NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 27 dicembre 2023

PADRE LUIGI PIETROBONO Sch. P. NEL CLX DELLA NASCITA


(1863-1960)

di Gianluigi Chiaserotti*

 

Desidero ricordare il padre Luigi Pietrobono, insigne dantista, amico, come vedremo del Pascoli, ma soprattutto un sacerdote dell’Ordine dei Chierici Regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie”, gli Scolopi (deceduto a Roma il 27 febbraio 1960).

Luigi Pietrobono nacque in Alatri il 26 dicembre 1863, centosessanta anni or sono, figlio di Francesco, valente artigiano, che, in gioventù aveva preso parte alla difesa della Repubblica Romana, e di Filippa Merluzzi, tipica donna ciociara, buona, affettuosa e timorata di Dio.

Si indirizzò immediatamente, entrando a far parte dell’ordine degli Scolopi, verso il calasanziano ideale di sacerdote e di educatore, maturandolo con sempre più consapevole coscienza vocazionale dal collegio, all’università, alla scuola.

Si laurea in lettere nel 1887, in filosofia nel 1889, e, nel Nobile Collegio Nazareno di Roma, è docente già dal 1887 al 1905, quindi preside e docente, una prima volta, dal 1905 al 1906, e, una seconda volta, dal 1906 al 1936, quindi anche Rettore, dal 1906 al 1910, e dal 1915 al 1918. 

Padre Luigi non sarà un cattivo sacerdote; certo non profumerà di ascetismo ma si metterà al servizio della Chiesa e diverrà un coraggioso combattente della Fede in tempo di acceso anticlericalismo massonico.

Amava ripetere: «[…] sono un cattolico, ma liberale: e questa è la mia colpa, che in certe sfere non trova perdono; il guaio è che non ne sono pentito.».

La carriera che il Nostro iniziò giovanissimo nel Collegio Nazareno, e non fu assolutamente la conseguenza di promozioni all’interno dell’Ordine perché Scolopio, ma al riconoscimento delle sue capacità, della sua intelligenza, della sua non comune cultura.

Al Nazareno il Pietrobono dedicò i suoi anni migliori e l’unica sua ambizione fu di vedere l’Istituto fiorire in maniera corrispondente alla sua secolare tradizione.

Non sempre, però, codesto suo desiderio poté essere soddisfatto, in quanto conflitti di competenza, ostracismi, ma soprattutto invidie tra confratelli, interventi dell’autorità ecclesiastica, ritiro di religiosi dal Collegio, costrinsero il Nostro a lasciare il Nazareno per accettare il rettorato del Collegio “Conti Gentili” di Alatri, per poi tornare a Roma (gli scolopi tennero codesto collegio dal 1729 al 1971).

Hanno inizio qui i suoi studi su Dante che porterà avanti lungo sessanta anni di attività, per tutta una vita e che possono essere datati già dalla sua tesi di laurea su “La teoria dell’amore in Dante Alighieri”, che fu immediatamente pubblicata (1888) sulla rivista “La filosofia nelle scuole italiane”, rivista fondata da Terenzio Mamiani della Rovere (1799-1885), filosofo ed uomo politico. 

L’indagine di Pietrobono viene sostenuta, più che da altre tesi, dalle suggestive letture di Giovanni Pascoli (1855-1912) (ex alunno degli Scolopi nel Collegio di Urbino) e dal vasto riesame dell’opera di Dante che queste avevano avviato, mostrando che il poema doveva essere inteso come il dramma della redenzione umana, cosicché, solo comprendendone tutto il profondo ed unitario pensiero che lo sostanzia, se ne poteva attingere l’arte.

Pietrobono, superando i residui limiti estetici del Pascoli e ponendosi in alternativa polemica, sia con le indagini sul lirismo di Dante, portate avanti dall’estetica, sia con quelle, altrettanto disgregatrici dell’unità morale dell’opera, perseguite dalla critica positivistica, costruisce sul vaglio dell’intera opera di Dante, un’organica visione strutturale del poema.

La “Commedia” è propriamente per il Pietrobono la profezia del Veltro: messaggero di speranza al mondo traviato e disorientato.

Egli infatti interpretò l’unica profezia “ante eventum” della Divina Commedia come quasi che il Veltro fosse Gesù.

Il Veltro è necessario perché gli uomini medesimi possano essere felici; essi dalla c. d. “Donazione di Costantino” non hanno più potuto godere non solo della pace dello spirito, ma neppure di quella terrena.

La colpa di Costantino [Flavio Valerio Aurelio Claudio (285 ca.-337)] è pari a quella di Adamo.

Dante diviene così l’annunciatore di un disegno divino, e la Commedia il poema del dramma umano, meditato nella sua genesi, osservato nel suo storico processo, orientato nella sua finalità di riscatto e di redenzione.

Al riguardo di Costantino mi piace ricordarVi che il letterato umanista Lorenzo Valla (1405 o 1407-1457) dimostrò (1440) la falsità del documento sulla c. d. “Donazione di Costantino”, il quale fu spesso utilizzato per giustificare la nascita del potere temporale dei papi. Esso è un documento apocrifo dei secoli VIII e IX in cui si narra la conversione dell’imperatore Costantino e come questi, per gratitudine verso il papa San Silvestro I (314-335), avrebbe concesso al pontefice il potere temporale su Roma e l’Italia ed il primato sulle altre chiese.

Luigi Pietrobono si qualifica, in tal modo, come “il migliore e più avveduto seguace del Pascoli” [Michele Barbi (1867-1941)] anche se, così critico ed in totale indipendenza, dal Pascoli medesimo si distacca nella concretizzazione analitica di un’identica linea di interpretazione esegetica.

Tale era appunto una definizione del Barbi. Invero il pascolismo del Pietrobono si riduce alla convergenza più che d’idee, di principi base (come la ricerca di simmetrie, l’affermazione di una architettura unitaria della “Commedia” e della simbologia del Canto I dell’Inferno, la limitata applicazione delle tre disposizioni aristoteliche, il riconoscimento della funzione parallela della Chiesa e dell’Impero alla fine della redenzione). Per tutto codesto il Nostro è un critico del tutto indipendente, ed offre soluzioni lontane dalle pascoliane, come la grande idea che la “Commedia” non rappresenta affatto l’abbandono della vita attiva per quella contemplativa.

Ed ora un inciso, che poi potrebbe essere una curiosità.

Padre Luigi Pietrobono, in codesta interpretazione esegetica del capolavoro dantesco fece anche sua la “lectura Dantis”, analizzata essenzialmente dal punto di vista astronomico, ma anche poetico, del suo confratello fiorentino Giovanni Antonelli (1818-1872), fisico, astronomo, ingegnere, creatore di strade ferrate, che ho ampiamente ricordato su questa rivista nel mese di gennaio.

L’Alighieri, infatti, esercitava nell’Antonelli un grande fascino, ed egli ne intrecciava lo studio con quello del cielo.

Nel corso del 1865, sesto centenario della nascita del Sommo Poeta, venne dato alle stampe uno studio al quale vi collaborò, e con successo, anche Giovanni Antonelli.

