NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 31 maggio 2019

Vittorio Emanuele II


Il recente breve articolo pubblicato su "Il Giornale" e da noi ripreso è stata l'occasione per un nostro caro amico per tirare fuori dagli archivi un vecchio articolo del professor Salvatorelli, di ben altro spessore, comparso su “La Stampa” e pubblicato sul bollettino dell’Unione Monarchica Italiana del 1961 con la premessa che segue.


Anche questo articolo è breve,  di agevole lettura ma restituisce al Re la sua dimensione umana e politica di Padre della Patria.

Cosa che in questo periodo di obbrobri storiografici è quanto mai  necessaria.


Lo staff

Nella fioritura di studi riguardanti il Centenario della proclamazione del Regno è di preminente importanza il seguente sintetico articolo del Prof. Luigi Salvatorelli, apparso su «La Stampa» di Torino l’11 gennaio scorso. Specie considerando che il dotto autore non ha certo preferenze monarchiche, lo studio sembra perciò nel modo migliore celebrare nel rispetto della verità storica, non solo la figura del Padre della Patria come massimo artefice dell'unità, ma con l’accenno che vi si fa alla benemerenza del Re nel 1876 « per aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra consacrando definitivamente il regime parlamentare », diventa di particolare attualità politica mettendo in evidenza quale garanzia offra sempre l’Istituto monarchico, con il contrappeso della forza della tradizione, alla continua e travagliata aspirazione dei popoli verso più estese ”aperture” sociali.

 di Luigi Salvatorelli

E’ di dominio comune il detto, che la grandezza di Vittorio Emanuele II consisté essenzialmente nel comprendere che per lui si poneva necessariamente la scelta fra il salire a Re d’Italia, o il discendere a monsù Savoia: espressioni che risalgono a lui stesso.

Possiamo anche oggi, nel primo centenario dello Stato italiano unitario, ripetere il detto, ma con una modificazioni importante: la soppressione dell’avverbio « necessariamente ». La storia umana non è fatalità; e non lo fu neanche in questo caso. Quella scelta consapevole di Vittorio Emanuele II, fu atto di volontà libera, in risposta a una situazione non escludente per sé stessa una terza via: che egli rimanesse

La scelta libera ci fu: ma sarebbe errato considerarla come effettuata « ab origine » e perpetuamente rimasta senza modificazione. Il politico riuscito si distingue dal fallito — opportunista, o fazioso, o dottrinario, o moralista — innanzi tutto per questo: che non svolge un programma prestabilito in articoli e

paragrafi, come un progetto di legge o un regolamento amministrativo; bensì pone innanzi a sé certe finalità generali, certi obbiettivi d’insieme, e cammina verso di essi con una continuità d’indirizzo includente ogni inflessione, in un senso o in un altro, richiesta dalle circostanze.

Vittorio Emanuele II, la sera di Novara, non disse certamente a nessuno, e neanche a se stesso: voglio divenire Re d’Italia, a rischio di finire come un privato qualunque. Si propose invece — mentre la notte calava sul terreno della disfatta, e Carlo Alberto abdicatario si avviava verso l’esilio, e vicino al nuovo Re c’era appena un ministro — due obbiettivi, ch’egli vedeva indissolubilmente connessi fra loro: mantenere e consolidare il regno costituzionale di Piemonte; mantenere e consolidare la rappresentanza e il promovimento, per parte del regno medesimo, della causa nazionale italiana.

Vittorio Emanuele II fu politico autentico, di prima grandezza, secondo — nel campo governativo — solamente a Cavour, della cui superiorità ebbe sempre un certo fastidio e contro la quale egli recalcitrò talvolta; ma pur fastidìendo e recalcitrando; fornì all’opera di lui il fondamento necessario, con lo sprone o il freno (più il primo che il secondo) opportuno.

Nel quadro storico che conosciamo, è altrettanto inconcepibile una creazione dello Stato unitario senza l’uno, come senza l’altro.

Ambizioso certamente, Vittorio Emanuele II, e autoritario; e perfino, talora, millantatore. Ma in lui meglio che in altri si vede bene come il fattore personale sia indissociabile da quello politico-etico. Esso è il sale della vivanda, il motore della macchina. Stimolato dal desiderio di grandezza, dall’autocoscienza

di capacità, il politico crea la sua opera, che non sorgerebbe, o riuscirebbe diversa e inferiore, senza quello stimolo personale. La differenza in ciò, da un politico autentico all’altro si ritrova nel dissimulare più o meno, meglio o peggio, lo stimolo: affare di gusto, di estetica, piuttostochè portata storica e di giudizio morale.


La prima vocazione di Vittorio Emanuele II (rimasta poi sempre in fondo al suo animo) fu quella militare, bellica, colorata di romanticismo ottocentesco. Giova qui richiamare l’episodio del Duca dì Savoia (questo era il titolo dell’erede al trono), che la sera del 23 marzo 1848 affronta a notte per via, imbacuccato in un mantello coprenteglì la faccia, il presidente del primo Gabinetto costituzionale, Cesare Balbo, per chiedergli istantaneamente di non essere dimenticato nel formare i quadri dell’esercito che varcherà il Ticino.

