NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 28 dicembre 2022

L’anniversario della morte di Re Vittorio Emanuele III

 di Emilio Del Bel Belluz



  Il 28 dicembre del 1947 in terra d’esilio, ad Alessandria d’Egitto, moriva il Re Vittorio Emanuele III. Da allora sono passati settantacinque anni e sono quasi certo che questa data non sarà in nessun modo ricordata. In Italia non si ricorda come meriterebbe la storia di Casa Savoia.  La morte lo accolse sotto il cielo d’Egitto, il Paese dove arrivò venti mesi prima con la sua amata sposa la Regina Elena, accolti in modo fraterno da Re Faruk che li aveva dato ospitalità. La vita in Egitto non fu molto facile, come non poteva essere sereno l’esilio in genere. La parola esilio dovrebbe essere cancellata. In questi giorni mi sono letto  un ottimo articolo comparso su “ Il Tempo di Roma”, scritto da Emilia Morelli e mi ha colpito la sua definizione d’esilio. “ L’esilio è la pena più terribile - dopo quella a morte - che possa essere inflitta. Il tormento dell’isolamento, la difficoltà della vita in mezzo a stranieri, la malinconia che prende l’emigrante, sono anch’essi sentimenti che attanagliano il cuore e la mente. Negli emigranti, però, essi si placano nella speranza che il loro lavoro fatto all’estero permetta un dignitoso ritorno in Patria. Si spediscono i risparmi per costruire la casa dei sogni per la vecchiaia o la tomba per il riposo eterno”. Quando il Re Vittorio Emanuele III andò in esilio, partendo dal porto di Napoli sapeva che non vi avrebbe più fatto ritorno. Era rassegnato al fatto che quella patria che aveva servito per 46 anni non l’avrebbe più rivista. Quello che non sapeva ancora è che il buon Dio lo avrebbe chiamato a sé qualche giorno dopo la festa del Santo Natale del 1947: era il suo secondo Natale che festeggiava  lontano dalla sua patria. Nelle ore difficili che precedevano  la morte, aveva accanto a sé la donna che aveva amato sin dal primo momento che l’aveva vista. Quella donna che gli era stata sempre accanto condividendo con lui ogni momento sia di gioia che di   dolore. Pochi anni prima dovettero subire il grave lutto della morte della figlia, la buona principessa  Mafalda, in un campo di concentramento. Essendo prossimi al S. Natale aveva chiesto a un suo collaboratore se la gente aveva scritto per gli auguri , e dopo aver avuto in risposta che tanti italiani si erano ricordati di lui, disse che però molti di quelli che avrebbero dovuto essergli fedeli, non lo erano stati. La sconfitta del referendum,  dopo evidenti brogli elettorali, non era stata compresa. Tanti di quelli che avevano avuto amicizia con il Re si erano dimenticati di lui. Il suo ultimo respiro avrebbe voluto esalarlo nel posto  dove era nato, perché nessun luogo poteva dare conforto come il morire sotto lo stesso cielo dove uno era venuto alla luce. Allo stesso modo il Re morente non avrebbe mai pensato che dopo essere stato sepolto in esilio, questo sarebbe finito solo nel 2017 quando il capo dello stato si dichiarò favorevole alla sepoltura in Italia. Il Re Vittorio Emanuele III riposa ora a Vicoforte assieme alla Regina Elena. Da sempre il luogo di sepoltura dei Savoia avrebbe dovuto essere il Pantheon di  Roma, ma la Repubblica non è stata grata  verso i Savoia che hanno fatto la storia di questo Paese, con i suoi mille anni di storia. La figura del Re Vittorio Emanuele III dovrebbe essere studiata con maggiore verità, ma questo non credo verrà mai fatto. La storia la scrivono i vincitori. Per conoscere la storia di questo Re spesso ho fatto riferimento  alle fonti del vecchio prozio Gaetano, fratello di mio nonno paterno. Costui era nato nel 1882, e aveva fatto la Grande Guerra. Nelle sere d’inverno davanti al fuoco acceso spesso narrava del periodo bellico, e in modo particolare quando vide il Re Vittorio Emanuele III, che era venuto a visitare i luoghi di guerra. La sua figura dava coraggio ai fanti che, vedendolo, si sentivano più forti. Il Re di solito si intratteneva con i soldati, chiedendo loro da dove venissero. Gaetano che a quasi novant’ anni fumava ancora il toscano, aveva nella sua camera la bandiera del Re che spesso mi faceva vedere. Quando raccontava dei particolari della guerra la osservava, come a rinnovare i ricordi di quel tempo. Alla morte del Re Vittorio Emanuele III, in quel 28 dicembre del 1947, si era commosso fino alle lacrime. Non potendo esserci ai funerali del suo Sovrano, perché non era ricco e non si poteva permettere un viaggio così costoso, aveva fatto esporre dalla finestra la bandiera Sabauda listata a lutto, ed era corso in chiesa a pregare per il suo sovrano e per la Regina. Il suo amore per Vittorio Emanuele III lo mantenne per tutta la vita. Quanto gli sarebbe piaciuto che fosse stato sepolto al Pantheon assieme alla amata donna che aveva condiviso la sua vita. Il vecchio Gaetano morì nel gennaio del 1972, nella sua stanza aveva ancora la sua bandiera. Alcuni anni dopo la sua morte trovai un libro che raccontava degli aneddoti sulla vita del Re Vittorio Emanuele III, e ve ne era uno che spesso anche il mio prozio mi raccontava.  “ L’episodio forse più bello della vita del Re al campo ( e che certo, quantunque riportato da alcuni giornali, è sfuggito al grande pubblico ) è narrato con garbata semplicità in una lettera che un caporale, combattendo nel Trentino, scriveva alla moglie nel gennaio del 1916 : “ E’ stato a trovarci il Re, e alla sua visita l’entusiasmo ci ha invaso. Sai, ho parlato con lui per più di mezz’ora con grande affabilità, come parlassi col mio tenente. Egli mi ha chiesto notizie  su tutto e specie sui soldati, sulla loro vita e come erano trattati. A sera, mentre stava per lasciarci, un  terribile uragano arrestò la sua partenza. Il Re volle fermarsi con noi e dormì nella nostra baracca e proprio nella mia cuccia. Volevo preparagli un lettino meno duro con delle coperte, ma Vittorio Emanuele non volle. Sai cosa mi rispose ? “ Avete  dormito voi per tanto tempo, posso ben dormire io pure. Sono come voi un soldato d’Italia “. “ Così per una notte dormii con Sua Maestà, il quale riposò come se da tempo fosse abituato a dormire sulla paglia e dormì come dormimmo noi, senza alcuna differenza. Vicino al mio giaciglio ho messo una scritta : Qui riposò Vittorio Emanuele III la sera del 9.I.1916, ospite mio illustre”.  Questo uno dei tanti episodi che non vengono portati alla luce e che sono destinati a morire. La vita del Re Vittorio Emanuele III non fu facile. Infatti, durante il periodo della Grande Guerra mise a repentaglio la propria vita per stare in prima linea accanto ai soldati che combattevano, per dare loro incoraggiamento e forza. Nessuno potrà negare questo comportamento. I giovani d’oggi non hanno avuto la fortuna che ho incontrato io nel conoscere quelli che avevano  combattuto  per la Patria. Il 28 dicembre non so quanti si recheranno a Vicoforte per dare un saluto al Re d’Italia Vittorio Emanuele III, e alla sua consorte la Regina Elena. Sarebbe troppo bello che a distanza di settantacinque anni qualche politico decidesse di portare un fiore sulla tomba dei Sovrani.