Egli pubblicò un’attenta e scrupolosa interpretazione sulla “vexata quaestio” delle prime terzine del Canto IX del Purgatorio, e precisamente: «La concubina di Titone antico/già s’imbiancava al balco d’oriente,/fuor delle braccia del suo dolce amico; […]».

Molte furono le interpretazioni di codesti versi. Padre Antonelli dimostrò che Dante, proponendosi di indicare l’ora nella quale fu preso dal sonno al termine della prima giornata in Purgatorio, intese descrivere l’alba che precede il sorgere della Luna e non l’aurora solare, come molti volevano. E queste interpretazioni antonelliane [anche perché preferì darne delle altre come quella che Titone è Titano, Titan, quindi il Sole. La sua concubina è Teti, (“Tηθύς, nella lingua greca, moglie di Oceano, l’onda marina…..)] furono appunto riprese dal Nostro nel suo commento alla Divina Commedia, ma anche da Niccolò Tommaseo (1802-1874) e da un altro famoso dantista, lo svizzero Giovanni Andrea Scartazzini (1837-1901).

Con il Pascoli, che Luigi Pietrobono aveva conosciuto al Collegio Nazareno nel 1897 quale Commissario Governativo per gli esami di Licenza Ginnasiale e Liceale, scambia costantemente i risultati della propria indagine ed alla sua poesia, per l’affettuosa amicizia che lo lega all’uomo, dedica una vigile attenzione critica, seguendola, sollecitandola, ed a volte, oltre che sostenendola, e con passione nonchè coraggio, difendendola.

È del 1907, infatti la lettera aperta di padre Luigi al filosofo Benedetto Croce (1866-1952) “Sulla poesia di Giovanni Pascoli” pubblicata da “Il giornale d’Italia”, in cui, dissentendo apertamente con il riduttivo giudizio espresso da questi sul poeta romagnolo, illumina i caratteri specifici di questa nuova poesia, ricevendo dal Croce, pur nel fondamentale dissenso critico, uno spassionato elogio quale «colto e fine ingegno, guida ben informata, esperta e affettuosa».

Esce, nel 1918, presso l’editore Zanichelli Bologna, un’antologia commentata di cinquantasei poesie di Pascoli che, successivamente, accresciuta e riveduta, resta tutt’oggi un riferimento d’obbligo.

Nella poesia di Pascoli Pietrobono sa cogliere, attraverso la sottile elegia del sentimento del mondo, l’angoscia dell’uomo moderno volto umilmente alla conoscenza del mistero che è dietro le cose, per riconquistare, ed in questa ricerca è la tensione che accomuna i due uomini, il trascendente significato dell’esistenza.

Il suo costante fervore intellettuale orienta lo Scolopio intanto verso un fedele rapporto con la romana Accademia dell’Arcadia di cui, con il nome pastorale di Edelio Echeo, lo troviamo già socio nel 1894.

Nel 1924 fa parte di una ristretta commissione per la riforma dell’Arcadia e, partecipando da quel momento al governo dell’Accademia, ne rafforza l’impegno reinserendola, anche con la propria attività, nella viva dialettica della cultura italiana.

Dal 1926 vi inizia i suoi corsi sulla Divina Commedia, su Pascoli, Leopardi e Manzoni fino a che, nel 1940, nominato dal Ministero dell’Educazione nazionale, ne diviene Custode generale.

Gli anni della sua custodia, durata fino al 1953, anno in cui, ormai stanco (aveva raggiunto i novant’anni), rassegna le proprie dimissioni, sono fervidi di lavoro ed egli vi profonde tutte le sue energie di uomo di cultura e di educatore.

È quest’ultima soprattutto, «avendo trascorsa la maggior e miglior parte della vita nella scuola», la missione più intensamente avvertita da Luigi Pietrobono in tutta la sua vita e che egli sostiene, fino alla fine, con lucida fede e mirabile saggezza.

In essa sa cogliere i valori stessi dell’insegnamento evangelico e con il Vangelo medita sul significato ultimo della storia umana esponendo il messaggio, sempre nuovo perché eterno, che si trova racchiuso in quelle pagine, vagliate nell’intimo della coscienza e avvalorato da una risentita intelligenza: «quel che preme si è di entrare nello spirito di Gesù e farlo vivere nelle nostre azioni perché nessuno ha letto più addentro di Lui nei cuori umani e ne ha interpretati i bisogni».

E’ del 1925 “La morale del Vangelo”, del 1943 “Dolore e Amore”, del 1949 “Col nostro maestro Gesù”: è l’autentica parola (precisamente: “verbo”) della carità e della libertà che si coglie in queste pagine, ideali sempre perseguiti dalla sua indomita coscienza di cristiano e  nei quali può essere sintetizzato il significato stesso della sua vita e della sua attività: «quel che duole maggiormente si è che i popoli cristiani non abbiano ancora acquistato chiara coscienza della inviolabilità della persona umana e si lascino miseramente tiranneggiare: ignorano che al mondo non  vi sono né re, né imperatori, né presidenti, né ministri che abbiano diritto di far violenza ad uno spirito immortale».

Contemporaneamente all’Arcadia ed agli impegni scolastici, padre Luigi era presente (e sin dal 1918) anche alla c. d. “Fondazione Besso” del Largo Argentina in Roma [eretta a nome di Marco Besso (1843-1920) il finaziere e filantropo triestino di già presidente delle Assicurazioni Generali] in cui il suo lavoro non consisteva soltanto nel tenere lezioni su Dante e le di lui opere, ma anche nel consigliare e suggerire al Besso medesimo iniziative culturali ed a preparare programmi.

Le lezioni del Pietrobono iniziarono nel gennaio 1923 per concludersi nel giugno 1949.

Nel 1936, padre Luigi Pietrobono lascia la presidenza e l’insegnamento, e due anni dopo il Nazareno.

Non fu un auspicato arrivederci, e neppure un voluto addio, ma un sofferto e non desiderato abbandono.

Dal Nazareno il suo preside uscì in silenzio, non volle assumere posizioni ridicole o esprimere oltraggiosi pronunciamenti.

Padre Luigi si limitò a scrivere una lettera al presidente della Commissione Amministratrice della Scuola per lamentarsi che «[…] nessuno sia venuto a stringermi la mano o a dirmi arrivederci, ad eccezione dei bidelli che mi guardavano muti con gli occhi pieni di lacrime».

Si ritirò a vivere nella casa della sorella alla via Flaminia in Roma.

Al Nazareno ci tornò altre volte, tra cui il 30 maggio 1939 in cui fu scoperta una lapide dedicata alla prima Regina d’Italia, Margherita di Savoia (1851-1926) che venne posta nella parete di sfondo dell’Aula Magna, la quale prese il nome dalla stessa, e ciò in ricordo del suo augusto contributo che dette al Pietrobono per organizzare le prime “lecture Dantis” a Roma.

Certamente la scuola fu per Padre Luigi una scelta di vita, speranza e rifugio nei momenti difficili, quando la realtà esterna lo tediava con le sue brutture e con le sue cattiverie; la scuola fu la vocazione e la missione di un’intera esistenza.

