NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 10 marzo 2021

Discorso commemorativo dell'on. prof. Alfredo Covelli nel centenario della nascita di Re Vittorio Emanuele III

Il discorso fu pronunciato a Roma, presso il cinema Capranichetta il 9 Novembre 1969,

Abbiamo già letto la presentazione di Carlo D'Amelio e la prolusione di Falcone Lucifero.

Lo pubblichiamo in pezzi per le notevoli lunghezza e densità degli argomenti trattati.



Eccellenze, Signore, Signori

Non posso commemorare la grandezza di Vittorio Emanuele III — grande per i suoi meriti, per il suo valore e per le sue sventure — senza partire da un ricordo personale ed umano. Devo risalire al tragico settembre del 1943. Fu in quei giorni che il Comandante della IV Zona Aerea, Generale di Squadra Ferruccio Ranza, di cui ero ufficiale d'ordinanza, fece visita al Re, a Brindisi, e fu in quella occasione che ebbi l'onore di essere presentato a Lui. Non dico ora quanto avessero sconvolto il giovane ufficiale che io ero a quel tempo i fatti accaduti fra il luglio e il settembre di quell'anno nero: il 25 luglio, l'arresto di Mussolini, la caduta del fascismo, il governo Badoglio, la popolarità del Re che raggiunse in quei giorni il suo apice, l'armistizio improvviso, la partenza per Pescara e il trasferimento del capo dello Stato e del Governo a Brindisi. Ma la visione del Re, di quest'uomo di aspetto fragile e sofferto, che portava sulle spalle un cinquantennio di regno, di glorie, di dolori, di sventure, di sacrifici personali e diuturni, e che pur combatteva disperatamente, in tragica solitudine, per la salvezza del suo Paese, dette al mio animo una scossa indimenticabile, una emozione indescrivibile.

Non ricordo che cosa il grande Re disse al giovane ufficiale: l'emozione, anzi, la commozione del momento era troppo grande. Ricordo, però, che parlava dei giovani, di quello che i giovani erano per lui, e delle speranze e della fiducia che lui stesso e la Patria dovevano riporre nei giovani. Parole profondamente commosse di un Re e di un Padre. Perché un Re quando è veramente tale, anche nel più largo senso costituzionale, è anche e soprattutto il padre del suo popolo. Voglio dire che l'esercizio di un Regno, quando è veramente grande, non prescinde mai dai cri­teri, dai sentimenti, dalle motivazioni della paternità.

Aggiungo che in quel momento memorabile della mia vita, io ascoltavo le parole di un padre: di un padre così avanzato negli anni, così fragile, così stanco, così bisognoso di riposo, e che pure, malgrado gli anni e la stanchezza, combatteva per i suoi figli, impegnando nella lotta tutto quello che legittimamente possedeva, la sua gloria, il suo prestigio, la sua stessa Casa, la sua stessa vita.

A conclusione di questo ricordo, dirò che la mia fede mo­narchica, anzi la mia milizia che durano da ormai più di un quarto di secolo, si iniziano in quell'episodio, in quell'incontro.

Non voglio dire con questo che la commemorazione, la cele­brazione del centenario della nascita di Vittorio Emanuele III debba svolgersi solo e prevalentemente sul piano sentimentale e patetico. La vita e la figura del grande Re sono un fatto po­litico: il più grande e il più vasto fatto politico della nostra storia unitaria; un fatto politico che dura, vivente e palpitante, oltre la morte in esilio. Perché il Re, con tutti i suoi ideali, che sono quelli della Patria, con tutti i suoi problemi, che sono quelli del popolo, è ancora vivente nel nostro cuore, nella nostra mente, nella nostra coscienza.

Il centenario che si intitola a Vittorio Emanuele III corri­sponde quasi matematicamente al centenario dell'unità e indi­pendenza dell'Italia. Vittorio Emanuele nasce nel 1869: Roma viene liberata e annessa nel 1870. E la istituzione di Roma Capi­tale d'Italia e la cessazione del potere temporale dei papi, sono il primo, concreto principio dell'unità italiana.