Il dono di natale del Re Umberto II


di Emilio Del Bel Belluz 


 In questi giorni che precedono la festa del Santo Natale il freddo è molto pungente, la natura è spoglia e brulla e davanti al caminetto mi sono messo a leggere un racconto che narra di un Natale del Re Umberto II, che già da qualche anno si trovava in esilio in  Portogallo. Qualche giorno prima di Natale il Re era andato alla Santa Messa nella piccola chiesa che distava poco dalla sua casa, come era sua abitudine andarci ogni domenica.  Il Re si metteva sul primo banco, entrando sulla destra, davanti alla Madonna. La gente del paese sapeva che il Re amava quel posto e nessuno glielo occupava. Il Re aveva sempre con sé un messale nero che la Regina Elena gli aveva donato. Quelli che lo vedevano a messa di solito erano pescatori che non erano molto ricchi, a quel tempo era difficile fare del denaro con la pesca. Quella mattina il prete del paese lo invitò in canonica, per parlargli di una faccenda che lo turbava. La stanza dove si misero a parlare era un luogo conosciuto dal sovrano, il curato ogni tanto si intratteneva con lui a bere un caffè. La perpetua in quelle occasioni era sempre pronta a portare al Re una fetta di torta appena sfornata e costui gradiva quelle gentilezze. In un certo senso lo facevano sentire a casa, l’accoglienza per un esule è tra le cose che più si apprezzano. Il curato in modo diretto chiese al re un aiuto per una famiglia bisognosa. Si trattava di una moglie che aveva perduto il marito in mare, durante una notte di pesca. Questa donna ora si trovava sola e doveva mantenere cinque figli, e la vecchia madre che viveva con lei.  Si avvicinava il Santo Natale, non mancavano che tre giorni, e qualcosa di gentile bisognava fare per questa famiglia affinché passasse un Natale sereno.  Il Re si dimostrò subito d’accordo nel sostenerli. Il cuore di Umberto era sempre aperto verso i bisognosi. Il prete lo vedeva alla fine della messa che dava qualcosa a quelli che gli tendevano la mano. Il curato ottenuto la promessa di assistenza, chiese al sovrano che venisse a vedere la casa di pescatori dove c’era bisogno d’aiuto.  Il prete  lo condusse in una strada poco lontana dove si vedeva una casa che aveva bisogno d’essere sistemata e bussò alla porta. La vedova andò ad aprire la porta ed accolse con gioia gli ospiti. Quando riconobbe il Re, che era molto noto in quel paese di pescatori, arrossì e si scusò per le condizioni in cui si trovava. Il sovrano le fece un gesto con la mano e le sorrise. Quando entrarono in casa la prima cosa che notarono furono  i cinque bambini che stavano a tavola davanti ad una scodella di latte, con del pane. I bambini subito si alzarono e salutarono gli ospiti. Il Re in cuor suo si sentiva triste nel vedere questi bambini che non avevano molto da mangiare. Nella stanza il fuoco del caminetto era quasi spento, vi ardeva un vecchio  ceppo quasi consumato. La donna volle a tutti i costi offrire qualcosa da bere e da una credenza tolse una bottiglia d’amaro, un liquore che elle stessa aveva fatto, raccogliendo delle erbe medicinali. Il re si mise a parlare con lei, e la donna raccontò che aveva perduto il marito in mare, e da qualche mese si trovava in difficoltà. I bambini nel frattempo avevano preso coraggio e il sovrano fece ad ognuno una carezza sui capelli. Il Re aveva dei figli e in quel momento pesava a loro. La donna aveva compreso che il sovrano che si era degnato di venire nella sua casa, li avrebbe aiutati. Il Re le strinse la mano e la donna gliela baciò, un gesto che le veniva dal cuore. Mentre il re salutava i bambini, comprese che il dolore in quella casa era stato devastante. Il curato si sentiva felice, aveva compreso che quella famiglia non sarebbe stata sola. Il Re salutò sulla porta della canonica il sacerdote promettendogli che avrebbe fatto qualcosa per loro. Quando rientrò in famiglia, venne accolto dai figli festanti, e andò vicino all’albero di  Natale, sotto al quale erano deposti dei doni da giorni. Il suo pensiero corse alla famiglia povera, loro non avevano l’albero così  ben addobbato, in quella casa non c’era il segno del Santo Natale. Il suo pensiero corse a quando da piccolo sua mamma lo portava a pregare davanti al presepe, o quando nella notte di Natale poneva assieme alle sorelle, il Bambino Gesù. Quella notte non riuscì a prendere sonno. Il mattino seguente chiamò il suo fido collaboratore e l’autista. Espose loro che bisognava portare dei doni alla famiglia di un pescatore. I regali dovevano essere comprati in paese e sarebbero consistiti in generi alimentari, libri da lettura e materiale scolastico per i bambini. Spiegò al suo collaboratore che avrebbe aggiunto anche una somma di denaro sufficiente per le necessità della famiglia per un lungo periodo, e che avrebbe ripetuto tale gesto anche successivamente. Il giorno del Santo Natale una macchina si fermava davanti alla casa del pescatore. Quando la vedova venne ad aprire si trovò davanti a ogni ben di Dio. I bambini sentendo le grida di gioia della mamma corsero e la loro felicità era inimmaginabile. Tra le cose che recapitarono alla famiglia, c’era anche un biglietto di auguri del sovrano. La donna era davvero felice e i figli non ebbero il coraggio di scartare subito i regali di Natale, perché volevano che la sorpresa durasse a lungo. Tra i regali c’era anche un presepe che fu subito collocato vicino al caminetto che aveva ricominciato ad ardere. Per quella famiglia era arrivato un Natale che non si aspettava. Da quel momento il Re tramite il curato continuò a farle del bene. Ogni tanto li vedeva alla Santa Messa, e quei volti non li avrebbe mai dimenticati. Nella solitudine dell’esilio questo gesto d’amore  lo aveva fatto sentire meno triste. La Regina Elena dal cielo avrebbe gradito di sicuro. La casa del pescatore ebbe delle imposte nuove ed altre manutenzioni furono eseguite. Quella notte di natale un  miracolo c’era stato per davvero.



















lunedì 26 dicembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, VIII parte

 


 

Riesce difficile a noi, oggi, dopo Mussolini, renderci conto dell'efficacia e della presenza del Re nella vita politica del Paese. La dittatura fascista ha trasmesso molte cattive, se non le peggiori, sue qualità alla vigente democrazia e tra queste anche il gusto del governo personale, del pratico annullamento della figura e funzione del Capo dello Stato. Drammatici particolari si apprenderanno da chi vorrà narrarli, sui conflitti tra Enrico de Nicola «capo provvisorio» e il presidente del consiglio Alcide de Gasperi, nel periodo seguente al a referendum del 2 giugno 1946: né si esclude che quel malessere costituzionale non si sia perpetuato con l'insediamento al Quirinale di un Presidente della Repubblica. La trascorsa democrazia non si faceva un problema dei rapporti tra il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio: essi erano regolati dallo Statuto, oltre che dalla fedeltà al Paese; non dall'osservanza agli interessi del proprio Partito. Nei peggiori momenti (si parla della crisi insorta attorno al dilemma sulla neutralità e l'intervento, nel 1911-15) tra il «dittatore» Giolitti e il Re, fu solo questione di «come» portare in buon porto la pericolante barca. Voglio dire che altre forze non interferivano a colorire di «europeismo» o di «universalismo cattolico» o di «internazionalismo», dei due tipi, gli interessi reali e permanenti dell'Italia. Noi abbiamo visto e vediamo scorrere sotto i nostri occhi una politica estera alla quale sono assai più interessati i paesi stranieri che il popolo italiano. Vediamo gli italiani esortati ad accettare uno stato di fatto assai simile a quello del «particulare» guicciardiniano; la morale del «Franza o Spagna... » con quel che segue sostituisce, poiché tutti i tentativi di risvegliarlo sono anche per legge puniti severamente, «quello spirito nazionale», non sinonimo di nazionalismo ma di qualche cosa di più e di meglio. Vittorio Emanuele attribuiva alla Triplice e alla politica estera «occidentale» dei suoi governi dei valori pratici e, a volte, immediatamente pratici. Bisognerebbe studiare con le statistiche alla mano i rapporti tra le esportazioni in Austria e in Germania dei vini pugliesi, toscani e piemontesi e l'Alleanza con gli Imperi centrali.

La ricostituzione dei vigneti ungheresi e la produzione su scala mondiale dei Tokaj influirono molto sulla discesa in guerra dell'Italia accanto all'Intesa. Così per la politica francofila di Prinetti e di Visconti Venosta: l'apertura del mercato borsistico di Parigi alla manovra della conversione della rendita aiutò potentemente, come dicono i rapporti di Barrère, la politica di «ralliément» di Palazzo Farnese, suggerita dallo Stato Maggiore. Anche il mercato delle vacche sui territori africani, dopo che esclusi dal Marocco ed esclusi dall'Egitto dovemmo accettare lo «scatolone di sabbia», non era più imperialismo di quel che fosse la spedizione d'Etiopia del 1935; non era altro che il proseguimento della politica dell'emigrazione adottata dal Re Vittorio e dai suoi governi, anche controvoglia, come Giolitti che dovrà pure condurre a buon fine la spedizione di Tripoli.

Ad aiutare il Re concorrevano in parte le istanze irredentistiche. I due imperatori associati e le loro cancellerie non ignoravano le simpatie franco russe di Vittorio e di Elena: anzi quel matrimonio con la principessa del Montenegro voleva dire più che non dicesse e giornali come osservatori austriaci ne avevano già parlato con diffidenza.

Un acuto risentimento personale per la mancata restituzione della visita di Francesco Giuseppe a Umberto I, impronterà poi tutta l'influenza che Re Vittorio eserciterà sulle relazioni con Vienna. Viaggi e brindisi di capi di Stato nell'Europa prima del luglio '14 descrivevano agli occhi del mondo lo stato d'animo delle nazioni. È interessante osservare nel carteggio diplomatico quanta importanza si attribuisse allora ad un aggettivo o ad un'allusione; tenendosi in gran conto, allora, le parole.

Il giro delle capitali iniziato da Vittorio Emanuele il 10 luglio 1902 (l'accompagnava il francofilo Prinetti, ministro degli esteri), da Pietroburgo passò per Berlino senza toccare Vienna. Alla stazione di Trento, in territorio austriaco il treno reale venne acclamato dalla popolazione. Era un primo contatto con l'irredentismo attivo; il secondo, agosto del 1903, avvenne al confine goriziano dove il Re aveva ordinato di effettuare le grandi manovre dell'Esercito e le folle, accorse da Gorizia e da Trieste, salutarono il «loro» Re. «Non si può andare avanti» disse Golucowsky; e Francesco Giuseppe a Bulow: «Le dimostrazioni dei goriziani a Vittorio Emanuele sono una sfida alla mia pazienza». I dispiaceri di Francesco Giuseppe non dispiacevano del tutto a Guglielmo II che nel maggio 1903 venne in Italia a restituire la visita. Con Nicola II andò diversamente. Le manifestazioni dell'estrema sinistra e delle masse operaie contro il «boia russo» e qualche pettegolezzo attorno alle dichiarazioni di Vittorio Emanuele sull'atmosfera carica di terrore poliziesco delle città zariste raffreddarono per un po' la relazione, sostanzialmente antitriplicista, che andava stabilendosi con la Russia, sotto l'occhio amichevole di Barrère. Indubbiamente l'irredentismo avrebbe potuto offrire a Vittorio Emanuele mille pretesti per denunciare la Triplice. Ma era votarsi ad un disprezzato e irreparabile isolamento. Riconfermare i principii e la vitalità di quell'Alleanza era necessario, di volta in volta. Così Tittoni, accusato dalle sinistre di piegarsi al ruolo di testa di legno della politica estera del Quirinale parlò di «dilettantismo irredentista universitario e parlamentare» a proposito dei moti di Innsbruck (maggio e novembre 1903) durante i quali, tra gli altri, venne ferito Cesare Battisti.

domenica 25 dicembre 2022

Riflessione sui mondiali di Calcio: Marocco e dintorni

 I mondiali di calcio sono finiti, ogni nazionale è rientrata in Patria. Il poplo argentino ha tributato tanti onori a coloro che hanno vinto. Di questi mondiali rimarranno impresse tante immagini. Piccoli e grandi gesti del primo mondiale in un Paese arabo mussulmano, del primo mondiale giocato nel mese di Dicembre.

Non vi sono solo le immagini dei campioni del mondo ma, anche di coloro che hanno perso . Non potrò dimenticare la sequenza del Presidente Macron, che in modo spontaneo conformta la propria nazionale. Un gesto inusuale ma, per chi conosce bene la Francia anche abbastanza normale visto lo stretto legame tra Presidente e popolazione.

Vi è poi il quarto posto della nazionale del Marocco. La prima volta che una Nazione araba riesce ad arrivare tra le prime nazionali. Un squadra che ha suscitato tante simpatie, tanto che un giornale italiano ha dichiaratamente preso posizione in favore di questa nazionale. Una Nazione, il Marocco, che si appresta ad ospitare dall’ 1 all 11 Febbraio i campionati del Mondo di Calcio per Club e, nel quale gli inestimenti nel settore sportivo hanno dato i loro frutti.