Una sua lapidaria frase riassume quale posto avesse occupato l’attività nella quale aveva profuso la bontà del di lui cuore e quella immensa lucidità dell’intelligenza: «[…] cinquantadue anni d’insegnamento senza interruzione è l’opera di cui mi compiaccio sopra ogni cosa. La scuola mi ha confortato e consolato. Se tornassi a vivere, comincerei da capo.».

Il Re Umberto II (1904-1983), tramite il suo Ministro Falcone Lucifero (1898-1997) faceva pervenire il 29 dicembre 1958 i «fervidi auguri per il novantacinquesimo compleanno» dello Scolopio, che così rispose: «Eccellenza, nella mia tarda età, con la vita modesta che meno, quasi sempre raccolto nella solitudine del mio studio, chi avrebbe potuto mai immaginare che avrei ricevuto un attestato di così preziosa benevolenza di Sua Maestà il Re? [....] Non Le so dire di quali e quanti sentimenti mi sia sentito invadere il cuore e quali parole di ammirazione e ringraziamento mi abbia messo sulle labbra.».

Sicuramente una risposta, come sempre, toccante e ricca di umiltà.

Il Pietrobono, ormai stanco, scrisse, già con mano tremolante, la seguente lirica:

Cantare di su il vecchio campanile/Ho udito il solitario. Primavera/Non più caro augellin, non più aprile/Ride nei campi. Scesa è giù la sera/Dell’anno e della vita. Quale gentile/Vision ti tenta a salutar quel ch’era?/Ingiallano le foglie, e una sottile/Nebbia autunnal vela del sol la spera./E poco accadrà che tutti scheletriti/Saranno i rami, scenderà la neve/E freddo sopra noi starà l’inverno./Anche tu, vecchio cor, cantare hai uditi/Gli antichi spirti in voce arguta e lieve/Illusione, preludio a un sogno lieve.” 

È senza dubbio la visione di un’esistenza che si avvia a concludersi, di un fuoco che si sta lentamente spegnendo. Anche il padre Luigi, come il Leopardi, avrà sentito cantare il “caro augellin” della torre campanaria e la primavera esultare nei campi verdi della sua Alatri.

È scesa, però la sera: non quella dell’anno, ma quella della vita. La natura tutta partecipe a codesto lento tramonto con le foglie ingiallite degli alberi e la nebbiolina leggera che vela la “spera del sole”. Tutto annunzia che presto cadrà la neve e l’inverno si poserà sulle vite stanche degli uomini.

Certamente il Pietrobono nel rileggersi avrà benevolmente sorriso per il suo “folle volo” nei cieli della poesia e, in cuor suo, avrà detto che di Calliope è più facile essere ammiratore e critico che alunno.

Quel cuore, ormai “vecchio”, come egli medesimo ha scritto, cessa di battere, a novantasei anni e due mesi, il 27 febbraio 1960.

 

Bibliografia

 

Pasquale Vannucci “Il Nazareno MDCXXX MCMXXX”, Roma 1930;

Tullio Santelli, “Tre Scolopi illustri”, Roma MCMXCVIII

 

*Storiografo

lunedì 25 dicembre 2023

La Regina Elena, racconto di Natale

 di Emilio del Bel Belluz

Lo scrittore che ho sempre molto amato, Henry David Thoreau  scrisse “La bontà è l’unico investimento che non fallisce mai”. Sono queste le parole che ho nel cuore nel momento in cui mi appresto a scrivere un racconto sulla donna che fece importante e bella la sua vita con l’amore verso il prossimo: la Regina Elena. 

In questi giorni d’autunno in cui le foglie cadono formando un tappeto multicolore e lasciando gli alberi spogli, mi vengono in mente le riflessioni che un caro amico mi ha scritto: “Quando furono create le quattro stagioni, l’autunno protestò dicendo: “Non mi pare giusto: mentre alle altre stagioni hai dato le cose meravigliose come il sole in estate o i campi in fiore in primavera e la neve candida e soffice in inverno, a me hai dato solo nebbie e pioggia”. 

A quel punto il Creatore disse: “Hai ragione ma non preoccuparti. A te darò i colori più belli “. La stagione dell’autunno è stata quella che ha visto partire per il lungo ed ultimo viaggio una donna che era stata la mamma di tutti gli italiani: la Regina Elena. Dalla finestra della stanza dove si trovava ricoverata, chiese di poter guardare il cielo per l’ultima volta, poi chiudendo gli occhi pronunciò le sue ultime parole che erano rivolte ai suoi figli e alla amata Italia. Il 28 novembre 1952 si spense a Montpellier. È una data che non sarà mai dimenticata da coloro che l’hanno conosciuta ed amata. 

La Regina d’Italia andò in esilio con il consorte, Re Vittorio Emanuele III nel 1946, ospiti del Re Faruk, e dopo essere rimasta vedova nel 1947 si recò dopo alcuni anni a Montpellier, in Francia, con la malattia che già si era impossessata di Lei. La sua forte tempra non si arrese al male, e volle combatterlo tenacemente.  Nel tempo in cui visse in Francia, in compagnia della sua fedele cameriera, Rosa Gallotti, volle continuare a fare quello che nella sua vita aveva sempre svolto: aiutare gli ammalati, i diseredati, gli ultimi e gli orfani. Era una donna molto pragmatica: non si tirava mai indietro di fronte alle necessità altrui. Pur vivendo in Francia il suo cuore era rimasto vicino agli italiani e li aiutò sempre con spirito di abnegazione. 

A Montpellier venne a conoscenza che vi era un istituto di suore sarde che ospitavano dei bambini orfani. Allora volle andare a visitarlo. Fu accolta in quel posto da tante bambine festanti che le cantarono delle canzoni e le recitarono delle poesie. La commozione della Regina Elena fu davvero intensa, le scesero le lacrime perché in quel posto incominciò a sentirsi come in Italia. Si intrattenne con le bambine e ad ognuna fece una carezza.

 Le orfanelle percepirono l’affetto dimostrata dalla Regina che veniva chiamata la - Signora in nero -. Era una donna che aveva un sorriso per tutte e quando questo accadeva, il suo volto si illuminava. Le piccole ospiti sentivano che era una persona speciale. Avevano udito pronunciare la parola regina solo nelle favole, ma ora l’avevano davanti. La Regina si sedeva accanto a queste piccole orfane e ad ognuna donava una caramella e dei cioccolatini. In quel momento per la Regina era come se fosse in Italia, dove spesso andava a trovare quelli che non erano stato fortunati, e a cui la vita aveva negato il calore di una famiglia. 

Quei bambini che nei loro volti si era insinuata la tristezza di non essere come gli altri, non avendo una famiglia. La Regina in quella prima visita si accorse di una bambina che la osservava intensamente, ma non riusciva a dire una parola. La Regina allora le andò vicino e le chiese il suo nome. La bambina rispose che si chiamava Elena, come Lei. La Sovrana le fece un sorriso, le accarezzò la guancia dalla quale scendeva una lacrima. Poi con dolcezza la prese tra le sue braccia e le chiese di esprimere un desiderio, qualunque le venisse in mente. La bambina non rispose subito, l’emozione l’aveva avvolta ma prendendo coraggio disse: “Vorrei che tu fossi la mia mamma”. 