Vittorio Emanuele III ha regnato per quarantaquattro anni: uno dei più lunghi regni dei tempi moderni. Egli successe al padre assassinato a Monza nel 1900, ed ebbe in tragica e pesante eredità, un Paese sconvolto dalla discordia e dai prodromi di una atroce guerra civile. L'ultimo decennio del secolo scorso era stato per l'Italia quasi insurrezionale, e si può dire che lo stesso regicidio fosse stato una conseguenza diretta delle condi­zioni anarcoidi in cui versava il nostro Paese e del disfacimento morale e materiale della classe dirigente.

Sotto l'arco del regno di Vittorio Emanuele III, nello spazio di quarantaquattro anni, si svolge una serie di grandi avveni­menti, quelli stessi che hanno non solo caratterizzato il secolo ventesimo, ma che hanno modificato, trasformato e mutato le condizioni dell'Italia, dell'Europa, del mondo, di tutta la società umana: la guerra di Libia che dette l'ultimo colpo all'Impero Ottomano e un impulso dinamico ai giovani popoli della Peni­sola Balcanica; la prima guerra mondiale e l'intervento del­l'Italia e la liquidazione degli Imperi Centrali, e la liberazione di Trento e Trieste; la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre in Russia; la Rivoluzione Fascista, la conquista dell'Impero; l'in­tervento nella II guerra mondiale; la caduta del Fascismo, la disfatta, l'armistizio, la prima rinascita della Nazione. Questi i fatti che riempiono la prima metà di questo secolo. Troppi e troppo gravi per la vita di un solo Paese. Troppi, per la vita, sia pur lunga, di un solo Re.

Noi dobbiamo fissare la nostra attenzione, esercitare la no­stra riflessione, ed esprimere la nostra riconoscenza, su cinque momenti di questo cinquantennale Regno, tutti egualmente deci­sivi per il nostro Paese. Il primo, si colloca nel 1900, ed è l'av­vento al trono del giovane Re che «venne dal mare». Il secon­do è il Maggio Radioso. Il terzo è Caporetto o, diremo meglio, Peschiera. Il quarto è il 1922 con tutto quel che segue. Il quinto è il 25 luglio fino all'8 settembre e a Brindisi.

Negli ultimi anni del secolo scorso, la precipitosa ed irra­zionale liquidazione degli impegni africani e il brusco passag­gio, in politica interna, dal regime autoritario di Crispi alla più molle tolleranza di Di Rudinì, avevano gettato il Paese in un estremo disordine sociale. Gli scioperi, i tumulti, gli scontri di piazza con la forza pubblica divennero così numerosi e fre­quenti e sanguinosi, che si dovettero adottare misure di emer­genza. Al marchese Di Rudinì successe un generale di Corpo d'Armata, il Pelloux, che cominciò ad affrontare le agitazioni sociali con duro piglio militaresco. Milano ebbe un governatore militare, il Bava Beccaris. Difficilmente il più ottimista degli osservatori si sarebbe impegnato sulla durata della Monarchia in Italia. Negli ambienti parlamentari si faceva gran parlare di Costituente: lo Statuto Albertino pareva ormai inadeguato.

Ma, agli inizi dell'estate del 1900, un fatto nuovo venne a distrarre l'opinione pubblica; l'eccidio degli europei in Cina.

Molti marinai e molti missionari italiani avevano trovato la morte negli spaventosi massacri. Le potenze, sopraffatte in un primo momento, decisero di inviare immediatamente un corpo internazionale di spedizione. L'Italia, si può dire nelle ventiquat­tro ore, allestì e fece partire alcuni battaglioni, e si mise all'opera per preparare navi ed altre truppe.