Del ritorno in Patria dei “Leoni dell’Atlante ” che, nel 2028 festeggiaranno il centenario della fondazione, rimarranno impresse due immaggini. La prima dell’ autobus dei calciatori e la seconda del ricevimento dei giocatori di calcio da parte del Re. Due immagini che, ad un primo impatto possono apparire diverse, ma nella sostanza sono un tutt’uno. 

Queste due foto rappresentano, in modo plastico, l’alleanza tra il Re ed il Popolo, rappresentano l’essenza stessa della Monarchia. Ovvero, come disse Sua Maestà Umberto II di Savoia ” La monarchia non è mai un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini, sudditi e principi, incredibili volontà di sacrificio… Non deve essere costretta a difendersi giorno per giorno dalle insidie e dalle accuse. Deve essere un simbolo caro o non è nulla”. 

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Riflessione sui mondiali di Calcio: Marocco e dintorni | Mediterranews

sabato 24 dicembre 2022

IL RIPOSO DEL RE


CINQUE ANNI A VICOFORTE

di Aldo A. Mola

Centosessantun anni di Capi dello Stato: si ri-conoscono?

Dalla proclamazione del Regno d'Italia (14 marzo 1861), genitore dell’Italia attuale, lo Stato ebbe quattro Capi in 85 anni: Vittorio Emanuele II (1861-1878), Umberto I (1878-1900), Vittorio Emanuele III (1900-1946) e Umberto II (maggio-giugno 1946). I primi due riposano al Pantheon, in Roma. “Padre della Patria”, Vittorio Emanuele morì a soli 58 anni. Suo figlio fu assassinato da un anarchico quando ne aveva 56. Umberto II (1904-1983), nel 1948 iniquamente condannato all'esilio perpetuo, dispose di essere sepolto nell'Abbazia di Altacomba, antico mausoleo della Casa. Dal 1946 si sono susseguiti dodici altri capi dello Stato. Nel 150° della nascita del regno d'Italia (2011) il presidente Giorgio Napolitano fu al Pantheon.

   Dal 15/17 dicembre 2017 le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, sua Consorte, riposano nel Santuario-Basilica di Vicoforte (in provincia di Cuneo) monumento nazionale dal 1980. Chissà se un giorno un presidente della Repubblica visiterà il sepolcro del suo predecessore? Ogni giorno di più la Storia insegna quanto sia pesante il fardello del Potere Supremo, anche di un Paese a sovranità limitata qual è l'Italia odierna. Motivo di più per riflettere sul passato, a cospetto delle Tombe di Vicoforte, un borgo silente del Vecchio Piemonte, due passi da Dogliani, eremo del primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, monarchico e liberale.

Finalmente, quei giorni

Cinque anni orsono, il 15 e il 17 dicembre 2017, giunsero in Italia le salme della Regina Elena e di Vittorio Emanuele III. La loro traslazione era stata per decenni in vetta alle richieste di monarchici (partiti, movimenti, associazioni...), dell'Istituto nazionale per la guardia d'onore alle Reali Tombe del Pantheon e di tanti italiani rispettosi del passato. Verso fine Novecento, però, per i più prevalse il motto “prima i vivi, poi i morti”. Fu data precedenza alla richiesta di abolizione dell'esilio, in vigore dal 1° gennaio 1948, che colpiva Vittorio Emanuele di Savoia da quando aveva undici anni, e suo figlio, Emanuele Filiberto, nato a Ginevra il 22 giugno 1972. Il 23 ottobre 2002 il Parlamento approvò la legge costituzionale (in vigore dal 10 novembre successivo) che esaurì gli effetti dei primi due commi della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Essi privavano dei diritti politici attivi e passivi gli ex re di Casa Savoia, le loro consorti e i discendenti maschi e ne vietavano l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale. Rimasero in vigore l’avocazione allo Stato dei loro beni esistenti nel territorio nazionale e l'annullamento di trasferimenti e costituzioni di diritti reali sugli stessi avvenuti dopo il 2 giugno 1946, giorno “convenzionale” dell'avvento della Repubblica, che in realtà data dal 19 giugno seguente, come ricorda Argenio Ferrari in “Lex et Libertas in potestate Regis” (ed. BastogiLibri). La sorte delle Salme finì in un cono d'ombra.

   Alle 7.30 del 15 dicembre 2017, mentre appena albeggiava, il feretro della regina Elena di Savoia fu estumulato nel cimitero Saint Lazare di Montpellier, la città ove era morta il 28 novembre 1952 ed era stata inumata il 30 seguente. La Famiglia della regina fu rappresentata dall’avvocato matuziano Luca Fucini, componente della Consulta dei senatori del regno, munito di apposita delega. Malgrado la raccomandazione di assoluta riservatezza, la cerimonia fu ripresa dalle reti televisive France 2 e Montpellier Actualité, previamente informate dalla Maire, che officiò da protagonista. Alle 17.30 il feretro giunse al Santuario Vicoforte. Fu accolto dal conte Federico Radicati di Primeglio, delegato dalla Famiglia Savoia “per tutti gli atti necessari a estumulazione, traslazione e ritumulazione delle salme della regina e di Vittorio Emanuele III”, e dal Rettore del Santuario, monsignor Bartolomeo (Meo) Bessone, vicario della Diocesi di Mondovì. “Don Meo” impartì la benedizione di rito ed evocò la regina “Rosa d'Oro della Cristianità”. Uno storico, che da mesi affiancava il conte Radicati, aggiunse che per allietarsi dell'evento non era necessario essere monarchici. Bastava sentirsi italiani. La lapide reca la scritta “Elena di Savoia/ Regina d’Italia/ 1873-1952”.

   Tempestivamente informata dell'avvenuta traslazione, alle 17.45, poco prima che iniziasse la conferenza stampa convocata dal sindaco di Montpellier, la principessa Maria Gabriella di Savoia da Ginevra ne dette annuncio con una nota all'Ansa di Parigi. Ringraziò monsignor Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì, catechista insigne, il Rettore del Santuario, quanti avevano operato “nella discrezione raccomandata dal vescovo” e aggiunse: “A nome e per conto dei discendenti dei Sovrani che vissero cinquantun anni di matrimonio in unione con gli italiani nella buona e nella cattiva sorte e mentre ricordo mia zia Mafalda, morta tragicamente nel campo di concentramento in Germania, ove era stata deportata dai nazisti, esprimo profonda gratitudine al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che propiziò la traslazione delle Salme dei Nonni in Italia, in prossimità del 70° della morte di Vittorio Emanuele III e nel centenario della Grande Guerra, per la ricomposizione della memoria nazionale”.

   La notizia fece supporre che fosse imminente la traslazione della salma di Vittorio Emanuele III. Estumulato nella notte del 16 dal retro dell'altare di Santa Caterina di Alessandria d'Egitto, sempre presente l'infaticabile conte Radicati, il feretro arrivò in aereo militare all’aeroporto di Cuneo-Levaldigi e giunse a Vicoforte sul mezzogiorno del 17 dicembre. Fu tumulato con i dovuti onori e l'esecuzione del “Silenzio”: mezzo secolo di storia, grande e drammatica. Sul marmo del sacello è scritto “Vittorio Emanuele III / re d'Italia / 1869-1947”. Così il Re e la Regina Elena vennero ricongiunti in Italia. Su entrambe le arche è incisa la Stella d'Italia. A quanti domandarono perché fossero resi onori militari alla salma del sovrano venne ricordato che Vittorio Emanuele III si era spento quattro giorni prima che entrasse in vigore la Costituzione della Repubblica. Non morì affatto “in esilio” ma cittadino italiano “all'estero”. Si congedò  nella pienezza dei diritti politici e civili, di ex capo dello Stato e comandante delle Forze Armate.

Gli antefatti della Traslazione. Perché Vicoforte?

La tumulazione delle salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena a Vicoforte fu il punto di arrivo di un lungo percorso. La scelta prese corpo in una seduta della Consulta dei senatori del regno il 19 marzo 2011 a Roma. Fu scartato il Pantheon per indisponibilità di spazi idonei alla dignità di Tombe Reali e per previsti intralci di varia natura e perché non nacque come Mausoleo, qual venne ideato il Vittoriano. Del pari non venne ritenuta idonea la Basilica di Superga, ove sono sepolti i Re di Sardegna (a eccezione di Carlo Emanuele IV, sepolto a Roma), mentre Vittorio Emanuele III fu re d'Italia. Voluto nel 1596 quale Mausoleo della Casa da Carlo Emanuele I, duca di Savoia dal 1580 al 1630, il Santuario-Basilica di Vicoforte sorge nel cuore della Provincia Granda, seconda “culla” dei sovrani sabaudi che la vissero intensamente, dai Castelli di Racconigi e Valcasotto alle case di caccia disseminate nelle valli. Vittorio Emanuele III partì per l'Egitto il 9 maggio 1947 col titolo di conte di Pollenzo, il borgo che ospita la vasta tenuta regia poco distante da Vicoforte, ove seguì personalmente i poderi modello avviati sin da Carlo Alberto. Infine il Santuario, circondato dal verde e immerso nella quiete propiziata dal vasto spazio tra la sua facciata e la Palazzata (fatta erigere da Carlo Emanuele I), è affiancato dall'antico monastero cistercense, poi dei gesuiti e infine seminario vescovile: un complesso identico nei secoli e incontaminato. È il Grande Silenzio che si addice al riposo eterno.

   Il 7 gennaio 2013, previ ripetuti colloqui con il Rettore del Santuario, la principessa Maria Gabriella di Savoia e il presidente della Consulta espressero al vescovo di Mondovì, Luciano Pacomio, il “vivo desiderio di ricongiungere le salme di Vittorio Emanuele III e della regina Elena in Italia” proprio nel Santuario di Vicoforte, “che bene si addice ad accoglierle”. Prospettarono una cerimonia funebre “in forma strettamente privata, così unendo in morte due italiani che vissero insieme cinquantun anni di matrimonio”.

   Anche per far meglio apprezzare il Santuario da quanti ancora non lo conoscevano, il 16 marzo 2013 fu organizzato a Vicoforte il convegno di studi “Incontro Umberto II. Trent'anni dopo” con la partecipazione di Amedeo di Savoia, duca di Aosta, che nel 1997 vi aveva presieduto il convegno su “L'Italia nella crisi dei sistemi coloniali fra Otto e Novecento”, con interventi di Eddy Sogno, Oreste Bovio, Franco Bandini, André Combes, Fernando García Sanz, Antonio Piromalli e altri. Al termine del convegno la presidente della Provincia, Gianna Gancia, poi europarlamentare, esortò a esaudire il voto degli italiani non immemori della storia: dare sepoltura in Patria al re e alla regina d'Italia. Il 22 aprile 2013, sentiti il consiglio di amministrazione del Santuario e il suo rettore, il vescovo accolse l’istanza. Ricordò che Carlo Emanuele I in visita al Pilone dal quale ebbe origine la Basilica aveva affermato “questa terra è santa, deponiamo i vecchi calzari”. Chiese però l'impegno a “mantenere il profilo strettamente privato” della tumulazione, da attuare “nella forma più discreta, con la collaborazione dei Responsabili del Santuario”. Avvalorò l'iniziativa alla luce della parola del salmo 39,13: “Siamo tuoi ospiti, pellegrinanti, come tutti i padri nostri”. Così andava fatto.