Le suore che le erano vicine sorrisero, la Regina che non aveva più la forza per tenerla in braccio la pose a terra e le disse: “Da oggi in poi sarò la tua mamma, e queste bambine che sono presenti saranno tutte mie figlie”. Quello che accadde fu davvero commovente, ogni bambina circondò la Regina, e in quel collegio fu un giorno di festa. Si era vicini al S. Natale: infatti, mancavano solo due settimane al grande evento. La Sovrana salutò con tutto il cuore le bambine, promettendole che sarebbe tornata al più presto e con loro avrebbe preparato il presepe. Quella promessa la fece anche alle suore che le avevano chiesto di tornare al più presto e, in qualsiasi momento, sarebbe sempre stata accolta con gioia. Mentre la porta si stava chiudendo la piccola Elena Le corse incontro e Le diede un bacio come una figlia fa con la propria mamma. Nei giorni che seguirono la Regina Elena, assieme alla sua fedele cameriera, girò per la città di Montpellier alla ricerca di quei negozi che vendevano statue del presepe. La loro attenzione fu attratta da una bottega ove un vecchio artigiano si dedicava alla costruzione dei presepi. 

L’anziano falegname dalla bianca barba ed un po’ ingobbito dal tempo, riconobbe subito la Regina di cui aveva letto nei giornali gli elogi per i suoi atti di carità e di bontà verso gli altri.  Il vecchio artigiano aveva nel suo cuore la bontà e questa attività l’aveva scelta perché amava il S. Natale.  La Regina che si esprimeva molto bene in francese disse che cercava un bel presepe con delle statue alte almeno una quarantina di centimetri. Il vecchio allora le chiese di attendere, ed andò nel retrobottega per prendere le statue, e tutto il resto che sarebbe servito per allestire un presepio. Dopo poco ritornò, e gliele mostrò, ma mancava quella della Madonna. La Regina osservò le statue una ad una e si congratulò con il falegname per la bravura con cui le aveva scolpite.  

Il vecchio disse che la statua della Madonna l’avrebbe fatta nei giorni successivi: gli sarebbero bastate solo due giornate. Al momento del pagamento, l’artigiano rifiutò qualsiasi somma di denaro e pregò la Sovrana di offrirla a qualche bisognoso. La Regina lo ringraziò, il vecchio le fece un grande inchino, era felice che una persona così importante fosse venuta nella sua bottega e non vedeva l’ora di dirlo a sua moglie.  Il mestiere di falegname lo svolgeva da anni, conosceva ogni tipo di legno, e spesso diceva alla gente che faceva lo stesso lavoro di San Giuseppe. Quella mattina, complice l’emozione, non riuscì a creare nulla. Decise di andare a casa e quel giorno non volle più lavorare. La mattina dopo decise di cercare una foto dei Sovrani tra dei vecchi giornali che aveva custodito in un baule. Il falegname si sedette in cucina davanti al caminetto la cui luce si rifletteva sulle pareti. Lesse a voce alta l’articolo, e rimase colpito dal volto dei Sovrani, a tal punto che li osservò a lungo con attenzione. Il giorno dopo, l’uomo si mise subito al lavoro, aveva trovato due pezzi di legno dolce che si sarebbero fatti scolpire con facilità. Iniziò a modellare il volto della Madonna e poi quello di S. Giuseppe. Gli sembrava che una forza superiore guidasse la sua mano e a lavoro ultimato i volti di Maria e di Giuseppe avevano le stesse sembianze dei Sovrani. Quella stessa sera mostrò i lavori alla moglie che si complimentò per come li aveva fatti. 

Qualche giorno dopo venne la Regina Elena accompagnata dalla fedele Rosa. Quando vide che le due statue avevano le sembianze sue e quelle del suo consorte, una grande felicità si sprigionò dal suo volto. La Regina volle ringraziare l’uomo che nel frattempo aveva chiamato la moglie, che si commosse davanti alla Sovrana. Il falegname si sentiva felice d’aver lavorato per una donna molto buona di cui si parlava in paese: una Regina che aveva amore per i poveri, per gli ultimi, che si prodigava nell’aiutare gli ammalati, era una buona cristiana e sicuramente Dio l’avrebbe tenuta nel suo cuore. La Regina Elena ringraziò l’uomo e la moglie e se ne andò direttamente al collegio dove aveva promesso alle bambine che sarebbe tornata per allestire il presepe. Quando arrivò all’orfanatrofio le suore e le bambine l’accolsero in modo festoso e tutte assieme iniziarono ad allestire il presepe. Dopo un giorno d’intenso lavoro, fu finito. Tutte le bambine attorno ad esso ammiravano le statue dei vari personaggi e la loro attenzione era soprattutto rivolta alla capanna che dava asilo al Bambinello, a Giuseppe e Maria che venivano riscaldati dal bue e dall’asinello. 

La bambina che aveva chiesto alla Sovrana di diventare la sua mamma, si metteva sempre vicina Lei e non La lasciava mai. Fu costei che s’accorse che la Madonna assomigliava alla Regina e da quel momento anche tutte le altre bambine dissero che ciò era vero. Poi tutte esclamarono:” La Regina è la Madonna”. Le orfanelle si strinsero attorno alla Sovrana, volevano baciarla e abbracciarla.  In tutta quella commozione la Regina sorrideva e si sentiva felice, stava vivendo un momento di pura gioia.   Il giorno di Natale la Sovrana e la sua fedele Rosa andarono all’istituto per festeggiare assieme alle piccole ospiti questa grande solennità. 

Dopo la celebrazione della messa, che si svolse nella piccola cappella del collegio, e fu allietata dalle voci angeliche delle bambine, la Regina diede ad ognuna di loro un dono contenuto in una scatola avvolta con della carta dorata. La gioia che si era creata era davvero incommensurabile. La Regina d’Italia quel giorno non si sentì ospite, ma appartenente a una grande famiglia. Fu una festa che se ne parlò per molto tempo. La Regina Elena visse solo un anno dopo quel Natale, ma non mancò mai di far arrivare alle orfanelle molteplici aiuti. Volle andare a salutarle per l’ultima volta pochi mesi prima di morire. In quel posto si sentiva una mamma, e percepiva il calore della famiglia che Le faceva dimenticare i tormenti dell’esilio e della malattia. Alla sua morte le piccole ospiti piansero non la Regina ma la loro Mamma che non le aveva mai abbandonate e non avrebbero mai dimenticato la sua bontà ed il suo affetto dimostrati nei loro confronti.  Mi auguro che la Madre dei poveri possa essere al più presto innalzata agli onori dell’altare.

venerdì 15 dicembre 2023

Il solstizio d'Italia



Siete invitati a una Nostra Conferenza, dal Titolo

“IL SOLSTIZIO D’ITALIA.

L’ORA DELLA VITTORIA ALATA”

Occasionata dal Solstizio d’Inverno.

Attraverso una sequenza d’immagini,

si metterà in luce la simbologia solare

come guida del percorso Unitario Italiano,

a partire dal termine Risorgimento.

Simboli rintracciabili nella pietra e nel bronzo dei monumenti

e nelle forme artistiche e letterarie del Regno d’Italia.

