nelle Aule
parlamentari quanto occorreva per modernizzare l'Italia.
Andavano dove portavano i binari ancora da
gettare, le stazioni da edificare, la complessa ricerca di soluzione dei tanti
conflitti tra amministrazioni comunali, circondariali, provinciali e interessi
d'ogni classe. Eletto deputato dai collegi di Taninges, Aosta e di Susa Germano
Sommeiller fu il meno longevo dei tre ingegneri ferroviari istoriati nella
ghiotta opera di Albera e Cavallo. Severino Grattoni rappresentò i collegi di
Varzi, Ceva e Voghera. Più giovane di tutti fu Luigi Ranco, che vagò dalla sua
nativa Asti a Francavilla e a Borgo San Dalmazzo, la terra di Sebastiano
Grandis, altro pioniere delle strade ferrate, per riprenderne la linea
Cuneo-Nizza. Dal suo maestro, Pietro Paleocapa, Ranco aveva appreso la non
facile arte di ottenere i finanziamenti per la costruzione di ferrovie e la
solidarietà della miriade di mediatori necessari per rimuovere le opposizioni
al tracciato man mano che esso prendeva corpo. Quando la strada ferrata, talora
modificando i progetti originari, arrivava in prossimità di uno dei tanti
paesini del percorso in programma ogni suo chilometro diveniva oggetto di
dispute animate giacché mutava dall'oggi al domani il valore delle aree
contigue. Perciò fu bersaglio di riserve e persino di accuse di collusione con
notabili che ottennero altrimenti inspiegabili deviazioni dal tracciato
originario. Ma tutto era possibile all'epoca. Anche illudere vaste cerchie di
elettori con progetti venturosi, come una ferrovia dalla Valle Maira a
Marsiglia, come narra l'anonimo volume Saluzzo. Un'antica capitale (pref. di
Gianni Rabbia, Roma, Newton & Compton, 2001), con tunnel e ponti
irrealizzabili e dal profitto irrilevante.
Giolitti postino campestre
Nel 1882 Ranco (1813-1887) chiuse un'epoca.
Lasciò il seggio deputatizio per il laticlavio senatoriale. E liberò il
collegio di Borgo San Dalmazzo a beneficio di Luigi Roux,
direttore-proprietario di “La Stampa” di Torino, bisognoso di un seggio per
meglio influire sull'opinione pubblica, come aveva fatto il suo “predecessore”
Vittorio Bersezio. Roux si candidò alla Camera per il Collegio di Cuneo I, in
una “terna” comprendente Sebastiano Turbiglio, massone e docente di storia
della filosofia alla “Sapienza” di Roma, e il quarantenne consigliere di Stato
Giovanni Giolitti, alle sue prime armi come politico e allocato a Cavour, un
comune all'epoca privo di collegamenti ferroviari e tramviari, talché a volte
andava a piedi da casa a Pinerolo per “prendere il treno” verso Torino e Roma.
Da “postino campestre”, come si definiva, nel lungo tragitto meditava sulle
impellenti necessità per “fare lo Stato” ed educare gli italiani al senso
civico. “Fatta l'Italia”, lunga e impervia, urgeva dotare di servizi minimi le
terre che non ne avevano da secoli. Quindi il governo dirottò le sue risorse
verso terre lontane dal Vecchio Piemonte. Paradossalmente la Francia divenne
più remota proprio quando il traforo del Fréjus giunse a compimento. Travolto
Napoleone III a Sedan a inizio settembre 1870, la “sorella latina” si mostrò
sempre più arcigna nei confronti dell'Italia, malgrado gli appelli dei
democratici (garibaldini, protoradicali...) alla Francia di Victor Hugo e Léon
Gambetta, sino alla guerra doganale del 1886, al tragico episodio di
Aigues-Mortes e alle contese per gli spazi coloniali, aperte con il
protettorato di Parigi sulla Tunisia e proseguite con l'aiuto della Francia a
Menelik per tarpare le ali all'avanzata dell'Italia dalla costa eritrea
all'interno del Continente Nero.
Le opere in stallo sul confine
italo-francese tali rimasero per decenni, a cominciare dalla ferrovia
Cuneo-Nizza, intrapresa sin dall'età di Cavour ma completata solo nel 1929, poi
interrotta per danni bellici, riattata ma sempre ansimante, riscoperta e
promessa a ogni turno elettorale, ma sempre più trascurata con malcelata ironia
nei confronti di quanti la proposero e ancora la promuovono come la
Berna-Marsiglia passando per Cuneo...
La storia della rete ferroviaria e in
particolare di un'opera come il traforo del Fréjus pone interrogativi di
qualche attualità. Anzitutto, come si formano i cittadini e come scelgono da
chi farsi rappresentare? In secondo luogo, quali sono le “vie di comunicazione”
oggi a loro disposizione? Un tempo pedibus calcantibus, a cavallo o in carrozza
essi percorrevano strade; poi salirono sui vagoni ferroviari. Vedevano quel che
facevano e bene o male controllavano i conduttori. Ma ora? Chi veglia sulle
nuove vie di comunicazioni, nell’incipiente età della misteriosa Intelligenza
Artificiale?
«A che tante facelle?», si domandava
angosciato Giacomo Leopardi quando in Italia le ferrovie mossero i primi…
binari.