   Quattro anni dopo, a coronamento di lunghi preliminari sorti da fortunate convergenze, il 10 maggio 2017 il principe Vittorio Emanuele di Savoia e la principessa Maria Gabriella, anche a nome delle sorelle Maria Pia e Maria Beatrice, scrissero al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, auspicando che il Centenario della conclusione della Grande Guerra offrisse motivo per congiungere le salme del “Re Soldato” e della sua Consorte “in Italia”. Previ numerosi incontri con il Rettore e il presidente della Consulta, l'architetto Claudio Bertano approntò il progetto in fitto dialogo con la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo. Venne così avviato l'intervento nella Cappella di San Bernardo per “la realizzazione di monumenti/arche funerarie in marmo” in cui deporre “i resti di due persone meritevoli di speciali onoranze”, non nominativamente specificate. Il 6 novembre il vescovo e il rettore inoltrarono alla Soprintendenza il progetto, che fu approvato. Con rapidità e assoluta riservatezza vennero espletate le complesse procedure previste dalla deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte 8 maggio 2012, n. 27-3831 per il rilascio di “autorizzazioni concernenti l'individuazione di siti idonei a tumulazione in località differenti dal cimitero ex art. 105 D.P.R. 10 ottobre 1990, n. 285 e art. 12 L.R. n. 2020/2007”. Acquisiti ope legis tutti i documenti necessari, in pochi giorni ebbero corso estumulazione, traslazione e ritumulazione. Consiglieri Presidenziali dall'occhio d'aquila, usi a intuire e a superare ostacoli altrimenti insormontabili, vegliarono da lontano e da vicino affinché nulla fosse lasciato al caso e tutto procedesse nel massimo riserbo. Come infatti avvenne.

   Con pubblica dichiarazione il 17 dicembre, al termine della sepoltura di Vittorio Emanuele III, il conte Radicati precisò che il rito si era svolto “nelle forme proprie di una cerimonia privata”.

Alcune incomprensioni

Alle 21 del 15 dicembre 2017 Vittorio Emanuele di Savoia emanò una “nota” sulla tumulazione della salma della regina Elena “presso il Santuario di Vicoforte”. Deplorò che si fosse svolta “in totale anonimato” (invero, il 17 ad attendere il feretro del re si affollarono decine di giornalisti e radio/video operatori, garbati e compunti) e rivendicò il Pantheon per “il riposo dei sovrani sepolti in esilio”. Con encomiabile tempestività poco dopo rese omaggio alle tombe in Vicoforte. La traslazione suscitò un ventaglio di dichiarazioni polemiche contro la figura di Vittorio Emanuele III, colpevole dei tre “colpi di Stato” che lo “storico” Luigi Salvatorelli, a volte indulgente a polemiche inconsistenti, gli attribuì nel 1950: l'intervento dell'Italia nella Grande Guerra (24 maggio 1915); la mancata proclamazione dello stato d'assedio e l'incarico a Mussolini di formare il governo (28-31 ottobre 1922); la revoca del “Duce” (25 luglio 1943). Altri aggiunsero la “fuga a Brindisi” (9 settembre 1943) e la firma delle leggi antiebraiche (1938) dalle conseguenze di lungo periodo, in specie  tra il 1943 e il 1945 nelle regioni governate dalla Repubblica sociale italiana e di fatto occupate dai tedeschi (al di fuori, dunque, da ogni responsabilità del re e del governo Badoglio).

   I promotori della traslazione avevano messo in conto la delusione dell'Istituto nazionale per la Guardia d'onore alle Reali Tombe del Pantheon (agevolmente superabile con l'adozione, in forma discreta, da convenire con le autorità competenti, della guardia anche alle tombe di Vicoforte) e l'irritazione di chi indica nel re (anziché nel Parlamento, come in effetti è) il “responsabile” delle leggi razziste. Qualcuno ritenne uno sgarbo non essere stato previamente informato. Non tutti ebbero chiaro che la deposizione delle Salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena nel Santuario di Vicoforte era un funerale privato, “della Famiglia”, non della “Casa”. Esigeva il necessario massimo riserbo, sia nel rispetto di quanto concordato con il vescovo di Mondovì, sia per scongiurare inopportuni schiamazzi e/o manifestazioni ostili, che avrebbero turbato la solennità dell'evento: la tumulazione del Re e della Regina sotto la cupola ellittica più grande del mondo.

   Già il 16 dicembre alcuni sedicenti “monarchici” protestarono che “tutti i Reali d'Italia” dovevano “quanto prima trovare sepoltura nell'unica sede ad essi deputata: la Basilica del Pantheon”. La complessa e impegnativa tumulazione nel Santuario di Vicoforte (da taluno sminuito a “chiesetta di campagna”) andava dunque considerata del tutto effimera e sanata con altra immediata traslazione. Cinque anni dopo qualcuno continua a ripeterlo. Parlare è facile. Tra tante professioni di indignazione (certi “istituti storici”, parlamentari, circoli e associazioni varie) il sindaco di una città di qualche peso nella “Granda” affermò che non sarebbe mai andato a pregare in un santuario contaminato dalla salma di quel re. Se così dovesse essere, chi mai pregherebbe nella basilica di San Pietro a Roma, voluta da papa Giulio II che a ottant'anni indossò l'armatura al grido “Fuori i barbari”? E poi la preghiera chiede forse un “luogo” che non sia l'“anima”? A cospetto di tante esternazioni polemiche il presidente della Repubblica Mattarella e quello del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, motivarono il concorso pubblico alla traslazione come “gesto umanitario”. Riecheggiò quanto proposto e sancito dal vescovo di Mondovì monsignor Luciano Pacomio: la “carità” nei confronti di “due persone meritevoli di speciali onoranze”, provate dal lutto (la morte della figlia Mafalda d'Assia in campo di concentramento in Germania) al pari di tanti italiani, “pellegrinanti, come tutti i padri nostri”.

   Per prevenire gesti inconsulti, il prefetto di Cuneo dispose che la cancellata della Cappella di San Bernardo rimanesse chiusa sino a quando le tombe non fossero tutelate, come sono, da videosorveglianza e sistema di allarme. Dal 28 dicembre 2017, 70° della morte di Vittorio Emanuele III, esse furono e sono meta di un numero crescente di “boni viri” d'ogni Paese che si raccolgono in meditazione su monumenti evocativi della Storia e ripetono con Ugo Foscolo: “la vostra tomba è un'ara”. Al di là di dispute irrilevanti, la traslazione delle reali salme a Vicoforte propizia la rivisitazione storiografica del lungo e travagliato regno di Vittorio Emanuele III e pacate risposte ai molti interrogativi ancora aperti sulla storia d'Italia. Dalla Cappella intitolata a San Bernardo, il monaco pellegrino fondatore dei cistercensi, venerato da cattolici, anglicani e riformati, Vittorio Emanuele III e la Regina Elena ricordano che sin dall'origine i Savoia furono europei, di un'Europa più ampia dell'attuale. Lo ha ricordato l'Ambasciatrice del Montenegro, Milena Sofranac, che lo scorso 6 novembre rese omaggio alla regina d'Italia nata cristiana ortodossa a Cettigne.

Aldo A. Mola

 

DIDASCALIA: La Cappella di San Bernardo del Santuario di Vicoforte ove da cinque anni riposano Vittorio Emanuele III e la Regina Elena. La continuità tra il Regno d'Italia e la Repubblica è documentata da Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere capo servizio al Quirinale, nel corposo volume “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica (1848-2022)”, Roma, Herald Editore (heraldeditore@gmail.com), 2022. 

domenica 18 dicembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, VII parte

 


Era una democrazia, se ci si passa il paragone, non distorta e rimodellata, al modo dei piedi, cinesi, negli stampi di ferro dei grandi partiti. Lo stesso socialismo che presto mostrerà le sue tare scismatiche non riuscirà mai a raggiungere la stabilità di grande partito e solo nel periodo della direzione di Mussolini l’Avanti! raggiungerà le sessantamila copie di tiratura.

Quella democrazia del quindicennio conservava, così, tutta l'agilità necessaria al gioco del proprio attuarsi. Anche se corrotti o dalle umane ambizioni e vanità o dalle loro passioni e dall'affigliazione all'idolo Giolitti (il «sinistro della malavita») gli italiani serbarono intatto il principio della fedeltà al loro paese, ch'era tutt'uno con altri principi comuni a repubblicani e monarchici, a Mazzini e Cavour, a Gioberti e a Garibaldi e, persino, alla vigilia dell'Internazionale, ai marxisti e sindacalisti che videro la guerra come un prolungamento della lotta di classe (Italia proletaria contro Imperialismo tedesco e austriaco), in cui le armi venivano fornite agli operai e ai contadini dal governo del Re. Il rivoluzionario Giuseppe Di Vittorio baciò la bandiera sabauda sulla piazza di Cerignola prima di partire bersagliere e il rivoluzionario Mussolini strinse la mano del Re in un ospedaletto da campo. Quella guerra faceva gli italiani e completava l'Italia: era un ideale (se possiamo ancora adoperare questa logora parola) pertinente al senso comune: tutti lo afferravano, in altri termini. Anche se l'eloquenza e le tragedie di d'Annunzio contribuivano a imbrogliare, accendendole, le fantasie degli italiani, gli italiani capivano all'ingrosso, che si trattava di una faccenda seria: completare la loro indipendenza e aprirsi ad una più libera vita economica europea.