LIBRERIA  HORAFELIX

VIA REGGIO EMILIA, 89   ROMA

GIOVEDI’   21 DICEMBRE  2023  ORE 18

INGRESSO  CON  CALICE  AUGURALE    € 5

INFO E PRENOTAZIONI   338 4714674 

Email   terzanavigazionefutura@gmail.com

Negli ALLEGATI ulteriori informazioni con le modalità di partecipazione.

      Cordialmente

          Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro

LINK NOSTRA CONFERENZA

https://www.consulpress.eu/il-solstizio-ditalia/

 


“Proporzionale” e “maggioritario”: progenitori delle “ammucchiate”?

 

 di Aldo A. Mola

Ci sarà una volta l'Europa? Tra sette mesi gli italiani saranno chiamati alle urne per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento europeo, con assegnazione dei seggi in proporzione ai voti che otterranno. I dibattiti “politici” in corso sono anni luce lontani dalla visione degli assillanti problemi di un'Europa sempre più claudicante, come ha seraficamente osservato Mario Draghi. 

Così com'è, senza politica estera e militare unitaria, essa è destinata a sfarinarsi. Come accadde alla Grecia classica. Giunta al culmine della sua civiltà, delle arti e del pensiero filosofico (bastino quanto resta del Partenone, la cui restituzione Atene giustamente chiede, e i nomi di Socrate, Platone e Aristotele) l'Ellade sprofondò nelle grinfie del “barbaro” Filippo il Macedone e di suo figlio, Alessandro. La miopia e l'egocentrismo si pagano. 

Che cosa hanno a che fare con l'Europa auspicabile le chiacchiere su “premierato”, “autonomia regionale differenziata” e trascurabili procedimenti giudiziari a carico di “politici”, retoricamente elevati a conflitto tra poteri dello Stato? Ma quale Stato? Vogliamo continuare a nasconderci che dal settembre 1943 l'Italia si è dovuta rassegnare a cedere quantità crescenti di sovranità politica e militare a poteri sovraordinati ai suoi? Ne ha tratto vantaggio, in termini di sicurezza e di ammodernamento. Ma ne avrebbe avuti anche di più se la sua dirigenza si fosse concentrata sulla costruzione dell'Europa anziché smarrirsi nei castelli di carta delle beghe locali, spacciate per alta politica. 

Nel frattempo, nel volgere di pochi anni l'Unione Europea ha raggiunto un numero di componenti e un'estensione geo-politica, demografica ed economica di cui la maggior parte dei cittadini italiani continua a non avere percezione. Vive straniata dalla realtà. Come l'“Europa” stessa, che non si è data e non si dà regole a misura delle sue dimensioni. Un microstato ha gli stessi poteri di un paese di 60-80 milioni di abitanti. I prossimi mesi vedranno aumentare i toni della rissa per la caccia al consenso elettorale. 

Chi la sta attizzando forse non ha ancora colto il tasso crescente della diserzione delle urne e della delegittimazione implicita della rappresentanza. Dal 2018 l'Italia vive la crisi agonica del regime partitico-parlamentare, aggravata dalla sempre più abissale distanza tra l'esecutivo e le attese dei cittadini. Ironia della sorte, toccò proprio a un “Cinque stelle” dipanare la aggrovigliata matassa di un Movimento caotico, populista, nel suo insieme estraneo alla tradizione politica italiana e intrinsecamente anti-istituzionale, fervorosamente anti-europeista e persino pronto a indossare “gilets” gialli Poiché a fronte degli scricchiolii dell'attuale maggioranza di governo torna a essere agitato lo spauracchio del neo-trasformismo e qualcuno avverte che dalla novella lampada di aladino possano sprizzare gli spiritelli di Depretis e persino di Giolitti, va fatto un minimo di chiarezza sul trasformismo nella storia d'Italia. 

Elogio del trasformismo Tra il 1876 e il 1887 il “trasformismo” fu il decennio di transizione dalla ormai sterile e nominale contrapposizione fra la Destra e la Sinistra “storiche” a un nuovo e più organico assetto dello Stato. Quali erano i problemi dell'Italia? Politica estera, politica socio-economica, consolidamento delle istituzioni. “Fare lo Stato” per “fare gli italiani”. L'8 ottobre 1876 Agostino Depretis, massimo esponente della Sinistra e presidente del Consiglio dei ministri, pronunciò a Stradella, fulcro del suo collegio elettorale, un discorso che, secondo lo storico Carlo Morandi, era stato scritto dal lombardo Cesare Correnti, esponente della Destra. Auspicò la “feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici (destra e sinistra) tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia dell'aula parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo un'idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuova, il Progresso. 

Noi siamo, o signori, un ministero di progressisti”. Depretis (1813-1887) era presidente del Consiglio dal 25 marzo, dopo l'incruenta “rivoluzione parlamentare” come retoricamente venne detto il crollo del governo presieduto da Marco Minghetti, ultimo della Destra storica, sconfitto in aula il 18 precedente, all'indomani di notevoli successi della sua politica economica. A conferma che economia e politica non camminano di pari passo. Anzi, proprio la stabilità economica fa cadere nella tentazione di cambiare governanti. La Nuova Italia aveva alle spalle quindici anni vissuti pericolosamente, dall'unificazione (1861) all'agognato pareggio del bilancio di esercizio: tante uscite contro altrettante entrate. 

Frutto non solo della tassazione su macinazione delle farine (l'odiosa “tassa sulla fame”), su sale, tabacchi, alcolici e su ogni bene di consumo, ma anche di esose imposte sui beni immobili e su tutto quanto fosse imponibile, dai portoni alle finestre, dai balconi ai cani da guardia e da passeggio. Tuttavia essa aveva fronteggiato e vinto il “grande brigantaggio”, messa all'attivo la terza guerra per l'indipendenza conclusa con l'annessione di Venezia malgrado gli insuccessi militari per terra (Custoza) e per mare (Lissa, ricordata da Nico Perrone nel suo saggio sullo sfortunato Carlo Pellion di Persano, “Agente segreto di Cavour”, ed. Rubbettino), aveva acquisito Roma con i cannoni (contro l'auspicio di Cavour, che puntava sulla suasione di Pio IX, non sulla sua sottomissione) e aveva faticosamente intrapreso il riassetto di un territorio che sommava arretratezza e sottosviluppo. Il X congresso degli scienziati italiani, l'esposizione economica nazionale di Firenze e il censimento del 1871 indicavano che in appena due lustri il Paese aveva comunque imboccato la direzione di marcia: “fare”, fare bene, fare in fretta grazie all'immensa macchina dell'amministrazione centrale e locale. Però la compagine governativa della Destra era ormai spossata: confondeva la stasi con l'equilibrio. Si barcamenava in un'Europa che, messa alle spalle la guerra franco-germanica del 1870-1871, aveva ripreso e accelerato la seconda industrializzazione e con l’apertura del Canale di Suez aveva accresciuto il traffico di merci (e di eserciti) dall'Europa settentrionale all'India e alla Cina. Inoltre, il crollo dei noli marittimi all'indomani della guerra di secessione negli USA favoriva le esportazioni dall'America verso l'Europa a danno delle economie più deboli. Il grano d'importazione costava meno di quello faticosamente prodotto in Italia, con ripercussioni devastanti per un Paese ancora quasi esclusivamente agricolo. 

