Il discorso fu pronunciato a Roma, presso il cinema Capranichetta il 9 Novembre 1969,
Abbiamo già letto la presentazione di Carlo D'Amelio e la prolusione di Falcone Lucifero.
Lo pubblichiamo in pezzi per le notevoli lunghezza e densità degli argomenti trattati.
Eccellenze,
Signore, Signori
Non
posso commemorare la grandezza di Vittorio Emanuele III — grande per i suoi
meriti, per il suo valore e per le sue sventure — senza partire da un ricordo personale
ed umano. Devo risalire al tragico settembre del 1943. Fu in quei giorni che il
Comandante della IV Zona Aerea, Generale di Squadra Ferruccio Ranza, di cui ero
ufficiale d'ordinanza, fece visita al Re, a Brindisi, e fu in quella occasione
che ebbi l'onore di essere presentato a Lui. Non dico ora quanto avessero
sconvolto il giovane ufficiale che io ero a quel tempo i fatti accaduti fra il
luglio e il settembre di quell'anno nero: il 25 luglio, l'arresto di Mussolini,
la caduta del fascismo, il governo Badoglio, la popolarità del Re che raggiunse
in quei giorni il suo apice, l'armistizio improvviso, la partenza per Pescara e
il trasferimento del capo dello Stato e del Governo a Brindisi. Ma la visione
del Re, di quest'uomo di aspetto fragile e sofferto, che portava sulle spalle
un cinquantennio di regno, di glorie, di dolori, di sventure, di sacrifici
personali e diuturni, e che pur combatteva disperatamente, in tragica
solitudine, per la salvezza del suo Paese, dette al mio animo una scossa indimenticabile,
una emozione indescrivibile.
Non
ricordo che cosa il grande Re disse al giovane ufficiale: l'emozione, anzi, la
commozione del momento era troppo grande. Ricordo, però, che parlava dei
giovani, di quello che i giovani erano per lui, e delle speranze e della
fiducia che lui stesso e la Patria dovevano riporre nei giovani. Parole
profondamente commosse di un Re e di un Padre. Perché un Re quando è veramente
tale, anche nel più largo senso costituzionale, è anche e soprattutto il padre
del suo popolo. Voglio dire che l'esercizio di un Regno, quando è veramente
grande, non prescinde mai dai criteri, dai sentimenti, dalle motivazioni della
paternità.
Aggiungo che in quel momento memorabile della
mia vita, io ascoltavo le parole di un padre: di un padre così avanzato negli
anni, così fragile, così stanco, così bisognoso di riposo, e che pure, malgrado
gli anni e la stanchezza, combatteva per i suoi figli, impegnando nella lotta
tutto quello che legittimamente possedeva, la sua gloria, il suo prestigio, la
sua stessa Casa, la sua stessa vita.
A conclusione di questo ricordo, dirò che la
mia fede monarchica, anzi la mia milizia che durano da ormai più di un quarto
di secolo, si iniziano in quell'episodio, in quell'incontro.
Non voglio dire con questo
che la commemorazione, la celebrazione del centenario della nascita di
Vittorio Emanuele III debba svolgersi solo e prevalentemente sul piano
sentimentale e patetico. La vita e la figura del grande Re sono un fatto politico:
il più grande e il più vasto fatto politico della nostra storia unitaria; un
fatto politico che dura, vivente e palpitante, oltre la morte in esilio. Perché
il Re, con tutti i suoi ideali, che sono quelli della Patria, con tutti i suoi
problemi, che sono quelli del popolo, è ancora vivente nel nostro cuore, nella
nostra mente, nella nostra coscienza.
Il centenario che si intitola a Vittorio
Emanuele III corrisponde quasi matematicamente al centenario dell'unità e indipendenza
dell'Italia. Vittorio Emanuele nasce nel 1869: Roma viene liberata e annessa
nel 1870. E la istituzione di Roma Capitale d'Italia e la cessazione del
potere temporale dei papi, sono il primo, concreto principio dell'unità
italiana.