Negli atti, nei pensieri, nelle parole degli uomini — di quasi tutti gli uomini eminenti di «quella democrazia» — si scopre una rigorosa coerenza. L'unità morale degli italiani offri resistenze insospettate in occasione del disastro di Caporetto in cui sì volle, per amore di polemica, ricercare le responsabilità assai più nell'ambito della politica interna che in quella della mera condotta tecnica e psicologica della guerra Un più freddo esame, come è mostrato nel testo, indica il vero 'valore (che non contrasta o spezza l'omogeneità della democrazia di quel tempo) di taluni deprecatissimi giudizi e discorsi, come quello del Treves, nell'estate del 1917. Della lettera circolare di Benedetto XV ai capi dei belligeranti si vedrà quale giudizio, anche se non tenero delle influenze vaticane, lo stesso Vittorio Emanuele dette a Lloyd George e ai ministri e generali alleati a Peschiera.

La vita dello stato e la nostra storia si svolgevano secondo ragione: si continuava la drammatica lotta per l'indipendenza, il processo formativo del Risorgimento confluiva nel lavorio di trasformazione della società italiana, già tratta dalla rivoluzione liberale dai suoi stati» economici medioevali e avviata per vigorosi e, a volte, tragici, impulsi delle correnti socialistiche a conquiste sempre più larghe.

Questa «trasformazione» fu il motivo dominante del lungo regno di Vittorio Emanuele III. Per accelerarla i suoi governi favorirono il sorgere è l'affermarsi di una borghesia industriale nel settentrione, arbitra traverso il pilotaggio delle masse, della vita economica del Paese; per offrirle lavoro e spazio, si imbarcarono nelle imprese coloniali e per allargare (« il sacro egoismo ») le possibilità di espansione economica di fronte alla gigantesca incombente industria germanica., l'Italia entrò nella coalizione occidentale, destinata (nelle sue ultime finalità) a ridurre il potenziale produttivo tedesco e a dissolvere l'impero austro ungarico in unità nazionali, facili, ulteriori mercati per le potenze vincitrici.

Il Patto di Londra e i compensi in Africa allargavano le possibilità di una colonizzazione «interna», che poi, il Fascismo effettuò razionalmente; i diritti di prelazione dell'Italia sull'Etiopia restavano intatti. Il complesso di queste finalità non mutò nel periodo di «sospensione» della democrazia, nel ventennio 1922-1943. Mussolini riassunse i motivi delineati nella politica estera italiana dall'avvento all'intervento e li svolse. Appare sempre più ovvio il sarcasmo dell'imperialismo» di quella politica che sebbene dell'imperialismo recasse i segni esteriori usciva dal Patto di Londra e persino, indirettamente, dal «parecchio» giolittiano. Sulla via di quell'u imperialismo» non ci spingevano, come denuncia Miti, le stesse potenze occidentali, democratiche e liberali, suggerendo una spedizione nientemeno che in Georgia, alla quale — eterni illusi — ci preparammo, persino, e vi profondemmo inutilmente il denaro pubblico?

Come non condivise e non approvò, probabilmente, le idee di suo Padre, Vittorio Emanuele III non mostrò simpatie per la Triplice e una volta Re cominciò a demolirla lentamente.

Il trattato, in effetti, aveva apportato all'Europa e all'Italia un trentennio di pace e di prosperità. Ma prendeva in termini di libertà quanto offriva in termini di sicurezza e di benessere.

All'ombra della Triplice l'Italia compì la conversione della rendita e l'assodamento di una struttura statale che il regno di Umberto I, tra moti sociali e guerra d'Africa, aveva notevolmente indebolita. Probabilmente, però, le forze rivoluzionarie che tendevano a disgregare la Triplice ripetevano i loro caratteri storici dall'anno 1848. Sotto questo punto di vista Re Vittorio interpretava nel senso più genuino la funzione e le origini del suo potere nato dalla rivoluzione liberale. I due Imperatori associati non s'illusero mai molto sui suoi sentimenti, sebbene Guglielmo abbia sperato sino agli estremi aneliti dell'Alleanza, telegrafando al re d'Italia: «Ho la più completa fiducia in Te» e l'altro, evadendo abilmente, a riaffermargli essere l'Italia intenzionata a rimanere in pace e in amicizia con «tutti ».

Erano le parole con le quali iniziò la politica estera del suo Regno (11 agosto 1900) nella constatazione dell'unanimità di cordoglio fattasi sulla salma di suo padre. Era già una dichiarazione di neutralità quel proporre l'Italia come «efficace strumento di concordia» tra le nazioni. Dopo meno di un anno un ingegnere e commerciante milanese, il Prinetti, va a ministro degli esteri. Il programma del Governo (Zanardelli presidente e Giolitti agli Interni) conteneva la dichiarazione concordata col Re: «serbare fede ai trattati e intrattenere rapporti di amicizia cordiale con tutte le Potenze». Era quella politica che venne detta dei due ferri al fuoco » o, con minore eleganza, del «cane del giardiniere»; solo più tardi Bulow la dirà del «giro di valzer» e Giolitti, impagabilmente, del «ballo sulle uova»; in definitiva la politica di un paese a limitata indipendenza.

Vittorio Emanuele favorì in ogni modo chi potesse aiutarlo a rendere sempre più larga quest'indipendenza. Il suo intervento personale e costituzionale nelle decisioni maggiori non è più da provarsi. Il Re regnava e crisi di poteri sino alla «sospensione» del ventennio non se ne verificarono più. Il «torniamo allo Statuto» del Sonnino aveva ridato colore e corpo alla figura piuttosto pallida del Capo dello Stato; la personalità forte e dura, pratica e precisa di Re Vittorio quei poteri rendeva più efficaci ed effettivi con l'esercizio di una sovranità dinamica non soltanto nell'esteriore ma nel significato e nelle conseguenze politiche di certe azioni.

Capitolo XXIX: La bellezza del Natale .

 


 di Emilio Del Bel Belluz

 

La vita lungo il fiume procedeva. Si avvicinava dicembre, il mese più freddo e meno pescoso. Vittorio avrebbe impiegato il tempo libero ad ultimare dei lavori sulla sua casa che necessitava sempre di ristrutturazioni. Una settimana la impegnò per sistemare il tetto della casa che perdeva da troppo tempo. Il lavoro non fu facile, anche a causa del freddo, e solo con l’aiuto d’un vicino il lavoro fu portato a termine a regola d’arte. I bambini seguivano la scuola con diligenza ed impegno, non occorreva dirli di studiare. Spesso alla sera si mettevano in cucina vicino al fuoco per studiare. Erano così silenziosi che si sentiva solo lo scoppiettio di un vecchio ceppo, che era pieno di tarli, che ardeva nel camino. Vittorio e Elena aspettavano che andassero a letto, per sistemare le ultime cose. Quell’inverno fu rigido, la legna non bastava mai, la casa poi era vecchia e piena di spifferi, ma bastava pensare a chi stava peggio per sentirsi più fortunati. Vittorio pensava a quella casa come se fosse una barca, una gigantesca barca. Niente poteva metterla in difficoltà. Gli veniva in mente spesso la storia di una famiglia che viveva in una grande barca rovesciata che avevano trasformato in una casa. L’aveva letta in un libro di cui non ricordava né l’autore, né il titolo, ma l’aveva letto con molto interesse, come tutto ciò che riguardava la pesca. La famiglia viveva con la pesca, il loro mondo era fatto di barche e di reti, per il resto andava come il buon Dio voleva. Spesso immaginava di andare con loro a pesca, alla caccia di un grande e raro esemplare di pesce. Vittorio con la sua barca aveva pescato dei pesci piuttosto grandi ma non sempre erano sufficienti per arrivare a fine mese. C’erano dei momenti in cui calava la rete e si rivolgeva a Dio chiedendogli aiuto che non gli aveva mai negato. Confidava sempre nella Divina Provvidenza. Dicembre è il mese più magico dell’anno perché si festeggia il S. Natale e le case vengono allietate dalla presenza del presepe. In quei giorni aveva parlato con i suoi ragazzi, dove collocare il presepe. Lo scorso anno aveva detto che avrebbero cambiato qualcosa, la stalla dove Gesù era nato doveva essere fatta in modo diverso. La piccola stalla doveva avere un posto più ampio per gli animali del presepe. Il figlio più grande si era impegnato a scolpire qualche statuina in legno. Da settimane lo si vedeva con uno scalpello che modellava un pastore con una pecora sulle spalle e un vagabondo con una lampada. Queste due statuine dovevano in qualche modo arricchire il presepe. Il ragazzo aveva avuto delle difficoltà e per questo si era rivolto con molta umiltà al suo maestro. L’uomo lo aveva accolto con molta gentilezza nella sua casa e si erano messi a lavorare accanto al fuoco. Il vecchio viveva solo e riusciva a campare con qualche semplice lavoretto, la gente lo cercava perché sapeva quanto fosse bravo. La visita del ragazzo lo fece felice, stava preparandosi la cena, sul fuoco borbottava una pentola con la minestra di fagioli. Il profumo intenso si mescolava con l’odore del tabacco, l’uomo aveva sempre tra i denti la sua pipa. Il profumo che si era espanso nella casa era piacevole. L’uomo si fece mostrare le due statuine e le prese tra le mani. Si accorse subito che qualcosa non andava, l’errore non era grave, e si poteva sistemare. Il vecchio con la pipa in bocca e il cappello da marinaio si mise a raccontare una storia che gli era capitata proprio nel periodo della Grande Guerra. Una volta mentre si trovava in trincea fu colpito da una scheggia di bomba che gli aveva procurato una ferita lacerante sul braccio. Fu ricoverato in un convento che era stato adibito ad ospedale. Nella stanza dove fu collocato c’era una dozzina di letti. L’ambiente era saturo dell’odore dei disinfettanti. Quell’ospedale era un luogo molto tranquillo, non si sentiva il rombo della guerra, sembrava che tutto si fosse fermato, ma a ricordare che il conflitto non era finito era il continuo sopraggiungere di nuovi feriti dal fronte. Le infermiere che si prendevano cura di loro erano le suore del convento, e una rigida superiora che vigilava sul loro operato. Costei non scherzava mai e il suo volto era serio e voleva che ci fosse ordine in ogni cosa che si faceva. In quel periodo venne ricoverato un soldato che presentava una ferita alla testa, una persona dal volto gentile, che non si lamentava mai. Una notte stava male ed era salita la febbre. La superiora aveva avvertito il medico che, una volta visitatolo, aveva espresso una prognosi sfavorevole. Disse inoltre che per la sua guarigione ci sarebbe voluto un miracolo. La superiora non disse nulla, chiamò una suora che rimanesse vicino al soldato che stava male. Gli diede delle indicazioni, dal mio letto vedevo il volto di questa suora che era molto bello, doveva avere non più di vent’anni. La osservavo e non dicevo nulla, spesso la suora mi guardava e ad un certo punto mi chiese come stavo. Fu così che ci scambiammo qualche parola. Le diedi una mano per sollevare il ferito che si lamentava in continuazione per i dolori. Il soldato aveva superato la notte e ciò era di auspicio per una facile guarigione. Alla mattina la suora mi salutò con un sorriso, da tempo non vedevo un volto sorridente e dolce. Quel soldato con il passare dei giorni divenne sempre più forte e si ristabilì. Ebbi modo di parlare con lui del periodo bellico e della speranza che nutrivamo che tutto quell’orrore potesse finire. Era un maestro di scuola, poi aveva dovuto andare in guerra. Questo giovane mi confidò che la prima notte in cui la suora lo aveva assistito non aveva mai perso conoscenza e sentì tutto quello che ci eravamo detti. Non vedemmo più quella suora così giovane e così gentile, sapemmo che era stata spostata in una struttura diversa, e questo ci dispiacque. Nei giorni successivi il giovane mi insegnò a disegnare e a scolpire il legno, divenne un mio maestro. Mi trasmise la passione per la scultura. In quel periodo in cui eravamo ricoverati in ospedale, ottenemmo il permesso di costruire una Madonna in legno, che ci impegnò per dei giorni. Questa statua poi fu collocata nella chiesetta dell’ospedale e posta vicino al presepe. Passarono degli anni, e un giorno mi trovai casualmente a passare vicino al convento dove ero stato ricoverato durante la guerra e sentii l’esigenza di entrare a rivedere quel posto. Allora suonai alla porta, venne ad aprirmi una suora che con molta gentilezza mi chiese cosa desiderassi. Costei mi sorrise, era quella dolce suora che aveva assistito quel ferito grave che doveva morire. Le dissi che mi ricordavo di lei e dopo pure lei si rammentò di quella notte che assistemmo il mio amico, di cui non avevo avuto più notizie. Le chiesi se quella Madonna in legno che avevamo scolpito fosse ancora in chiesa. La suora mi fece entrare, il convento era diventato una scuola, tanti bambini festanti giocavano. La suora mi portò nella chiesa e vidi la Madonna messa in un piedistallo vicino all’altare. Per un attimo sentii che la guerra qualcosa di buono aveva portato. La suora sorrise come aveva fatto la prima volta. Prima di andarmene volli toccare la statua della Madonna e sentii che la guerra era finta per sempre. La suora volle regalarmi un rosario prima di andarmene e salutandomi mi sorrise come allora.