Perciò anche il liberista Camillo Cavour quando necessario aveva fatto intervenire lo Stato non solo per la realizzazione di strade e ferrovie, ma anche a tutela della produzione “nazionale” e dell'avvio di imprese d'avanguardia, specie in settori che richiedevano un di più di scienza (era il caso della produzione di fertilizzanti per sopperire alla penuria di guano precedentemente in arrivo dal Cile). Con buona pace dei manuali, dall'Unità al 1876 si contarono due soli governi “di Destra” vera e propria: furono quelli presieduti da Lanza nel 1869 e da Minghetti nel 1876. 

La “Destra” era un'etichetta impropria. Il primo a liberasene era stato proprio Cavour che nel 1852 aveva pattuito il connubio di centro-sinistro (sic) con Urbano Rattazzi, che non era né di destra né di sinistra ma pragmatico, poi ministro dell'Interno nel fattivo governo presieduto da Alfonso La Marmora (1859). Nel decennio successivo alla morte del Gran Conte (1861-1860) i governi avevano sempre compreso esponenti niente affatto “di destra”. Nel suo primo ministero (1862) Rattazzi incluse Depretis e Gioacchino Napoleone Pepoli; nel secondo (1867) ancora Depretis e il quarantaseienne Michele Coppino (massone, come Depretis) all'Istruzione. Nel suo terzo governo (1869) il generale Luigi Federico Menabrea chiamò Angelo Bargoni e Antonio Mordini, massoni e Dioscuri del Terzo Partito. La debolezza cronica della Destra stava nella rivalità fra due suoi esponenti di spicco: il biellese Quintino Sella e il bolognese Minghetti. O l'uno o l'altro. 

E così alla fine arrivò Depretis: il Trasformismo, che successivamente andò di traverso alla retorica paleonazionalista accesamente polemica contro l'“Italietta” (da Alfredo Oriani a Enrico Corradini, da Gabriele d'Annunzio a Luigi Federzoni...), esattamente come a quella fascista, alla gramsciana e a tutti gli aspiranti “rivoluzionari”. Era e rimase indigesto il Grande Vecchio di Stradella, che promise almeno una riforma all'anno, ma di quelle vere, che migliorano la vita delle “classi numerose”. L'Italia era sotto assedio. Nel 1881 la Francia, mai amica sincera e in quel momento neppure alleata, impose il protettorato sulla Tunisia, che la neonata Italia considerava un suo “porto sicuro”. Per uscire dall'isolamento Depretis concordò la Triplice Alleanza (20 maggio 1882) con la Germania e con l'Austria-Ungheria, suo potenziale nemico. Così ebbe mani libere per curare le piaghe interne: l'inchiesta sulle “classi agrarie” sollevò il coperchio sulle condizioni miserabili delle moltitudini. 

Le cinte urbane soffocavano le città che avevano bisogno di aria luce e pulizia. L'epidemia colerica del 1884 impose reti fognarie e acquedotti. Il trasformista Depretis non si restrinse a racimolare il consenso di qualche parlamentare in più. Nel 1881, àuspici Coppino, Zanardelli, Baccarini e tanti altri “fratelli” democratici, varò l'ampliamento del diritto di voto da circa 650.000 a 3.000.000 di cittadini. Come ha osservato decenni addietro l'insuperato Giuseppe Galasso, dalle elezioni del 1882 (con collegi circoscrizionali e scrutinio di lista) scaturì la prima dirigenza di politici professionali tecnicamente attrezzati. Proprio perché massone tutto d'un pezzo, fu Depretis a tentare il primo approccio con la Santa Sede per la Conciliazione, malgrado l'opposizione miope di alcuni anticlericali e, s'intende, di fanatici baciapile. Si trattava di accordarsi sui “metalli” nel rispetto della libe
rtà di coscienza di tutti, garantita dallo Statuto albertino che aveva riconosciuto l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi. Tra alti e bassi, da una all'altra crisi, rimpasto dopo rimpasto, Depretis condusse il carro governativo sino al 1887, quando formò il suo ultimo formidabile ministero. Tenne per sé gli Esteri, all'Interno ebbe Francesco Crispi (che nel 1864 aveva detto alla Camera: “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”), alla Giustizia Giuseppe Zanardelli, a Finanze e Tesoro Agostino Magliani, all'Istruzione Coppino (che dal 1877 ottenne la scuola elementare obbligatoria e gratuita), alla Marina Benedetto Brin (artefice della “Terni”), ai Lavori pubblici Giuseppe Saracco. Al governo c'era tutta l'Italia competente e fattiva. 

Trasformava il brulicame in una compagine coesa, fondata su larghissima maggioranza, confermata anche nel 1886 quando affiorarono forze più decise ad accelerare le riforme, come l'“Opposizione subalpina” guidata da Giolitti, Tommaso Villa, Domenico Berti (già ministro con la Destra), il garibaldino Pietro Delvecchio e altri. Il crepuscolo di uno Statista Sommerso ed esaurito dal lavoro, Depretis ammalò. Assistito dalla moglie Amalia Flaver, di 34 anni più giovane, da lui sposata quando già era vedova e madre di una bimba, Bice, e dalla quale ebbe Agostino, sentendo arrivare la Grande Visitatrice come un elefante da Roma si ritirò a Stradella. Vi morì con l'occhio alle “umane sorti e progressive”. Senza soluzione di continuità, presieduto da Crispi il governo varò il nuovo codice penale che abolì in Italia la pena di morte (un primato mondiale), rese elettivi i sindaci e i presidenti delle Deputazioni provinciali, laicizzò le opere pie, approvò la prima legge sanitaria che impose ai Comuni la svolta urbanistica. Caso unico tra i presidenti del Consiglio dall'Unità in poi, Depretis ebbe funerali civili. 

Ecco, dunque, il Trasformismo: è Riforme. È fatti. Per mettere l'Italia in sicurezza, come suggerito anche da Adriano Lemmi (gran maestro del Grande Oriente d'Italia, sempre in attesa di una biografia), Roma stipulò accordi con Londra. Allievo prediletto di Depretis fu Giolitti che nel 1912 conferì il diritto di voto a quasi tutti i maschi maggiorenni. Riteneva fossero cittadini pensosi delle proprie sorti e rappresentati da parlamentari consapevoli. 