Ma già dopo Custoza, nel periodo dell’armistizio, il suo interesse politico si sviluppò. Al generale Dabormida, suo familiare, domanda di essere messo al corrente sullo stato della mediazione franco-inglese, come sulla situazione ministeriale, lagnandosi di essere «perfettamente al buio degli avvenimenti politici del nostro paese ». Indubbiamente, il suo interesse finale è quello di sapere se e quando ci sarà la ripresa della guerra; ma è caratteristica la connessione accentuata da lui fra situazione politica e militare. Ed è anche caratteristico che la sua preoccupazione per una rigida disciplina militare sia accompagnata da uno schietto umorismo: « Dobbiamo ciecamente obbedire a coloro che ciecamente ci comandano »; « Fatti soldato di cavalleria in tempo di guerra, se vuoi vivere lungamente su questa terra».

Il suo primo proclama del 27 marzo 1849 (senza controfirma dei ministri) delinea concisamente tutto il programma necessario in quel primo momento: mantener salvo l’onore, rimarginare le ferite, consolidare le istituzioni costituzionali. La sua veduta freddamente realistica della situazione è scolpita nelle parole quasi beffarde al deputato Menabrea. per poco non rimasto accoppato dalla caduta di un pezzo di volta a Palazzo Madama (il Re andava a prestare il giuramento): «Ch’a i fassa nen attension, i’ n’a vedroma ben d’autre».

Nonostante qualche incertezza iniziale, qualche momentaneo scoraggiamento, i primi anni del regno sono una testimonianza di equilibrio, di consapevolezza, di tatto. Fra le pressioni di destra (a cominciare da quelle della madre) e le provocazioni di sinistra,la linea costituzionale è seguita con autorità, con fermezza, con lealtà, a cominciare dalla scelta del nuovo presidente del Consiglio, Massimo d’Azeglio, dopo il provvisorio Delaunay indicatogli dal padre. Nel primo proclama di Moncalieri, del 3 luglio, è troppo colorita la frase (rispondente, peraltro, agli umori dei dirigenti europei): «L’Europa, minacciata nella sua esistenza sodale, è costretta oramai a scegliere, fra questa e la libertà». Ma essa serve di rafforzamento all’ammonizione: « Sta in voi, nel vostro senno, preservarvi da questi estremi ,non rendere la libertà impossibile, nè impraticabile lo Statuto ». Motivo ripreso nel secondo e più noto proclama per il nuovo scioglimento della Camera: ma ripresa dietro cui c’è qualche motivo di ritenere che non si nascondesse nessun disegno di soppressione, o sospensione, dello statuto ma semplicemente una messa in vigore del trattato di pace con l’Austria per sola autorità regia.

I reazionari in attesa di colpi di Stato, o almeno di leggi severamente restrittive, rimasero delusi. Nè riuscirono più fortunate le pressioni di cui sarebbe ora di fare (in tanto diluvio di pubblicazioni documentarie) una analitica e sintetica storia.

Già l’anno seguente, 1850, per l’abolizione del Foro ecclesiastico, il Re si trovò a dover affermare la sua costituzionalità e insieme con essa quella dello Stato, di fronte ai tradizionali privilegi ecclesiastici, e Vittorio Emanuele l’affermò, superando personali, forti sentimenti dì devozione alla Chiesa e al papa Pio IX.

Prima fase di una battaglia che durerà sino alla fine della vita, sempre più ardua, ma anche più vittoriosa battaglia che allora concorse, quanto « più di quelle militari, alla fondazione dello Stato italiano, e che nell'insieme conserva ancora oggi valore esemplare.

Un valore analogo possiamo assegnare al comportamento di Vittorio Emanuele II rispetto al «connubio» Cavour-Rattazzi, e alla conseguente ascesa e

lunga permanenza di Cavour al potere, di necessità e utilità politica somma, ma non facile sempre a ingranare con quella funzione direttiva che il Re riteneva suo diritto e dovere.

Impossibile, per mancanza di spazio, rievocare qui le singole fasi del decennio di collaborazione fra i due, con gli episodi di accordo e di contrasto; diciamo qui che, a parte gli urti personali (con la ordinaria mescolanza di diritto e di torto), l’accordo fini per prevalere sempre sulla linea migliore per la patria italiana. ^ Con Cavour, e forse prima ancora di lui, Vittorio Emanuele II volle la spedizione di Crimea; dietro Cavour egli fu, con tutta la propria risolutezza e audacia, per il congresso di Parigi e la successiva sempre più ardita esplicazione della missione italiana del Piemonte; e non tanto «dietro» quanto a fianco, o addirittura avanti (grazie alla responsabilità costituzionale del grande ministro), stette di fronte a Napoleone III e al resto d’Europa, per la tutela dell’indipendenza e dignità delio Stato, per il promovimento dell’alleanza e della guerra, per la riunione dell’Italia centrale e meridionale. Al momento della spedizione dei Mille, è Vittorio Emanuele II a strappare il consenso di Cavour, reluttante per gravissime ragioni Ma è soprattutto di fronte a Garibaldi che la funzione di Re Vittorio si rivelò benefica, e anzi decisiva.