lunedì 12 dicembre 2022

Lo Statuto albertino: la prima Costituzione degli italiani



Per la retorica dominante, la nostra nazione esiste nella misura in cui si fonda sulla Carta del 1948. Le cose, però, sono molto più complesse. Per vederci chiaro, partiamo dall’inizio



L'evoluzione delle forme di Stato e di governo che, dal 1861 al 1948, si sono susseguite in Italia richiede un’analisi puntuale e dettagliata al fine di comprendere non solo le scelte adottate in seno all’Assemblea costituente tra il 1946 ed il 1947, ma anche le successive trasformazioni tacite intervenute senza alcuna modifica della Costituzione formale attualmente vigente. A questo scopo è sufficiente iniziare l’indagine dallo Statuto albertino del 1848 giacché, come è stato rilevato (Paladin), i sistemi configurati dalle prime carte costituzionali della Penisola, cioè dalle costituzioni giacobine degli anni in cui gli eserciti francesi travolsero le preesistenti monarchie assolute, non hanno rappresentato che un fenomeno effimero, senza precedenti storici e senza conseguenze che si siano proiettate al di là della caduta dell’impero napoleonico. Viceversa, a seguito della proclamazione del Regno d’Italia avvenuta con la legge 17 marzo 1861, n. 4761, lo Statuto albertino divenne il primo testo costituzionale dello Stato italiano.

Un luogo comune sullo Statuto albertino

La qualifica di Costituzione «flessibile» attribuita allo Statuto albertino del 1848, vigente fino al 1944 per essere abrogato dalla cosiddetta Costituzione «provvisoria» (decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151), nonostante il preambolo lo definisse «legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia», si ricollega tradizionalmente alla forza formale della Carta in relazione alla legge ordinaria statale e alla sua posizione nella gerarchia delle fonti di produzione del diritto. Pertanto, è considerato flessibile quel testo nella quale le norme costituzionali, sebbene logicamente e politicamente sovraordinate rispetto alle norme legislative ordinarie, possono in qualunque momento essere modificate, abrogate o derogate con leggi ordinarie.

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Lo Statuto albertino: la prima Costituzione degli italiani (ilprimatonazionale.it)

domenica 11 dicembre 2022

Luigi di Savoia Aosta, Duca degli Abruzzi


di Marco Valle

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Un uomo, tante vite e tanti sogni che divennero imprese. Ecco Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, un personaggio poliedrico, affascinante e decisamente anticonformista. Anche troppo per i suoi reali parenti. Con l’eccezione di uno spirito libero come la regina Margherita, moglie di re Umberto e tutrice di Luigi dopo la morte, a soli trent’anni della madre, gli altri membri di Casa Savoia faticarono a comprendere Luigi o non lo capirono del tutto. Racchiusi in logiche dinastiche passatiste, per tutti o quasi i Sabaudi il terzogenito di Amedeo, l’effimero re di Spagna, venne visto come un simpatico eccentrico, il parente eroico ma bizzarro.  Talvolta ingombrante, persino fastidioso.

Il cugino Vittorio Emanuele III, che pur lo stimava e gli era a suo modo (ovvero ad intermittenza e parsimonia…) amico, gli negò pervicacemente il permesso per sposare Katherine Elkins, il grande amore di Luigi. La ragazza, figlia del senatore statunitense Davis Elkins magnate del carbone e dell’acciaio, era pur sempre una borghese, certamente ricchissima ma protestante e cosmopolita mentre Vittorio voleva appioppare a Luigi una granduchessa dei Romanov o qualche aristocratica balcanica. Risultato niente nozze e tanti flirt in giro per il mondo con una sorpresa finale (ma lo vedremo dopo).

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 Luigi Amedeo di Savoia Aosta, il principe avventuroso (e rubacuori) (ilgiornale.it)

venerdì 9 dicembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, VI parte

 


Il nome del generale Armando Diaz, tratto dalla oscurità di un comando di corpo d'armata, apparve all'improvviso in primo piano.

Si vedrà nel testo, per quali vie si concretasse quella decisione, sebbene non tutte le circostanze siano chiare. Vittorio Emanuele si vantò della scelta come di un personale successo (ed effettivamente lo era), ma la natura di questa scelta e i criteri che la dettarono rimasero imprecisati. In distanza possiamo dire ch'essa partecipava tanto di una ispirazione improvvisa quanto di una meditata riserva mentale. Il «Re fotografo», dimostrò di essere effettivamente il «Re vittorioso».

L'episodio in sé, contribuisce a chiarire ancora una volta l'interventismo risolutivo del carattere di Re Vittorio. Egli, quasi sempre scarsamente fiducioso negli altri, impiegava — alla fine — i poteri a sua disposizione per «muovere» la storia del suo Regno. In questo senso non si capisce come possa attribuirglisi un «partito di corte», simile a quello che Umberto I tollerò ed ebbe. Vittorio Emanuele III « regnò», ma in talune circostanze emergenti «governò» poiché toccava a lui. Nessuno penserà che la crisi di Caporetto sia stata superata dall'on. Orlando o la liquidazione del fascismo determinata dal duca d' Acquarone che eseguiva, non si sa ancora se bene o male, ordini precisi.

Né la cosiddetta «dittatura» di Giolitti può considerarsi e capirsi «fuori» della diretta influenza del Re Vittorio, che per un lungo decennio e più controllò Mussolini direttamente e, dobbiamo crederlo, in termini non blandi se il dramma della Diarchia (al quale era sfuggito Giolitti) si annunciò tanto presto e così virulento.

Dalle righe seguenti si vedrà come si pervenne alla demolizione della Triplice alleanza e si potrà osservare, sebbene di volata ed esposto con inevitabile aridità, quel quindicennio della politica estera in cui non si saprebbe ignorare il costante, attentissimo e, direi, esclusivo contributo del Re.

Difficilissima politica quella delle «alleanze» e delle «amicizie»: alleanze con le Potenze centrali e amicizie con l'Intesa occidentale. Si trattava di resistere alla lusinga sempre più perentoria dell'«invincibilità» tedesca e austroungarica e a non «credere» a quella, troppo interessata ai fatti compiuti, della Francia. Tutto ciò mentre crisi sociali (ch'erano crisi di crescenza) non contribuivano al «prestigio» così detto dell'Italia e gli ambasciatori stranieri (compreso lo stesso Barrère, pur così assiduo corteggiatore delle simpatie italiane) tenevano nei nostri confronti un linguaggio da sprezzanti ospiti di colonie tropicali.

In qualche modo il Re che capiva di dover avviare alla vita statale le masse contadine e quelle operaie, di più complessa composizione, non si preoccupò del «prestigio».

I termini della politica estera italiana nel quindicennio tra l'avvento al trono e l'intervento, recavano nomi assai più concreti e sostanziosi: si chiamavano «conversione della rendita», a risoluzione di massima dei problemi operai», a «posto al sole», in Africa, identificazione di finalità pratiche che troviamo, quasi tutte, nelle scarne linee delle memorie di Giovanni Giolitti.

Quelle finalità non cesseranno con la sospensione degli ordinamenti liberali del ventennio fascista: verranno perseguite dal Mussolini al quale, effettivamente, nell'animo di molti in Italia si prestò sin quasi allo spirare del primo decennio fascista, l'intenzione di adottare come uniforme, sebbene di taglio aggiornato, il palamidone di Giolitti. Preferì, ahinoi, i gradi di caporale di onore.

Quella indifferenza al «prestigio», in un mondo in cui la corsa agli armamenti era cominciata il giorno della presentazione a Napoleone III del primo cannone Krupp a tiro rapido, veniva compensata dalla crescente forza militare e specialmente navale dell'Italia. La guerra dì Tripoli, inizio del ciclo di guerre continentali non ancora chiuso, controllata dalla diplomazia franco inglese da un lato, austro tedesca dall'altro (a il ballo sulle uova» di cui parla il Giolitti) servì a porre in allarme l'Inghilterra per quello, che, sul mare, gli italiani, se non allora, avrebbero più tardi dimostrato di saper fare.