L'impressione dell'opinione pubblica era enorme. Ogni gior­no i giornali avevano l'intera prima pagina occupata dalle no­tizie sulla Cina. Fatto impreveduto a così breve distanza dalle delusioni africane, la spedizione fu immediatamente popolare e venne accompagnata dalle generali simpatie, e persino dalla be­nedizione dei preti.

Dopo la partenza del primo convoglio, Umberto I e la Re­gina Margherita, ritornarono a Roma e poi a Monza, dove i So­vrani passavano gran parte dell'estate. Era il 29 luglio del 1900: i Sovrani avevano promesso di assistere alla manifestazione di trecento ginnasti delle società sportive. Faceva un gran caldo ed il Re non mise sulla pelle la piccola corazza d'acciaio che tutti i Re portavano in quel tempo di regicidi e di attentati, due dei quali avevano preso di mira proprio lui.

Alla manifestazione, il Re apparve di ottimo umore. Al ter­mine di essa, si congratulò col rappresentante di una società sportiva piemontese. Poi salì in carrozza. Sulla strada che me­nava alla Villa Reale, l'anarchico Bresci, arrivato appositamente dall'estero, gli sparò quattro colpi di rivoltella: tre lo colpirono, uno gli attraversò il cuore. Umberto I era morto.

L'attentatore venne sottratto al furore popolare. Erano le 22,30. Un mese prima a Pelloux era succeduto Saracco, uomo più sereno ed equilibrato. Il nuovo Re, Vittorio Emanuele III era assente: col suo piccolo yacht veleggiava in Egeo tra le Cicladi e le Sporadi. In sostanza, l'Italia era senza Re, un mese dopo la caduta di Pelloux che era stato battuto alla Camera per un disegno di legge restrittivo delle pubbliche libertà. Che cosa sa­rebbe accaduto in quelle circostanze? C'era effettivamente da aver paura. Invece, non accadde nulla di grave ed irreparabile. Anzi, secondo la intima logica del popolo italiano, le cose co­minciarono a raddrizzarsi. La crisi del regime unitario e di Casa Savoia era stata seguita con intima soddisfazione da larghi strati di scontenti: da coloro che rimpiangevano i Borboni, il Granduca, gli Asburgo-Lorena; dai cattolici ancora offesi dalla caduta del potere temporale; dai seguaci di Mazzini e di Cattaneo. Se si fosse adottato il suffragio universale ed ognuno avesse votato secondo il proprio sentimento, dopo Adua, il regime unitario sarebbe caduto sotto una larga maggioranza.

Senonché, la uccisione di Umberto I richiamò bruscamente e tragicamente gli Italiani al senso della loro responsabilità e dei loro interessi. La liquidazione si sarebbe fatta a vantaggio di chi? Non certo a profitto del passato. Essa avrebbe favorito la instaurazione di esperimenti radicali e socialisti che ripugna­vano alla maggioranza del Paese, che non era ancora sufficiente­mente maturo. Non mancava, nella pubblica opinione, la nota sentimentale. Dopo tutto, Umberto era stato davvero un Re buono. Che fosse un uomo di coraggio, nessuno lo metteva in dubbio: lo aveva provato sul campo di battaglia, e a Napoli, tra i colerosi.

Ci vollero due giorni per rintracciare la goletta di Vittorio Emanuele. Il nuovo Re, appena ebbe a disposizione un tele­grafo, — non aveva vicino uomini politici che lo consigliassero — telegrafò al Presidente del Consiglio per approvare il suo ope­rato e per concedergli la sua fiducia. Il primo suo pensiero, fu quello di rafforzare il Governo, che aveva, naturalmente, rice­vuto una terribile scossa.

Sbarcò a Reggio Calabria, attraversò la penisola in un treno dalle tendine abbassate, e arrivò finalmente alla presenza del Padre, che lo attendeva in un bagno di alcool. Senza un istante di esitazione, il giovane principe, che certa stampa legittimista francese aveva giudicato, pochi anni prima, incapace di regnare, lanciò al popolo italiano un proclama: «Al Re venerato e rim­pianto sopravvivono le istituzioni che Egli conservò lealmente e giunse a rendere incrollabili nei ventidue anni del Suo Regno.