Era inguaribilmente ottimista. Nel 1924, quando aveva 82 anni, capitanò una Lista schiettamente democratica contrapposta a quella Nazionale orchestrata dal fascismo, zeppa di convertiti all'ultima ora, incamminati sulla via di Damasco dell'incipiente regime, quello, sì, trasformista nel senso deteriore: un partito-spugna pronto a imbibirsi di acque anche putride e condannato a risultare secco quando venne l'ora della prova. Il maggioritario dette dunque gli stessi frutti tossici del proporzionale? Aldo A. Mola DIDASCALIA: Agostino Depretis o, a lungo, De Pretis (Cascina Bella, Pavia, 31 gennaio 1813 - Stradella, Pavia, 29 luglio 1887). Laureato ventunenne in legge a Pavia, consigliere comunale a 31 anni, eletto a 35 deputato alla Camera del regno di Sardegna nel collegio di Broni (Pavia) il 26 giugno 1848, poi da quelli di Stradella (1861) e di Voghera, dal 1882 comprendente il collegio di Stradella, vicepresidente della Camera nel 1849, mazziniano sino al 1854, contrario all'intervento del “Piemonte” nella guerra di Crimea, si avvicinò a Cavour sulla scia di Urbano Rattazzi, fu governatore di Brescia nel 1859 e commissario straordinario in Sicilia per imbrigliare la spedizione garibaldina (19 luglio-14 settembre 1869). Esponente di spicco della Sinistra democratica, fu ministro della Marina nel I governo presieduto da Rattazzi (1862), dimissionario per le conseguenze catastrofiche della spedizione di Garibaldi all'insegna di “Roma o morte”. 

Tornò ministro della Marina nel II governo presieduto da Bettino Ricasoli (esponente della Destra storica) e poi nel II governo Rattazzi (aprile-ottobre 1867, travolto dalla spedizione di Garibaldi contro lo Stato pontificio). Dal 25 marzo 1876 alla morte fu massimo statista della Sinistra storica e, con l'intervallo di tre governi presieduti da Benedetto Cairoli, nel corso di undici anni formò otto compagini, con ministri molto diversi nelle posizioni chiave (Esteri, Interno, Finanze, Istruzione, Marina...). I suoi governi compresero esponenti delle regioni più disparate,di solida formazione politica, culturale e professionale. Dal 1864 al 1880 presidente del Consiglio Provinciale di Pavia, suo fedelissimo bacino elettorale, il 10 ottobre 1875 espose a Stradella il programma di vaste e incisive riforme politiche, giuridiche, culturali ed economico-sociali, che precorse la svolta politica nazionale col passaggio senza traumi dalla Destra alla Sinistra, all'insegna del consolidamento dello Stato e della sua istituzione suprema, la Monarchia di Savoia.

 Ebbe la fiducia di Vittorio Emanuele II e di suo figlio Umberto I. Iniziato “compagno” nella loggia torinese “Dante Alighieri” il 22 dicembre 1864, maestro” dal 1866, affiliato nel 1867 alla “Universo” di Firenze, nel 1877 fu elevato al grado 33° del Rito scozzese antico e accettato e dal 1882 fece parte del suo Supremo consiglio. Il 14 marzo 1878 Umberto I gli conferì il Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata comportante il rango di “cugino del Re”. Malato, da Roma andò a morire a Stradella. 

La salma fu esposta nel municipio. Unico dei quattro presidenti del Consiglio massoni (oltre a lui Crispi, Zanardelli e Fortis), ebbe funerali civili. Amedeo di Savoia, Duca di Aosta, fratello del Re Umberto I, resse con Crispi e Zanardelli i cordoni nel corteggio funebre, seguito da una folla lunga un chilometro: omaggio dovuto all'antico repubblicano che aveva ampliato le basi del consenso per la monarchia statutaria, fondata su libertà politiche e progresso. Molto discusso per il suo pragmatismo ebbe due elogi fondamentali. Più che per i discorsi si fece apprezzare per i silenzi. “Quelli che rimangono – disse Ruggiero Bonghi alla sua morte – per sventura nostra non sono migliori di lui”. Non condivise mai la cinica sentenza dei politicanti frustrati secondo i quali “governare l'Italia non è difficile, è inutile”. Spese i suoi settantaquattro anni per lasciare gli italiani migliori di come erano alla sua nascita, tra Restaurazione asburgica, regimi liberticidi e ottusamente clericali. Propose il trasformismo per dar corpo a un vasto Partito dello Stato e attuare riforme efficaci.

venerdì 8 dicembre 2023

La buona Regina

di Emilio del Bel Belluz

Questa mattina ho letto da un giornale che è prossima la chiusura della causa di beatificazione della Regina Elena di Savoia.

Questa notizia ha trovato un vasto eco tra quelli che da anni si prodigano perché questo debba avvenire. La mamma degli italiani è sempre stata una donna definita da tutti una donna che Dio aveva creato per aiutare il prossimo; una donna che aveva un cuore molto sensibile e onesto.



Lo scopo della sua vita è stato quello alleviare le sofferenze di tutti quelli che incontrava nella sua strada. In questi giorni stavo leggendo un libro dello scrittore Dino Buzzati, una delle penne più belle del nostro Paese, e sono rimasto colpito dalle parole di un suo racconto che riporto: “I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l’oceano, e quell’oceano è Dio.

D’estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque, e quelle acque sono Dio. Alla notizia che sta per arrivare un Santo nuovo, subito viene intrapresa la costruzione di una casetta di fianco alle altre. Esse formano così una lunghissima fila lungo la riva del mare. Lo spazio non manca di sicuro”. 

Se la causa di beatificazione si concludesse, la Regina sarebbe lieta di poter avere una casetta vicino al mare, essendo lei innamorata della pesca e degli umili pescatori che le avevano sempre manifestato la loro simpatia.

Negli ultimi tempi prima di morire, la si vedeva pescare davanti al mare. Le tante persone che la conobbero, e mi riferisco alle umili genti, l’amarono. Ebbi modo di sentire dalla voce di una donna italiana, che lavorava in Francia, quanta gentilezza la regina riservava alle persone che incontrava.

 Quel volto non lo avrebbero scordato mai, come non sarebbero state dimenticate le parole che rivolgeva a quelle donne lontane dall’Italia, che umilmente lavoravano nelle ricche famiglie come domestiche. Sarebbe auspicabile che la figura della regina Elena fosse presa ad esempio al giorno d’oggi in cui s’è perso ogni valore cristiano di riferimento.  Nella mia biblioteca ho trovato una pagina di una rivista del tempo dedicata alla sovrana, le lacrime della Regina.

“È la Regina Elena, la nostra Regina, l’avete vista?” Si, l’ho veduta a bordo della “Regina Elena”. Vestiva un semplice abito scuro; portava in testa un berretto alla marinara; nessuno l’avrebbe presa per la Regina d’Italia. Sembrava un’infermiera, una suora di carità; il suo volto pallido e contratto dal dolore e di pietà si atteggiava a un dolce sorriso confortando le centinaia di feriti ai quali volle con le sue stesse mani prodigare le prime cure. I suoi occhi erano pieni di lacrime; nella sua voce era un singhiozzo. Creda, nessuna sovrana ha fatto mai quello che la Regina Elena ha saputo compiere nelle tragiche giornate di Messina”. (L’illustrazione Italiana – 5 gennaio 1909)


mercoledì 6 dicembre 2023

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II

Si conclude con la quarta ed ultima parte l'intervista di Beniamino Joppolo del 1952, rilasciata ad un quotidiano di sinistra quale Paese Sera. L'intervista, per quanto non fondamentale tra quelle rilasciate dal Sovrano in esilio, è una clamorosa eccezione rispetto ad una certa informazione che fece sempre finta che Re Umberto II non esistesse se non per parlarne male.




www.reumberto.it

domenica 3 dicembre 2023

Saggi storici sulla tradizione monarchica - III

 


 FONDAZIONE DEL REGNO LONGOBARDO

Il ritorno dell'Italia sotto il diretto dominio imperiale, fu regolato da Giustiniano con una legge speciale detta « Pragmatica Sanctio » per cui vicino al diritto romano veniva data efficacia di leggi alle or­dinanze dei Re goti fino a Vitige incluso; l'Italia era ormai una pro­vincia dell'Impero governata da Costantinopoli, non ne facevano parte la Sicilia, considerata una specie di dominio privato imperiale, e la Sardegna e la Corsica dipendenti dal governo d'Africa. A capo del governo vi era il prefetto di pretorio mandato da Costantinopoli e i governatori delle provincie, scelti fra i grandi nobili o i maggior ecclesiastici.