L'amicizia dell'Italia in un eventuale conflitto contro le Potenze centrali o qualsiasi altro avversario a oriente fu ricercata e dettata da circostanze strategiche immutabili: per la Francia la necessità di sguarnire la frontiera sudorientale delle Alpi, e per l'Inghilterra quella di non trovare nel bel mezzo della strada per le Indie un avversario temibile. S'era già lontani dalla cinica e piuttosto orgogliosa dichiarazione di chi disse, a proposito della nascita nel Mediterraneo di una Italia unitaria e indipendente: «Tanti più porti avrete tanto più sarete vulnerabili dalla squadra inglese»,

Anche tra i due fronti di questa politica estera, insomma, una forza reale, indiscutibile, crescente, sosteneva e coronava l'opera del Re e della democrazia traverso la quale egli governava.

giovedì 8 dicembre 2022

L’anniversario della morte della Regina Elena. seconda parte


 di Emilio Del Bel Belluz 



Sono passati settant’ anni dalla morte in esilio della Regina del Montenegro, moglie del Re Vittorio Emanuele III, pure lui morto in terra straniera il 28 dicembre del 1947. La regina degli italiani chiuse la sua esistenza terrena il 28 novembre 1952, a Montpellier, in Francia. Anche in terra straniera continuò a prodigarsi per i poveri, le persone sofferenti, i disagiati e per tutti quelli che erano considerati gli ultimi e, pertanto, rifiutati dalla società del tempo. La mamma degli italiani, la mamma della carità aveva sempre avuto nel cuore il bene dell’umanità. Si considerava prima di tutto una mamma e poi una regina che aveva vissuto in Italia a fianco dell’uomo che aveva conosciuto nel 1896 alla mostra di Venezia e che subito ne era stata colpita. Lo stesso principe Vittorio Emanuele III, vedendola ne rimase attratto non solo dalla sua bellezza, ma anche dalla sua dolcezza, perché Elena oltre ad essere una bella donna, alta, aveva un viso e dei modi di fare dolci. La buona Elena era nata l’otto gennaio del 1873 a Cettigne in Montenegro, figlia del Re Nicola I, era stata abituata ad essere una persona di buona educazione, anche se il Regno del Montenegro allora era un piccolo stato con una economia piuttosto povera. La gente viveva di pastorizia ed era famosa per la produzione di fichi. La buona Elena proveniva da una famiglia numerosa, aveva altri undici fratelli. L’ambiente famigliare era molto legato alla tradizione e si godeva di una buona unione. Elena nutriva un grande amore verso i genitori e i fratelli. In famiglia ci si aiutava tutti, e c’era quella armonia difficile da trovare ai nostri tempi. La fortuna della sua famiglia era quella di essere benvoluta dallo Zar di Russia Alessandro III, che era padrino di Elena e che diceva sempre che il suo impero era formato dalla grande Russia e da un paese di trecentocinquantamila abitanti che era il Montenegro. La fortuna della famiglia consisteva nel fatto che godendo dell’amicizia dello Zar Alessandro III, la giovane Elena poté andare a studiare in Russia in un collegio dove vi si formavano le giovani delle più alto locate famiglie nobili di Russia. In quell’ ambiente la principessa Elena ebbe modo di studiare e di coltivare le sue passioni che erano la poesia e l’arte del disegno. Le sue poesie le pubblicava in una rivista letteraria russa con lo pseudonimo di “Farfalla azzurra”. In quel clima il suo cuore conobbe anche quella innata bontà che di solito si colloca nei migliori cuori, e non tutti possono avere la fortuna di nascere nobili oltre per casata ma anche per amore verso il prossimo. La sua anima pura era di grande orgoglio per la famiglia, ma nessuno avrebbe mai pensato che la principessa dal cuore buono avrebbe trovato il suo principe azzurro, che se ne parla solo nelle favole. Questo alla fine fu quello che le accadde, aver visto il principe solo due volte e poi la sua vita cambiò. La principessa scriveva: “Quando dal mio terrazzo scorgo il mare fondersi nella nebbia, che avvolge in un fitto velo le montagne e corre veloce e le fa sembrare qua e là a dei castelli incantati che sorgono dalle acque io penso a te, Venezia. Nei miei sogni di fanciulla io ti vedo città e poesia, dell’amore, e dei sentimenti, mi sento tua figlia, mi sento di amarti come una seconda madre”. Questa poesia forse nasceva dal fatto che proprio a Venezia aveva conosciuto il suo principe azzurro, e non era una cosa accaduta senza l’aiuto esterno di un politico italiano. Quel sogno si trasformò in un grande amore che durò tutta la vita, l’amore per il suo caro marito che le fece scegliere di professare la religione cattolica. Il principe era andato a prendere la sua sposa partendo da Napoli con il panfilo “Gaiola”, e dopo quattro giorni di navigazione arrivò ad Antivari.  Durante il banchetto in suo onore, il principe Danilo volle leggere alcuni versi della sorella Elena che stava per lasciare il paese per venire in Italia: “Disse la madre alla giovinetta: Se vuoi sapere com’è fatto il mondo, tieni sempre aperti gli occhi. Vide le belle montagne, vide le meravigliose vallate, vide lo splendore dorato del sole, le stelle lucenti, i flutti cupi del mare, le onde spumanti dei torrenti, i variopinti fiori dei campi e dei giardini, le fastose piume degli uccelli, i covoni delle messi oramai mature. Poi chiuse gli occhi, e solo allora vide ciò che vi ha di più bello; vide l’immagine di colui che aveva un trono nell’anima sua. Egli è venuto dal mare; è biondo come sua madre; come sua madre è pieno di grazia e ha nobile sguardo”. Questi versi di Elena esprimevano il suo amore per il principe. Il loro matrimonio fu una cerimonia semplice, senza teste coronate, perché i tempi erano difficili a causa della sconfitta di Adua. Davanti a sé non si prospettava un mondo pieno di rose, nel suo cuore sentiva le parole del padre che le diceva: “Non troverai la tua felicità sul trono, ma la incontrerai in famiglia, in un cantuccio della tua dimora”. La vita della coppia reale nei primi anni di matrimonio non fu allietata dalla nascita di figli. Questa preoccupazione non faceva dormire la regina Margherita che si aspettava di diventare nonna presto. A complicare le cose ci fu l’assassinio del Re Umberto I, ad opera nell’anarchico Bresci, il 29 luglio 1900. I principi si trovavano in crociera nello yacht Yela. Il principe e la consorte vennero subito avvertiti che il Re si trovava in gravi condizioni e fecero rientro in patria. Fu la regina Margherita che coraggiosamente disse che il Re era morto. Quello che accadde quando il principe Vittorio Emanuele incontrò la madre fu molto commovente. La donna gli buttò le braccia al collo, come una madre che cerca di consolare il figlio dalla morte del padre. La regina in quell’abbraccio trasferiva la sua forza a un figlio che ora sarebbe succeduto al padre. La regina Elena ebbe un grande ruolo nei mesi e negli anni che seguirono, nei momenti difficili e drammatici fu davvero valorosa. Penso al terribile terremoto che colpi Messina, dove ci furono migliaia di vittime. La regina accorse assieme al suo consorte per organizzare i soccorsi. Appena giunse la notizia del disastro, portarono i figli dalla nonna e partirono con un treno speciale carico di pompieri e di infermieri e a Napoli si imbarcarono nella nave “Vittorio Emanuele “e arrivarono a Messina. Un biografo scrisse: “Vestiva un semplice abito scuro: portava un berretto alla marinara, nessuno l’avrebbe presa per la Regina d’Italia. Sembrava un’infermiera, una suora di carità: il suo volto pallido e contratto dal dolore e dalla pietà si atteggiava a un dolce sorriso per confortare le centinaia di feriti ai quali volle con le sue mani prodigare le sue cure. In un momento d’emergenza, salì a bordo dell’incrociatore russo “Salvia”, giunto nel porto di Messina in quei giorni. Al comandante che, legato agli ordini di rotta, non poteva assumere iniziative personali, ella disse in russo: “Non è la Regina d’Italia, e nemmeno la principessa del Montenegro che vi parla, è una donna che vi chiede in nome dell’umanità di trasportare questi feriti a Napoli, salvandone un gran numero”. Quelli che si recano a Messina possono vedere una grande statua che si staglia e che fu dedicata nel 1962 alla Regina Elena, a riconoscenza del suo aiuto nel tragico terremoto del 28 dicembre 1908. Ci furono anche delle obiezioni da parte di alcuni contrari alla figura della sovrana; allora prese la penna in mano un grande scrittore come Giovannino Guareschi che difese la scelta di dedicare quel luogo al ricordo di una donna coraggiosa, di un cuore nobile, che si prodigò nella sua vita solo per il bene. Una delle date che la segnarono fu il 14 marzo 1912 quando si trovava in carrozza per andare alla messa in suffragio del Re Umberto I. Lungo il tragitto l’anarchico Giovanni D’Alba scaricò la sua rivoltella contro i reali. Elena riuscendo a capire che l’uomo voleva assassinare il Re, gli fece scudo con il suo corpo. I due reali rimasero incolumi, Il buon Dio li aveva protetti. Il gesto della sovrana di salvare il re rimase come esempio di grande generosità. Dopo l’attentato vi è un episodio che merita di essere raccontato per comprendere il carattere e l’animo della Regina. L’animo di madre ancora una volta trionfa, Elena fece visita alla madre dell’attentatore che era stato condotto in carcere, portandole degli aiuti alimentari e del denaro. Quel gesto di sicuro l’aveva fatto pensando allo stato d’animo della madre del giovane attentatore: una grande solitudine unita alla disperazione. Visitando quella donna dava l’ennesima dimostrazione di come un cristiano si comporta. Quando scoppiò la Grande Guerra la regina non ebbe nessun dubbio e trasformò il Quirinale in un ospedale, dove ebbero spazio i feriti più gravi che tornavano dal fronte. La stessa Regina Elena, come già aveva fatto a Messina, passava le sue giornate ad aiutare i medici nelle cure dei soldati sentendosi in un certo modo come una mamma. In quei terribili momenti della guerra strinse migliaia di mani di soldati morenti e pregando con loro. Si comportava come aveva fatto successivamente Madre Teresa di Calcutta che stringeva la mano a coloro che si cingevano a lasciare questa vita. Quei quattro anni di guerra furono drammatici per tutto il mondo, ma la Sovrana continuò sempre a visitare e curare i malati, infondendo loro una grande speranza. Una volta giunse all’ospedale di Asiago per visitare i soldati feriti e vide una stanza con la porta chiusa; ne chiese il motivo e Le fu risposto che all’interno vi era un soldato grave che stava morendo di cancrena. Nessuno resisteva in quella stanza fetida. Era un soldato abruzzese, la Regina volle vederlo e si sedette vicino al malato che la riconobbe e le sorrise. La regina d’Italia in quel momento fu per lui come una madre amorevole che vedendo il proprio figlio nel dolore, gli volle stare assieme, e la Regina gli fece compagnia mentre questi le raccontava della sua famiglia che viveva sperduta tra i monti e le valli d’Abruzzo. Una donna instancabile, che durante i periodi molto complicati della vita italiana, aveva aperto una mensa in Quirinale per i poveri che avrebbero trovato ogni giorno un piatto caldo, del pane e del formaggio. In quel posto aveva pure allestito un magazzino che conteneva l’abbigliamento per far fronte alle tante richieste di persone che bussavano alla sua porta. Rispondeva inoltre alle migliaia di lettere che riceveva di persone che chiedevano aiuto e cercava di soddisfare in qualche modo alle loro esigenze. Il suo impegno verso i poveri era senza limiti. Per fare della beneficenza aveva escogitato di vendere la sua fotografia con dedica in tanti posti d’Italia. Nel mondo della nobiltà aveva arruolato molte donne di alto rango che le fornivano il vestiario che poi devolveva ai bisognosi. Si dice che non ci fosse donna capace di dire di no alle sue richieste. Una volta andò a visitare a sorpresa un collegio dove venivano ospitati i figli dei detenuti, e quando suonò alla porta, la suora che aprì rimase basita perché aveva davanti la Regina d’Italia. In quel collegio si accorse che non erano ancora state fatte le pulizie e la Regina si fece portare l’occorrente per fare lei stessa i lavori. Dopo aver finito volle giocare con loro. Quando se ne fu andata, facendo le raccomandazioni dovute alle suore, fece arrivare in quel collegio dei doni e delle scope nuove oltre ad altro occorrente per le pulizie. Questa era la Regina Elena, una donna che non pensava da sovrana, ma il suo era un agire dettato dalle condizioni del momento, perché quello che contava era fare il bene delle persone bisognose, perché alla fine lei si sentiva una di loro. Mussolini riferendosi alla sovrana aveva detto che con Lei si poteva parlare solo su come risolvere le problematiche sociali e che era una donna che non si spostava dalla sua rotta che misurava il suo tempo dal bene che riusciva a fare.