«Queste istituzioni sacre a me per le tradizioni della mia Casa e per amore caldo di Italiano, protette con mano ferma ed energica, da ogni insidia o violenza da qualunque parte esse vengano, assicureranno, ne sono certo, la prosperità e la grandezza della Patria.       

«Così mi aiuti Iddio e mi consoli l'amore del mio popolo, perché io possa consacrare ogni mia cura di Re alla tutela della libertà e alla difesa della Monarchia, legate entrambe, con vin­colo indissolubile, ai supremi interessi della Patria».

Questo proclama, direi di prammatica in ogni successione ereditaria nelle monarchie costituzionali, era tutto di pugno e di pensiero del giovane Re, ed aveva un enorme significato poli­tico per l'Italia del tempo così vicina all'estrema rovina.

E' fuori discussione che il messaggio lanciato al Paese ri­spondesse esattamente all'idea che egli si era fatta sulla situa­zione politica. Se il proclama fosse stato redatto ed approvato dal Consiglio dei Ministri, sarebbe stato più che normale e costi­tuzionale. Viceversa, noi sappiamo per testimonianza degli stessi componenti del Ministero Saraceno che un proclama venne, sì, preparato dal ministro Gianturco, che si recò dal Re per sotto­porglielo. Senonché Vittorio Emanuele ringraziò il Ministro della sua fatica e gli porse il proclama che egli stesso aveva com­posto; i concetti in esso contenuti erano così chiari e corag­giosi, così aderenti alla realtà e agli interessi del Paese, che il Governo non poteva non essere d'accordo.

Intendiamoci. Gli ultimi dieci anni del secolo, culminati poi nel regicidio di Monza, si erano svolti attraverso gravissimi e sanguinosi travagli. Una corrente reazionaria c'era in Italia; ma non tale da giudicarsi come tutte le reazioni, come il partito dei retrivi e degli oscurantisti.

Gli esponenti più audaci e combattivi di questa «reazione», si chiamavano Ruggero Bonghi, Sonnino, Spaventa. Lasciamo da parte Crispi, che veniva invece dall'estrema sinistra e che può essere variamente giudicato. Nessuno, però, poteva mettere in dubbio il patriottismo di quei reazionari, né il loro sincero attac­camento alla causa dell'unità e ai miti del Risorgimento. Anzi, del Risorgimento e dell'unità essi erano i fanatici e alcuni di loro persino protagonisti.

Il dissidio politico più profondo verteva sul significato da dare allo Statuto Albertino. Secondo la lettera e lo spirito origi­nario, i ministri derivavano il loro potere dalla fiducia del Re, non da quella del Parlamento. La sinistra, invece, che aveva conquistato il potere nel 1876, chiedeva che il Re desse l'inve­stitura agli uomini designati dalla fiducia del Parlamento. Il dilemma era, dunque: monarchia parlamentare o regime par­lamentare? In realtà, conviene osservare per inciso che una monarchia costituzionale, come quella che auspicavano i «rea­zionari» dell'età umbertina, il Sonnino del Torniamo allo Sta­tuto, e il Bonghi dei Doveri del Principe, era possibile solo in teoria. Infatti, ci insegna la storia delle libertà parlamentari in­glesi, che basta una sola franchigia per mutare di fatto un regime costituzionale fermo, in un regime parlamentare progressivo. Basta che il Re acconsenta a privarsi del diritto di imporre tri­buti. Se egli non può imporre tributi senza il libero consenso di coloro che dovranno pagarli, i contribuenti hanno il mezzo per conseguire una dopo l'altra, tutte le libertà. Se la borsa rimane saldamente nelle mani dei cittadini, il Re dovrà neces­sariamente venire a patto con i suoi sudditi e delegare ai loro rappresentanti, una dopo l'altra, tutte o quasi tutte le sue pre­rogative.



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