Fu il fascino della personalità regia, insieme col buon senso del grande condottiero, a rendere possibile la opera decisiva dì Garibaldi, mantenendola al tempo stesso nel quadro interno e internazionale unico possibile. L’anticavouriano Vittorio Emanuele seppe dir «no» senza esitazione alla richiesta di Garibaldi del licenziamento di Cavour; il Re «ultimo dei conquistatori» (secondo il detto di Sella) seppe imporre il suo veto all’avanzata di Garibaldi da Napoli su Roma.



Dopo la morte di Cavour, Vittorio Emanuele fu fortemente aiutato dall’alto sentimento di sè, dalla sua spregiudicatezza di azione, e al tempo stesso dalla veduta realistica interna e internazionale, a mantenere la continuità e a stimolare e controllare l’avanzamento dell’opera nazionale. Ricordiamo, come particolarmente caratteristica, la trattativa segreta con Mazzini; come particolarmente meritoria, l’accettazione del trasporto della capitale da Torino a Firenze, fatta preferire a Napoli, con la considerazione di buon senso, che sarebbe stato molto più facile venir via dalla prima che dalla seconda; come altamente significativa, la relazione al « jamais » di Rouher dopo Mentana, che costrinse questo a rimangiarselo.

Anche dopo il 20 settembre 1870 la funzione direttiva superiore del «Padre della Patria» non cessò; e trovò applicazione, sia nella risoluta affermazione del diritto nazionale su Roma, accompagnata dai doverosi riguardi al Pontefice, sia nella cura di buone relazioni internazionali con la Francia da una parte, con gli imperi centrali dall’altra. (E’ rimasta famosa la franchezza con cui egli disse all’imperatore Guglielmo I di essere stato lì li, nel 1870, per fargli la guerra). Ma il fatto maggiore del Re, in questi ultimi anni, fu di aver assicurato il passaggio pacifico del governo dalla destra alla sinistra, consacrando definitamente il regime parlamentare. Scomparendo precocemente, in mezzo al compianto profondo e unanime della nazione, egli avrebbe potuto ripetere: « Cursum consummavi, fìdem servavi ».

In questo centenario non solo dell’unità italiana, ma di Roma acclamata capitale, non si può meglio chiudere la rievocazione del primo Re d’Italia, se non ripetendo le parole dette da lui alla deputazione romana che gli presentava il plebiscito del 2 ottobre: «L’ardua impresa è compiuta, e la, patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche degli uomini, si ricongiunge oggi a quello dell’Italia, il nome più caro al mio cuore ».


mercoledì 29 maggio 2019

Io difendo la Monarchia - Cap VII - 3


Che il Re non amasse la Germania risulta molto chiaro dai primi anni del suo Regno che videro modificato radicalmente, anche per suo personale intervento, l’indirizzo della nostra politica estera con il deciso riavvicinamento alla Francia. Spesso nelle Memorie di Bulow si fa cenno all’antipatia pronunciata e reciproca tra Guglielmo II e Vittorio Emanuele III. Da tutti i documenti venuti fino ad ora in luce appare chiaro che il sentimento del Re verso la Germania non si era modificato, ma accentuato. Più volte il Re aveva messo in guardia contro il pericolo tedesco e aveva intrattenuto Mussolini, negli anni 1939 e 1940, sulle gravi deficienze di armi, di vestiario, di scorte, in genere, dell’Esercito.

Egli aveva anche fatto incontrare il Capo del Governo con dei generali che avevano il compito di informarlo dello stato esatto delle cose. Ma abbiamo visto come l’intervento sia stato deciso da Mussolini sotto l’assillo di una Germania ormai vittoriosa con le sole proprie armi. Che noi non avessimo armi, né scorte, né possibilità obiettive di condurre una guerra più lunga di tre mesi, era noto a Mussolini perché da ogni parte (Stato Maggiore, alta burocrazia, circoli industriali) era stato avvertito di questa nostra situazione. E perciò era stata creata la pretensiosa teoria della guerra di rapido corso come se bastasse una enunciazione teorica, non fondata sulla potenza dell’apprestamento bellico, per modificare il corso e le sorti di una guerra (1).

Ma come il Re poteva impedire la guerra con il Parlamento mussoliniano? Bisognava accettare l'ipotesi della guerra civile e dell’occupazione punitiva tedesca.
Sul sentimento, sulla volontà e sull’azione del Sovrano abbiamo una preziosa, anche se singolare, testimonianza. Il 27 dicembre 1943, a pochi giorni dalla sua morte, Galeazzo Ciano scrive al Re dal carcere di Verona una lettera di commiato che suona come una estrema confessione. Dice la lettera: « Adesso, da tre mesi, sono nel carcere di Verona, sempre affidato alla martoriante custodia delle S.S. e attendo un giudizio che non è altro che un premeditato assassinio. Vostra Maestà conosce da tempo le mie idee e la mia fede, così come io posso testimoniare, davanti a Dio e agli uomini, l’eroica lotta da Lei sostenuta per impedire quell’errore e quel crimine che è stata la nostra guerra a fianco dei tedeschi... Un uomo, un uomo solo, Mussolini, per torbide ambizioni personali, per ” sete di gloria militare ”, usando le sue autentiche parole, ha premeditatamente condotto il paese nel baratro... » (vedi Paolo Monelli, Roma 1943 pag 54-55 (2) )