Vittorio Emanuele III ha regnato per
quarantaquattro anni: uno dei più lunghi regni dei tempi moderni. Egli successe
al padre assassinato a Monza nel 1900, ed ebbe in tragica e pesante eredità, un
Paese sconvolto dalla discordia e dai prodromi di una atroce guerra civile.
L'ultimo decennio del secolo scorso era stato per l'Italia quasi
insurrezionale, e si può dire che lo stesso regicidio fosse stato una
conseguenza diretta delle condizioni anarcoidi in cui versava il nostro Paese
e del disfacimento morale e materiale della classe dirigente.
Sotto l'arco del regno di
Vittorio Emanuele III, nello spazio di quarantaquattro anni, si svolge una
serie di grandi avvenimenti, quelli stessi che hanno non solo caratterizzato
il secolo ventesimo, ma che hanno modificato, trasformato e mutato le
condizioni dell'Italia, dell'Europa, del mondo, di tutta la società umana: la
guerra di Libia che dette l'ultimo colpo all'Impero Ottomano e un impulso
dinamico ai giovani popoli della Penisola Balcanica; la prima guerra mondiale
e l'intervento dell'Italia e la liquidazione degli Imperi Centrali, e la
liberazione di Trento e Trieste; la rivoluzione di febbraio e quella di ottobre
in Russia; la Rivoluzione Fascista, la conquista dell'Impero; l'intervento nella
II guerra mondiale; la caduta del Fascismo, la disfatta, l'armistizio, la prima
rinascita della Nazione. Questi i fatti che riempiono la prima metà di questo
secolo. Troppi e troppo gravi per la vita di un solo Paese. Troppi, per la
vita, sia pur lunga, di un solo Re.
Noi dobbiamo fissare la nostra attenzione,
esercitare la nostra riflessione, ed esprimere la nostra riconoscenza, su
cinque momenti di questo cinquantennale Regno, tutti egualmente decisivi per
il nostro Paese. Il primo, si colloca nel 1900, ed è l'avvento al trono del
giovane Re che «venne dal mare». Il secondo è il Maggio Radioso. Il terzo è
Caporetto o, diremo meglio, Peschiera. Il quarto è il 1922 con tutto quel che
segue. Il quinto è il 25 luglio fino all'8 settembre e a Brindisi.
Negli ultimi anni del
secolo scorso, la precipitosa ed irrazionale liquidazione degli impegni
africani e il brusco passaggio, in politica interna, dal regime autoritario di
Crispi alla più molle tolleranza di Di Rudinì, avevano gettato il Paese in un estremo
disordine sociale. Gli scioperi, i tumulti, gli scontri di piazza con la forza
pubblica divennero così numerosi e frequenti e sanguinosi, che si dovettero
adottare misure di emergenza. Al marchese Di Rudinì successe un generale di
Corpo d'Armata, il Pelloux, che cominciò ad affrontare le agitazioni sociali
con duro piglio militaresco. Milano ebbe un governatore militare, il Bava
Beccaris. Difficilmente il più ottimista degli osservatori si sarebbe impegnato
sulla durata della Monarchia in Italia. Negli ambienti parlamentari si faceva
gran parlare di Costituente: lo Statuto Albertino pareva ormai inadeguato.
Ma,
agli inizi dell'estate del 1900, un fatto nuovo venne a distrarre l'opinione
pubblica; l'eccidio degli europei in Cina.
Molti
marinai e molti missionari italiani avevano trovato la morte negli spaventosi
massacri. Le potenze, sopraffatte in un primo momento, decisero di inviare
immediatamente un corpo internazionale di spedizione. L'Italia, si può dire
nelle ventiquattro ore, allestì e fece partire alcuni battaglioni, e si mise
all'opera per preparare navi ed altre truppe.
L'impressione
dell'opinione pubblica era enorme. Ogni giorno i giornali avevano l'intera
prima pagina occupata dalle notizie sulla Cina. Fatto impreveduto a così breve
distanza dalle delusioni africane, la spedizione fu immediatamente popolare e
venne accompagnata dalle generali simpatie, e persino dalla benedizione dei
preti.