 

Nel 1937 ricevette la Rosa d’oro della Cristianità da parte del papa Pio XI, che riconobbe in Lei la donna della carità. “Si era dedicata alla cura dell’encefalite letargica, per la quale volle far venire dai Balcani, una speciale erba ritenuta salutare. Questa sua passione le fece conferire l’Ordine Supremo della Croce Rossa Tedesca nel 1937, ed a guerra iniziata, nel 1941, le verrà conferita una laurea “ad honorem “in medicina, dall’Università di Roma. Amò anche indossare spesso il camice ed assistere ad operazioni chirurgiche”. (Historia –Guido Pietriccione)

 

Nel corso della seconda guerra mondiale cercò in tutti i modi di fermare la guerra. Scrisse pure una lettera alle mogli dei sei sovrani ancora neutrali, chiedendo loro di intervenire per la pace. Il dramma della guerra colpì ancora una volta la sua vita. Uno dei capitoli più difficili fu la perdita della figlia Mafalda, la sua secondogenita. Morì nella solitudine di un campo di concentramento, dove era stata richiusa da Hitler. La principessa Mafalda morì senza aver avuto la fortuna di poter rivedere i figli, e il marito che era lontano. La morte la colse il 28 agosto del 1944. Elena venne a sapere della scomparsa dell’adorata figlia solo un anno dopo. La Regina Elena non poté mai portare un fiore sulla tomba della figlia e questo fu un grande dispiacere. Alla Regina Elena non fu risparmiato nulla dalla vita, ogni tipo di dolore, ma ella con la sua forza seppe sempre superare, considerando ogni cosa come una prova che Dio le metteva davanti e che doveva accettare. Quando dovette salire su una nave assieme al marito Re Vittorio Emanuele III, e andare in Egitto ospite di Re Faruk, accettò questa sua sorte e ancora una volta sostenne le sue prove con il massimo impegno come sempre aveva fatto.” Il 12 maggio 1946 “Duca degli Abruzzi “entrava nel porto di Alessandria d’Egitto, pavesato a festa; 101 colpi di cannone salutarono l’arrivo di Elena e Vittorio in terra d’Egitto e re Faruk, ancora giovane, ancora snello, ancora trionfante di magnificenza orientale, era venuto a riceverli in persona “non come sovrani in esilio, ma come amici in visita”.

 

 Il mare ancora una volta era vicino a lei, una presenza che non l’abbandonava mai. Il Re Faruk che li ospitava fu davvero una persona straordinaria, gentile e dotato di un cuore d’oro. Nel mondo non è facile essere capiti e aiutati, quello che fece il sovrano d’Egitto Re Faruk non è facile da spiegare, uomo di grande umanità che trattò i Savoia come se fossero i suoi genitori. Aveva una grande simpatia per la Regina che sapeva essere donna di cuore. Nel momento della sventura molti fingono d’essere dispiaciuti, e non lo fanno con il cuore. La vita in Egitto fu quella di due persone che dovettero mutare le loro abitudini e dimenticarsi di come vivevano in patria. Quello che alla fine fece breccia nel cuore dei sovrani in esilio, fu la grande fede in Dio che non li avrebbe mai abbandonati. Il periodo più difficile fu quello del Santo Natale del 1947 in cui il Re si era dovuto mettere a letto, non si sentiva bene, gli anni non erano molti ma le battaglie che aveva fatto per il bene della sua patria erano davvero tante. Il dolore dell’esilio fu grande perché molti lo avevano dimenticato troppo presto. La sua morte è descritta molto bene nei libri. Fu un triste Natale quello del 1947, molto diverso da quelli che aveva passato fino ad ora in Italia, con la sua gente. Dicembre è il mese più magico dell’anno e per i cattolici è il mese della nascita del Salvatore che scende in terra per portare la pace, e la serenità. La morte del sovrano fu confortata dalla presenza della Regina Elena che gli era rimasta accanto sempre in tutti i momenti difficili, che non lo aveva mai lasciato solo, anche nelle decisioni importanti. Quel matrimonio benedetto da Dio nel lontano 1896, che aveva resistito alle tante burrasche e che ora continuava anche dopo la morte del re. Terribile il momento della sua morte, e irrefrenabile il pianto della Regina Elena. Nel cuore della stessa risuonavano le parole di conforto che le aveva detto al morente padre Ludovico Foschi che aveva impartito l’estrema unzione. Il Re teneva la propria mano in quella della sua amata Elena, la sovrana sentì attraverso la mano la morte che arrivava. Erano le 14.30 del 28 dicembre 1947. Al capezzale non era giunto in tempo il Re Umberto II, e questo era un segno del destino. I funerali vennero fatti in forma militare, la cassa fu posta su un fuso di cannone come si faceva per i personaggi. Un pezzo d’Italia lo pianse e il suo corpo fu sepolto in Egitto, in una tomba dove furono incisi il nome e cognome e la data di nascita e di morte. La sua esistenza si chiudeva in modo semplice, fu un uomo a cui nulla era stato risparmiato. I suoi meriti dopo l’avvento della repubblica furono cancellati, come si fa di solito per chiudere un periodo storico. In Italia molti dei suoi soldati che avevano combattuto erano ancora vivi e almeno loro lo ricordavano, per il suo coraggio e la determinazione su alcune scelte del Paese. Dopo la sua morte la Regina Elena, su insistenza dei figli e degli altri parenti, venne a vivere in Francia a Montpellier. La vita della Regina è stata spesso raccontata dalla gente italiana che viveva come lei lontana dal Paese, si trattava di italiani che lavoravano in Francia. Trascorreva i suoi giorni nell’aiutare coloro che abbisognavano di ogni cosa per vivere; diede fondo a tutti i suoi averi. Vedeva negli ultimi delle persone che potevano ancora migliorarsi, se aiutate e supportate da qualcuno. In poco tempo molti si accorsero di chi fosse davvero questa regina che vestiva in modo semplice e che passava in mezzo al dolore fermandosi a portare soccorso. Il mare era anche per lei il luogo dove si dedicava alla pesca, una sua grande passione e magari, immaginava il proprio figlio Umberto II, in esilio a Cascais che alla sera era intento ad ammirare il mare. Quando scrutava una nave pensava che fosse italiana e che lo riportasse in Patria. Il Sovrano non conosceva la parola odio che spesso veniva usata per diffamarlo. Il mare e i pescatori rappresentavano il suo mondo. La Regina Elena qualche anno dopo raggiunse il marito. Il suo ultimo pensiero lo rivolse alla famiglia e agli italiani, e a quella patria che l’aveva amata e onorata. Quando la morte la raggiunse il buon Dio ha raccolto il bene che ha fatto e le sofferenze che ha subito dalla vita. Quello che aveva fatto più male alla regina era di non poter rivedere l’Italia e abbracciare il suo popolo. Nessuna colpa le poteva essere attribuita: aveva sempre fatto il bene del Paese e quello di tanti bambini che non l’avrebbero dimenticata. Al suo funerale parteciparono cinquantamila francesi che avevano capito la sua grandezza e tanti italiani giunti da più parti d’Italia per darle l’ultimo saluto alla mamma d’Italia. Sono passati settant’ anni dalla sua morte e gli italiani attendono con impazienza che la Regina d’Italia, Rosa d’Oro della Cristianità nel 1937. e Serva di Dio dal 2001, possa essere fatta Beata. Questo sarebbe un riconoscimento ad una donna che Dio aveva creato per servire il popolo, non come Regina, ma come mamma che è il più grande titolo che una donna possa avere dalla vita. Per i settant’ anni dalla sua morte i giornali, eccetto rare eccezioni, non ne hanno parlato, ma a Motta di Livenza un grande artista ha dipinto un quadro che la ricorda, un’altra persona ha stampato un Santino che sul davanti riporta la foto della regina Elena vestita da crocerossina e sul retro è raffigurato S. Leopoldo Mandic’, anche lui proveniente dalla terra del Montenegro, una terra umile che ha dato i natali a due persone di grande umanità. Per l’anniversario della sua morte alcuni poeti Le hanno dedicato delle poesie. La dolcezza dei versi accompagna la sovrana Elena che amava pure lei scrivere delle poesie. Questi poeti sono: Omar Battiston, Monia Pin, e Antonella Montagner.