Così l’Italia entrò in guerra. A questo punto si pone il problema dell’Alto Comando. A pagina 74 del citato volume: Storia di un anno, Mussolini riporta un brano della sua relazione al Gran Consiglio del 24 luglio 1943 : « Sia detto una volta per tutte che io non ho minimamente sollecitato la delega del Comando delle forze armate operanti, rilasciatomi dal Re il 10 giugno. L’iniziativa appartenne al Maresciallo Badoglio » (3).
Come al solito Mussolini mentiva. Egli dimenticava il suo discorso al Senato del 30 marzo 1938 in cui comunicava che egli avrebbe assunto il comando della prossima guerra : « In Italia, egli disse, la guerra, come già in Africa, sarà guidata, agli ordini del Re, da uno solo: da chi vi parla, se, ancora una volta questo grave compito gli sarà riservato dal destino ».

 Aveva appena pronunciato questo discorso che i due rami del Parlamento deliberarono di conferirgli il grado di primo Maresciallo dell’Impero. Si poteva fare di più per mettere la Corona davanti al fatto compiuto? Abbiamo già descritto il conflitto che ne venne tra il Sovrano e il «duce» e abbiamo visto, dal diario di Ciano, come in quel tempo Mussolini osava esprimersi nei riguardi del Re. Il «duce» non era uomo da rinunce.
Con l'approssimarsi della guerra nel maggio 1940, egli faceva fare pressioni su Casa Reale dal Segretario del Partito Muti e dal Sottosegretario alla Guerra Soddu (4) Nel luglio 1943. prendendo a pretesto una lettera di Badoglio, del maggio 1940, per domandare che venissero precisate le attribuzioni del Capo di Stato Maggiore Generale, Mussolini affermò che l’idea di affidare a lui il comando di tutte le forze in guerra era partita dal Maresciallo. È chiaro che Mussolini non aveva neppure capita la lettera di Badoglio sulla organizzazione del Comando (5). Il Badoglio partiva dal presupposto che Mussolini avesse già il comando (come avrebbe potuto metterlo in dubbio se il Capo del Governo aveva un grado militare superiore al suo?) ma voleva che fossero precisate le responsabilità e i compiti di ciascuno. Egli avvertiva anzi, che non avrebbe potuto accettare la posizione di Keitel rispetto ad Hitler e rispetto ai comandanti dell’esercito della aviazione e della marina, perché il collega tedesco non aveva il suo passato militare e una rinomanza da difendere. Nel caso si dovesse seguire l’ordinamento tedesco, avvertiva Badoglio, bisognerebbe scegliere un altro capo di Stato Maggiore generale. Per affermare che Badoglio aveva proposto di affidare a lui l'alto comando bisogna dire che Mussolini non aveva neppure letto fino in fondo la lettera del Maresciallo. Ma questo era il suo metodo polemico fondato sulla improvvisazione e sulla violenza e soprattutto sulla impossibilità in cui gli altri eran posti di replicare alle sue affermazioni.

Il discorso pronunciato da Mussolini al solito balcone di piazza Venezia, annunciante la guerra, fu una sorpresa — amara sorpresa — per il Re.
Non abbiamo sufficienti elementi per giudicare dei rapporti corsi durante la guerra tra la Monarchia e il fascismo, ma da quel tanto che abbiamo potuto conoscere sino a questo momento è chiaro che essi non furono amichevoli: gelosia, volgarità, rabbiosa impotenza da una parte: riserbo e prudenza dall’altra.
Nessuno ha messo mai in dubbio le doti di intelligenza e la capacità di acuto giudizio del Sovrano. Egli non poteva farsi delle illusioni sul corso della guerra e sull’andamento delle operazioni militari e quindi sul funzionamento dell’alto comando. Ma come procedere ad un mutamento in piena guerra? Mussolini, privato del comando militare, sarebbe stato posto, dopo poche settimane, nelle condizioni di lasciare il governo o più probabilmente di tentare un colpo di stato per recuperare tutto il potere. Un sistema totalitario fondato sulla dittatura non si può correggere, bisogna abbatterlo. Ma queste considerazioni non basterebbero per giustificare la permanenza di Mussolini nella direzione dello Stato e
nella condotta bellica delle operazioni. Gli insuccessi della Libia e della Grecia erano motivo sufficiente per la rimozione. Ma come fare questo mutamento con i tedeschi ormai padroni dell'Italia? Negli anni 1940-41 la loro forza in Europa era talmente preponderante da avere ragione in poche settimane di qualunque velleità di indipendenza da parte di un nostro governo diverso da quello di Mussolini. La guerra era ideologica e il

Patto di acciaio era fondato sulla identità ideologica dei due Stati. Rovesciare Mussolini significava rovesciare il fascismo e provocare una spedizione punitiva di Berlino contro Roma (6).