I Goti avevano però costituito, nel tempo della loro dominazione, una specie di barriera alle invasioni di altri gruppi barbarici e questo si vide allorquando i longobardi, barbari appartenenti al gruppo marcomanno-svevo delle popolazioni germaniche, scesero in Italia abban­donando ad altri barbari, gli Avari, la Pannonia dove sino ad allora avevano risieduto. Guidati dal loro Re Alboino, nel 568 mossero verso l'Italia ed i bizantini non seppero opporre loro che una debolissima resistenza; le prime città prese furono Vicenza e Verona, poi Milano, ed infine l'invasione si propagò in gran parte della penisola.

Dopo i regni di Alboino e di Clefi, ucciso da uno schiavo nel 574, i duchi longobardi non elessero un nuovo re, e spartirono fra loro il territorio conquistato, diviso in tanti ducati indipendenti; questa si­tuazione però durò poco perché i duchi longobardi, persuasi della ne­cessità di avere un unico capo, anche per resistere alla insidie bizan­tine, elessero nel 584, come re, Autari, figlio di Clefi, a cui vari duchi cedettero metà dei loro territori.

Questo passo segnò anche il principio di una sistemazione della situazione politica e religiosa d'Italia; i longobardi ariani si accosta­rono a poco a poco al cattolicesimo soprattutto per merito del Papa S. Gregorio Magno e della figlia Teodolinda moglie 4i Autari, devo­ta cattolica. Adaloaldo, figlio di Teodolinda e del suo secondo marito Agilulfo, successore di Autari, fu il primo re longobardo di religione cattolica.

A questa conversione si accompagnò anche una certa civilizzazio­ne di costumi di questi popoli barbari ed una mitigazione della loro crudeltà verso le popolazioni locali che nei loro riguardi avevano la posizione di vinti. A differenza dei goti che si erano considerati rap­presentanti dell'impero, i longobardi avevano conquistato l'Italia con­tro l'impero e nessuna intenzione era in loro di romanizzare e di ci­vilizzare i loro costumi adattandoli a quelli delle popolazioni con­quistate. Questo risultato fu raggiunto con un'opera lenta e faticosa in cui la Chiesa ebbe la massima parte, attraverso il benefico influs­so dei Pontefici e dei Vescovi.

I successori di Adaloaldo, esponenti a volta a volta, delle due cor­renti una cattolica ed una ariana,, combatterono quasi tutti contro i bizantini, conquistando Genova e le due riviere, mentre i deboli esarchi rappresentanti dell'imperatore nulla seppero fare per riconquistare le terre perdute.

L'ultimo tentativo bizantino fu quello compiuto personalmente dall'imperatore Costante II che pose l'assedio a Benevento, ma sconfitto fu costretto ad abbandonare l'impresa (663). Dopo aver per­duto anche la penisola salentina, i bizantini negoziarono finalmente una pace con i longobardi, riconoscendone le conquiste, intorno al 680.

Il momento più fulgido del regno longobardo fu quello vissuto sotto Liutprando che certamente fu il maggiore dei sovrani della dinastia, che pensò anzi di riunire sotto il suo scettro tutta l'Italia sen­za tuttavia riuscirvi, anche perché osteggiato dal pontefice Gregorio II che pur in lotta con Costantinopoli per questioni teologiche, non volle tradire la fedeltà all'Imperatore.

Uno dei successori, Astolfo, entrò in Ravenna, che fino ad allora era stata sede del rappresentante imperiale, l'esarca, e giunse a recla­mare l'alta sovranità su Roma, da dove alcuni anni prima erano stati cacciati i bizantini, ponendosi la città sotto la guida di un duca elet­tivo e soprattutto del Papa. Trovò però la resistenza del Pontefice che ormai non doveva più tanto temere l'invadenza dei bizantini lontani, quanto quella dei longobardi vicini. In aiuto dei papi vennero i Franchi guidati dal loro Re Pipino che sconfisse Astolfo, obbligandolo alla consegna delle città dell'esarcato e della pentapoli al Pontefice; que­ste terre costituirono il primo nucleo del potere temporale dei Papi.

Ormai il dominio dei longobardi volgeva al termine, poiché benché vincitori dei bizantini, essi erano premuti dalla nascente potenza dell'antico regno franco che dopo lungo tempo di abbandono sotto lo scettro degli inetti sovrani della dinastia dei Merovingi, aveva tro­vato nuovo splendore sotto la guida di Pipino il Breve fondatore della dinastia Carolingia. Ai franchi si appoggiava il Papato, bisognoso di potenti aiuti e giunto ormai a rappresentare non solo una grandis­sima forza morale, ma anche un potere di un certo rilievo politico, quale effettivo possessore di Roma e del suo territorio.

La debolezza dei longobardi consisteva soprattutto nella situazione del Re, spesso costretto a lottare anche contro i suoi duchi, nella mancanza assoluta di una organizzazione finanziaria, nella necessità di procedere a sempre nuove conquiste perché il Re potesse ricom­pensare con territori ricchi i suoi partigiani. La struttura dello stato longobardo primitiva e sconnessa, non offriva quella resistenza che un potere centralizzato, anche debole, poteva più facilmente opporre ad urti esterni. Per questi motivi i longobardi non potettero riunire tutta l'Italia e fondare un regno che avesse una vita lunga e stabile, fatalmente essi dovettero scomparire di fronte a nemici più agguer­riti e dotati di una struttura politica più salda, e questo avvenne con la sconfitta che i longobardi subirono dai franchi e che pose fine al loro dominio in Italia.

sabato 2 dicembre 2023

Appuntamento culturale a Roma, al Museo di Porta San Pancrazio

  DOMANI DOMENICA POMERIGGIO  ore  15.30




Invito MUSEO di PORTA SAN PANCRAZIO sul GIANICOLO
Il Museo della Repubblica Romana e della Memoria Garibaldina
illustra, attraverso materiali storico-artistici otto-novecenteschi,
una pagina gloriosa del Nostro Risorgimento
Incipit del Processo di Unificazione Nazionale.
DOMANI  DOMENICA  POMERIGGIO 
3  DICEMBRE  2023  ORE 15.30
LARGO DI PORTA SAN PANCRAZIO (Ingresso Museo) ROMA
L’INGRESSO E’ GRATUITO     La puntualità è cosa gradita
   PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
In ALLEGATO ulteriori informazioni e le modalità di partecipazione.
Cordialmente.
         Prof. Massimo Fulvio Finucci e D.ssa Clarissa Emilia Bafaro