Dopo
la partenza del primo convoglio, Umberto I e la Regina Margherita, ritornarono
a Roma e poi a Monza, dove i Sovrani passavano gran parte dell'estate. Era il
29 luglio del 1900: i Sovrani avevano promesso di assistere alla manifestazione
di trecento ginnasti delle società sportive. Faceva un gran caldo ed il Re non
mise sulla pelle la piccola corazza d'acciaio che tutti i Re portavano in quel
tempo di regicidi e di attentati, due dei quali avevano preso di mira proprio
lui.
Alla
manifestazione, il Re apparve di ottimo umore. Al termine di essa, si
congratulò col rappresentante di una società sportiva piemontese. Poi salì in
carrozza. Sulla strada che menava alla Villa Reale, l'anarchico Bresci,
arrivato appositamente dall'estero, gli sparò quattro colpi di rivoltella: tre
lo colpirono, uno gli attraversò il cuore. Umberto I era morto.
L'attentatore venne sottratto al furore popolare. Erano
le 22,30. Un mese prima a Pelloux era succeduto Saracco, uomo più sereno ed
equilibrato. Il nuovo Re, Vittorio Emanuele III era assente: col suo piccolo yacht
veleggiava in Egeo tra le Cicladi e le Sporadi. In sostanza, l'Italia era
senza Re, un mese dopo la caduta di Pelloux che era stato battuto alla Camera
per un disegno di legge restrittivo delle pubbliche libertà. Che cosa sarebbe
accaduto in quelle circostanze? C'era effettivamente da aver paura. Invece, non
accadde nulla di grave ed irreparabile. Anzi, secondo la intima logica del
popolo italiano, le cose cominciarono a raddrizzarsi. La crisi del regime
unitario e di Casa Savoia era stata seguita con intima soddisfazione da larghi
strati di scontenti: da coloro che rimpiangevano i Borboni, il Granduca, gli
Asburgo-Lorena; dai cattolici ancora offesi dalla caduta del potere temporale;
dai seguaci di Mazzini e di Cattaneo. Se si fosse adottato il suffragio
universale ed ognuno avesse votato secondo il proprio sentimento, dopo Adua, il
regime unitario sarebbe caduto sotto una larga maggioranza.
Senonché,
la uccisione di Umberto I richiamò bruscamente e tragicamente gli Italiani al
senso della loro responsabilità e dei loro interessi. La liquidazione si sarebbe
fatta a vantaggio di chi? Non certo a profitto del passato. Essa avrebbe
favorito la instaurazione di esperimenti radicali e socialisti che ripugnavano
alla maggioranza del Paese, che non era ancora sufficientemente maturo. Non
mancava, nella pubblica opinione, la nota sentimentale. Dopo tutto, Umberto era
stato davvero un Re buono. Che fosse un uomo di coraggio, nessuno lo metteva in
dubbio: lo aveva provato sul campo di battaglia, e a Napoli, tra i colerosi.
Ci
vollero due giorni per rintracciare la goletta di Vittorio Emanuele. Il nuovo
Re, appena ebbe a disposizione un telegrafo, — non aveva vicino uomini
politici che lo consigliassero — telegrafò al Presidente del Consiglio per
approvare il suo operato e per concedergli la sua fiducia. Il primo suo
pensiero, fu quello di rafforzare il Governo, che aveva, naturalmente, ricevuto
una terribile scossa.
Sbarcò
a Reggio Calabria, attraversò la penisola in un treno dalle tendine abbassate,
e arrivò finalmente alla presenza del Padre, che lo attendeva in un bagno di
alcool. Senza un istante di esitazione, il giovane principe, che certa stampa
legittimista francese aveva giudicato, pochi anni prima, incapace di regnare,
lanciò al popolo italiano un proclama: «Al Re venerato e rimpianto
sopravvivono le istituzioni che Egli conservò lealmente e giunse a rendere
incrollabili nei ventidue anni del Suo Regno.