(1) Si veda in Politica Estera (anno n, n. 8-9): «L’Italia alla vigilia della guerra e il problema delle materie prime».
Sono riassunti nell'articolo i dati forniti dalla « Commissione per lo studio dei rifornimenti della Nazione in guerra»: commissione nominata da Mussolini e composta dei tecnici di tutti i Ministeri direttamente interessati alla preparazione bellica.
La relazione ultima di questa Commissione in un grosso volume a stampa fu sottoposta a Mussolini nel gennaio 1940. Essa offriva al Primo Ministro il quadro esatto e completo della potenza italiana. Soltanto la sua morbosa gelosia per una vittoria, ritenuta già sicura e incontrastata dei tedeschi, il suo disprezzo per le oneste opinioni dei dei tecnici e la sua irresistibile tendenza a lasciar sommergere la ragione della passione poterono indurlo alla guerra.


(2) La pubblicazione del diario di Ciano che negli ultimi mesi sta facendo il giornale “Il Tempo” , rivela come fosse acuto e profondo negli anni 1939-1940 il contrasto tra la dittatura e la Monarchia sull'argomento della guerra e dell'alleanza con Berlino.

(3) Il maresciallo gli aveva mandato nel maggio 1940 una lettera sulla organizzazione dell’Alto Comando in caso di guerra.

(4) Vedi il memoriale difensivo di Galeazzo Ciano al processo di Verona nel giornale l'Avanti! del 12 settembre 1945.

(5) Vedi Mussolini: Storia di un anno (Appendici).

(6) Vedi in proposito le rivelazioni della stampa sugli ordini di Hitler appena giunse in Germania la notizia dei fatti del 25 luglio.

lunedì 27 maggio 2019

VITTORIO EMANUELE II

La premessa è la solita: pubblichiamo per l'informazione dei nostri amici monarchici senza condividere ogni sillaba di quanto riportato.
Lo staff


I Savoia sono una dinastia che ha sempre dovuto giocare di sponda. 
Come raccontano oggi a Gorizia, al festival è Storia, Alessandro Barbero e Gianni Oliva. Afferma Oliva: «I Savoia sono stati sulla scena politica europea a partire dall'XI secolo, novecento anni di continuità dinastica, cinquanta generazioni dentro le quali c'è di tutto, dai personaggi illustri a quelli opachi... Ad aver caratterizzato la dinastia è stato il governare un territorio alpino con all'interno due passi fondamentali: quelli del Cenisio e del colle del Gran San Bernardo. Controllavano una via di comunicazione fondamentale sia per il commercio che per le guerre». E questo ha fatto sì che fossero una dinastia caratterizzata dall'impegno militare, ma anche da un alto livello di diplomazia. Oliva e Barbero lo dicono usando quasi le stesse parole. Una dinastia mai davvero determinante sul campo di battaglia, ma sempre capace di rivelarsi un alleato prezioso. E anche un alleato in grado di cambiare rapidamente posizione. I Savoia hanno spesso cambiato bandiera, barcamenandosi tra la Francia e gli Asburgo sia di Spagna che d'Austria. Secondo Oliva hanno avuto «l'incredibile capacità di finire le guerre sempre dalla parte del vincitore, una lungimiranza diplomatica incredibile».

Una lungimiranza venuta meno con l'appoggio al fascismo e soprattutto con l'8 settembre 1943. Oliva: «Il primo errore di Vittorio Emanuele III è stato non intervenire all'epoca dell'omicidio Matteotti. Il secondo è stato la gestione sbagliata dell'armistizio con gli alleati culminato con lo sbandamento dell'8 settembre. Attenzione, l'errore non fu abbandonare Roma, cosa che poteva essere comprensibile, ma non aver organizzato in nessuna maniera la resistenza alle truppe tedesche». E anche così un pezzo del Paese, soprattutto quel Sud che oggi si vagheggia neoborbonico, restò fedele alla dinastia se non a Vittorio Emanuele III.

MSac


http://www.ilgiornale.it/news/vittorio-emanuele-ii-1701437.html?mobile_detect=false

Un interessante giudizio


di Domenico Giglio 

Mi ha meravigliato, qualche tempo fa, vedere nelle librerie una nuova edizione di un romanzo di fantapolitica storica ed ecclesiastica, dal titolo “Adriano VII”, opera di uno scrittore inglese, nato a Londra nel 1860, Frederick Rolfe, detto “Baron Corvo”, scritto nei primissimi anni del ventesimo secolo, che, al suo apparire, nel 1904, aveva riscosso un grande interesse e di cui, nel 1964, era stata effettuata una ristampa dalla “Longanesi & C.”. Infatti erano più di cinquantenni che il silenzio aveva avvolto questo romanzo, all’epoca avveniristico, perché parlava di un semplice sacerdote straniero, eletto Papa, dopo un tormentato Conclave, che aveva assunto il nome di Adriano, settimo di questa serie di pontefici, proprio a sottolineare che Adriano Vi, mancato nel 1523,era stato l’ultimo Pontefice non italiano.
Ora, pur essendo interessante analizzare e commentare questo romanzo, mi limiterò a sottolineare una parte in cui, l’ immaginario Pontefice, parla dei Capi di Stato dell’Europa dell’epoca, per cui viene a trattare logicamente di Vittorio Emanuele III. “ E’ uno dei quattro uomini più intelligenti del mondo” dice infatti parlando del Re, oltre a sottolineare la sua costituzionalità, il non aver commesso “un solo errore, una sola azione ingiusta e nemmeno ingenerosa”, notando la sua importanza sostanziale nella vita nazionale, anche se non apparente,”quale sia il partito che è al potere”.
Questo dunque è il giudizio di una scrittore straniero acuto ed intelligente, che aveva vissuto qualche tempo a Roma, amava l’Italia, dove poi morì nel 1913 a Venezia, per cui ben conosceva fatti e personaggi, alieno per carattere da ogni spirito cortigiano, che infonde nel personaggio di questo Papa, e dimostrazione del prestigio di cui godeva il Re e che con il Re,innalzava anche l’Italia. Quel prestigio che portò un ricco uomo d’affari, un israelita polacco, trasferitosi negli Stati Uniti,David Lubin, a sottoporre a Lui e non ad altri l’idea di una istituzione, un Istituto Internazionale di Agricoltura, progenitore della F.A.O., che proprio per merito di Vittorio Emanuele III, fu realizzato, con firma istitutiva del 7 giugno 1905, operatività dal 1908,con sede a Roma, in un palazzo appositamente costruito all’interno della villa “Umberto I”, già Borghese. Ed il Re contribuì personalmente sia per l’edificazione del palazzo ( oggi sede del CNEL), sia alla vita dell’Istituto, con un contributo annuo di 300.000 lire, tratto dalla sua Lista Civile. E sempre per la sua fama di uomo di grande equilibrio e cultura ( un numismatico, come fu il Re non poteva non avere cultura storica ) diversi stati esteri gli affidarono il giudizio su delicati problemi di confini accettandone le decisioni. E nel 1903-1904 furono Brasile e Regno Unito per una frontiera della Guiana Inglese, nel 1905 ancora il Regno Unito ed il Portogallo per il confine del Barotseland e nel 1909 il Messico e la Francia per l’isola di Clipperton.Ora di questo Sovrano, di cui l’11 novembre prossimo ricorrerà il centocinquanresimo della nascita,di tutto questo non si fa mai cenno, irridendolo volgarmente invece per il suo aspetto fisico (non è forse razzismo?) e condannandolo senza appello per una triste vicenda avvenuta nel suo lungo regno.


sabato 25 maggio 2019

Il Duca Invitto, il Savoia generale che non fu mai sconfitto nella Grande Guerra

A 150 anni dalla nascita, il ritratto di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta. Il nipote: “Fu lui a sospendere i tribunali d’emergenza che giudicavano i sospetti disertori in trincea”



La tesa dell’elmetto Adrian proietta la sua ombra su un volto fine e signorile che contrasta col panneggio pesante e roccioso del pastrano militare. E’ il monumento al duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta di cui quest’anno ricorrono i 150 anni dalla nascita. Sorge in piazza Castello a Torino e, realizzato dagli scultori Eugenio Baroni e Publio Morbiducci, fu inaugurato nel 1937 insieme ad altre sculture che raffigurano i soldati in quattro momenti topici: in attesa, prima, durante e dopo il compimento del proprio dovere. Cugino primo e coetaneo del re Vittorio Emanuele III, il duca d’Aosta ne costituiva l’antitesi, sia per la figura fisica - era alto e atletico - sia per il temperamento socievole e aperto. È stato uno dei più grandi generali italiani della Grande Guerra, e meritò l’appellativo di “Duca Invitto”, perché la III Armata che lui comandò non conobbe mai la sconfitta. Pur non essendo uno stratega o un tattico di capacità straordinarie, aveva un carisma antico che rese la sua armata una disciplinata e motivata macchina da guerra.
[...]

sabato 18 maggio 2019

Aggiornato il sito dedicato a Re Umberto II


La seconda parte, quasi inattesa, di un'intervista del 1951 a firma di Nando Sampietro comparsa su “Epoca” nel mese di Maggio.
Le persone che non abbandonarono il Re neanche dopo l’esilio.


Brescia 18 maggio, ore 20.30: Concerto in ricordo dell'Ambasciatore Camillo Zuccoli


Enna, premio letterario Umberto II Re d’Italia per la scrittrice Maria Angela Casano