«Queste
istituzioni sacre a me per le tradizioni della mia Casa e per amore caldo di
Italiano, protette con mano ferma ed energica, da ogni insidia o violenza da
qualunque parte esse vengano, assicureranno, ne sono certo, la prosperità e la
grandezza della Patria.
«Così
mi aiuti Iddio e mi consoli l'amore del mio popolo, perché io possa consacrare
ogni mia cura di Re alla tutela della libertà e alla difesa della Monarchia,
legate entrambe, con vincolo indissolubile, ai supremi interessi della
Patria».
Questo proclama, direi di prammatica in ogni
successione ereditaria nelle monarchie costituzionali, era tutto di pugno e di
pensiero del giovane Re, ed aveva un enorme significato politico per l'Italia
del tempo così vicina all'estrema rovina.
E' fuori discussione che
il messaggio lanciato al Paese rispondesse esattamente all'idea che egli si
era fatta sulla situazione politica. Se il proclama fosse stato redatto ed
approvato dal Consiglio dei Ministri, sarebbe stato più che normale e costituzionale.
Viceversa, noi sappiamo per testimonianza degli stessi componenti del Ministero
Saraceno che un proclama venne, sì, preparato dal ministro Gianturco, che si
recò dal Re per sottoporglielo. Senonché Vittorio Emanuele ringraziò il
Ministro della sua fatica e gli porse il proclama che egli stesso aveva composto;
i concetti in esso contenuti erano così chiari e coraggiosi, così aderenti
alla realtà e agli interessi del Paese, che il Governo non poteva non essere
d'accordo.
Intendiamoci. Gli ultimi dieci anni del secolo,
culminati poi nel regicidio di Monza, si erano svolti attraverso gravissimi e
sanguinosi travagli. Una corrente reazionaria c'era in Italia; ma non tale da
giudicarsi come tutte le reazioni, come il partito dei retrivi e degli
oscurantisti.
Gli esponenti più audaci e combattivi di questa
«reazione», si chiamavano Ruggero Bonghi, Sonnino, Spaventa. Lasciamo da parte
Crispi, che veniva invece dall'estrema sinistra e che può essere variamente
giudicato. Nessuno, però, poteva mettere in dubbio il patriottismo di quei
reazionari, né il loro sincero attaccamento alla causa dell'unità e ai miti
del Risorgimento. Anzi, del Risorgimento e dell'unità essi erano i fanatici e
alcuni di loro persino protagonisti.
Il
dissidio politico più profondo verteva sul significato da dare allo Statuto
Albertino. Secondo la lettera e lo spirito originario, i ministri derivavano
il loro potere dalla fiducia del Re, non da quella del Parlamento. La sinistra,
invece, che aveva conquistato il potere nel 1876, chiedeva che il Re desse
l'investitura agli uomini designati dalla fiducia del Parlamento. Il dilemma
era, dunque: monarchia parlamentare o regime parlamentare? In realtà, conviene
osservare per inciso che una monarchia
costituzionale, come quella che auspicavano i «reazionari» dell'età umbertina,
il Sonnino del Torniamo allo Statuto, e il Bonghi dei Doveri del
Principe, era possibile solo in teoria. Infatti, ci insegna la storia delle
libertà parlamentari inglesi, che basta una sola franchigia per mutare di
fatto un regime costituzionale fermo, in un regime parlamentare progressivo.
Basta che il Re acconsenta a privarsi del diritto di imporre tributi. Se egli
non può imporre tributi senza il libero consenso di coloro che dovranno
pagarli, i contribuenti hanno il mezzo per conseguire una dopo l'altra, tutte
le libertà. Se la borsa rimane saldamente nelle mani dei cittadini, il Re dovrà
necessariamente venire a patto con i suoi sudditi e delegare ai loro
rappresentanti, una dopo l'altra, tutte o quasi tutte le sue prerogative.
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