Importante riconoscimento ricevuto dalla scrittrice Maria Angela Casano, nell’ambito della seconda edizione del Premio Letterario Nazionale ed Internazionale “Umberto II Re d’Italia”,  la cui cerimonia  è avvenuta il 4 di questo mese all’Hotel Riviera di Pergusa (Enna).  L’autrice, che, va ricordato, è nota per il suo impegno nella comunicazione letteraria, essendo, oltre che scrittrice, relatore a molti eventi letterari, ha ricevuto la Menzione Speciale, partecipando con il racconto “Il vecchio sensale ennese”, ovvero la storia tenera e appassionata di un personaggio,  lo “Zze Paulu”, combinatore di matrimoni, ambientata in uno spaccato storico-ambientale della città di Enna. Questa la sinossi :” Un  racconto tenero e commovente in cui si narrano le brevi vicende du Ze Paulu, un vecchio sensale ennese il combinatore di matrimoni.  Oggi rimasto solo, ripercorre, rivive e fa rivivere, ricordi, sensazioni, emozioni e passioni di un passato continuamente a confronto con il presente. A fare da sfondo una filosofia popolare pregna di valori, e l’affettuoso contatto con i luoghi natii così diversi rispetto alle trasformazioni che la cosiddetta nuova urbanistica ha imposto inesorabilmente”. Ed ecco la motivazione: “L’autrice Maria Angela Casano, con proprietà di linguaggio, parlando di un uomo che combinava matrimoni, descrive minuziosamente la città di Enna, i suoi monumenti più importanti , le tradizioni , le usanze e le bellezze naturali del territorio”. 
[...]
Mario Antonio Pagaria




mercoledì 15 maggio 2019

IL Cappello degli Alpini



L’adunata degli Alpini, a Milano, dell’11 maggio, nel centesimo anniversario della fondazione della loro  associazione nazionale, A.N.A., ha dato occasione ad articoli e servizi televisivi su questa imponente manifestazione, sul suo significato patriottico, e sulle vicende storiche di questo corpo, la cui origine risale ad un Decreto, del 15 ottobre 1872, firmato da Vittorio Emanuele II.
In questi ricordi e sul significato del tipico cappello, detto “alla calabrese”,“ dalla lunga penna nera”, si è anche ricordata la proposta, nel secondo dopoguerra, di abolire questo caratteristico copricapo. All’epoca ci fu in Parlamento una battaglia, da cui poi uscì vittoriosa la conferma del cappello alpino, ed in questa battaglia si distinse un parlamentare del Partito Nazionale Monarchico, il siciliano, allora colonnello, poi generale, Antonino Cuttitta, eletto nel 1948 e riconfermato per ben quattro Legislature.
L’on. Cuttitta, oltre alla battaglia per la conservazione del cappello piumato, fu un parlamentare attento a tutte le problematiche militari, con una costante presenza ai lavori della Camera dei Deputati, con ripetuti intervenenti, interrogazioni e presentazione di disegni di legge, sempre a vantaggio delle categorie più svantaggiate, militari e non, con grande competenza che gli fu riconosciuta anche dagli avversari politici. Parlamentare assiduo come pochi, coerente e fedele ai suoi ideali è ancora oggi un esempio da non dimenticare,che conferma il ruolo non secondario dei monarchici nella vita nazionale e parlamentare del primo dopoguerra.

Domenico Giglio

domenica 12 maggio 2019

Porto di Brindisi: Banchina Centrale dedicata alla Regina Elena


Nota dello Staff
Una bella iniziativa, bellissima anzi, la cui notizia appare condita da una serie di strafalcioni e luoghi comuni che dovrebbero far vergognare chi pensa certe fesserie. 

Ulteriore nota. Brindisi comune: Monarchia 18159 voti - repubblica 7381. Nella intera provincia: Monarchia 101795 - repubblica 35351 . 

Elena Petrović-Njegoš, principessa del Montenegro, fu Regina d'Italia.
Concetto troppo difficile da far passare negli articoli di giornale.

BRINDISI - Sabato 18 maggio alle ore 9.30, la Banchina Centrale del Seno di Ponente del porto interno di Brindisi sarà intitolata alla regina Elena del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III. Iniziativa condivisa dal presidente dell'Autorità di sistema portuale, Ugo Patroni Griffi, la cerimonia rientra negli eventi organizzati dalla Proloco per “Brindisi Capitale d’Italia, il Paese rinasce da qui”, che si svolgeranno dal 18 al 26 maggio. Parteciperà  il ministro consigliere dell’Ambasciata del Montenegro a Roma, Miroslav Šćepanović.
Subito dopo, alle 10, inizio itinerario turistico e culturale nei luoghi simbolo della storia brindisina. Alle 11, nella sala di rappresentanza della Provincia di Brindisi, si svolgerà il convegno “Brindisi Capitale d’Italia”. Sono previsti gli interventi di saluto di Marcello Rollo, presidente Proloco, Umberto Guidato, prefetto di Brindisi, Riccardo Rossi, sindaco di Brindisi, Ugo Patroni Griffi, presidente dell'Adsp , Matteo Minchillo, direttore generale di Puglia Promozione.
Sono, inoltre, previsti gli interventi dell’on. Mauro D’Attis, che illustrerà la proposta di legge per il riconoscimento di Brindisi tra le capitali d'Italia, del professore Carmelo Pasimeni, ordinario di Storia Contemporanea dell'Università del Salento, del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e del sottosegretario del Miur, Salvatore Giuliano. Modera la direttrice della Biblioteca Arcivescovile De Leo, Katiuscia Di Rocco.

Chi avesse voglia di farsi il sangue cattivo può continuare la lettura al seguente indirizzo:

sabato 11 maggio 2019

Avigliana e il suo santuario legato alle vicende storiche dei Savoia


Paolo Barosso  11 Maggio 2019

AVIGLIANA. Sulle sponde del lago Grande di Avigliana, in splendida posizione panoramica, sorge il santuario della Madonna dei Laghi, luogo di spiritualità e di fede cristiana strettamente legato alle vicende storiche di casa Savoia.
a facciata del santuario aviglianese
Il pilone votivo della Madonna dei Laghi
Per scoprire l’origine di questo complesso sacro, eretto nella prima metà del Seicento sull’area di un precedente edificio di culto, occorre attraversare l’interno della chiesa, recandosi nella parte retrostante l’altar maggiore: qui, al centro del coro, si conserva l’antico pilone votivo recante l’effigie dipinta della Madonna del Latte, realizzata da un ignoto frescante nel Trecento e, secondo la testimonianza del padre cappuccino Placido Bacco da Giaveno, storico locale vissuto nell’Ottocento, rimaneggiata nel 1447, quando il duca Ludovico di Savoia commissionò il restauro del manufatto e si provvide alla ridipintura dell’immagine, aggiornata secondo i gusti stilistici del tempo.

Sul lato opposto del pilone, ornato da una più recente raffigurazione mariana, eseguita nel 1760 per volere dei religiosi residenti nel convento, si legge un cartiglio che definisce insigne la primitiva effigie della Madonna dei Laghi per il “favore ottenuto da Bona di Borbone per la nascita del Conte Rosso Amedeo VII di Savoia l’anno del Signore 1360”. Come precisa la targa, l’antico affresco venne tenuto celato alla vista dei fedeli per circa tre secoli, nascosto dall’imponente polittico della Madonna dell’Annunziata, collocato sull’altar maggiore, per venir restituito alla venerazione dei pellegrini a seguito dei lavori di restauro effettuati nel 1912.   
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giovedì 9 maggio 2019

Vittorio Emanuele abdicò all’Abbazia di Cava


Come sempre condividiamo cose interessanti non necessariamente d'accordo con ogni periodo compreso nell'articolo.



Due le visite al monastero benedettino del Re di casa Savoia: la prima in uniforme da Maresciallo, la seconda in abiti borghesi
07 maggio 2019


di ANIELLO RAGONE
Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo- americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza. Con queste parole, pronunciate dal capo del Governo Pietro Badoglio, l’8 settembre 1943 veniva reso noto in Italia l’armistizio che era stato siglato precedentemente a Cassibile (Sicilia) il giorno 3 dello stesso mese. Il governo fu spostato da Roma per “seguire” il Re che si diresse dapprima in direzione di Pescara e in un secondo momento raggiunse Brindisi. Nel 1944, come sede del governo, venne scelta la città di Salerno e Vittorio Emanuele III prese per dimora Villa Episcopio a Ravello mentre il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio si stanziò a Villa Guariglia in Raito di Vietri sul Mare.
Il 12 aprile del 1944 il Re decise di visitare la millenaria Abbazia Benedettina cavese della SS. Trinità, giorno importante perché durante quella giornata decise altresì di lasciare la vita pubblica nominando luogotenente del regno il principe Umberto. Secondo il racconto di Fra Pietro verso le 8.30 antimeridiane si vide una macchina avvicinarsi al millenario speco di S. Alferio con una bandierina che annunciava la presenza di un generale. Al cospetto del frate si presentò un soldato che chiese se l’Abate fosse in abbazia data la presenza di Sua Maestà il Re. Portata la notizia, l’abate Rea (che era occupato con il coro) si affacciò da uno dei balconi per accertarsi della presenza del sovrano. Il Re aspettava dinnanzi l’ingresso e l’abate corse ad accoglierlo insieme all’archivista della Badia D. Leone Mattei Cerasoli. Si decise di sospendere le lezioni e sua altezza visitò il monastero e l’archivio (proprio sul registro si ritrova ancora sua la firma e quella del suo seguito).
Particolari sono due episodi raccontati da Fra Pietro: il primo riguarda la correzione che il Re fece ad una notizia circa una moneta conservata alla Badia di Cava de’Tirreni (Vittorio Emanuele III fu studioso di numismatica e grande collezionista di monete tanto da portarlo a pubblicare il Corpus Nummorum Italicorum opera in 20 volumi dove sono classificate e descritte le monete italiane); il secondo legato al rifiuto di un qualsiasi “momento di ristoro” che sembrava ripetere quello della visita del 14 luglio 1932 dei principi Umberto di Savoia e Maria Josè del Belgio. All’uscita il Re passò tra due file di studenti che, solo dopo un accenno di P. D. Cerasoli, diedero vita ad un applauso scrosciante (la poca simpatia per il sovrano non era certo cosa nuova!). Salutati i professori e gli accompagnatori, Vittorio Emanuele III risalì in macchina per far ritorno a Ravello. Lo stesso giorno venne trasmesso il proclama che diceva: «Ponendo in atto quanto ho già comunicato alle autorità alleate e al mio governo, ho deciso di ritirarmi dalla vita pubblica nominando luogotenente generale mio figlio Principe di Piemonte.
Tale nomina diventerà effettiva, mediante il passaggio materiale dei poteri, lo stesso giorno in cui le truppe alleate entreranno in Roma. Questa mia decisione, che ho ferma fiducia faciliterà l’unità nazionale, è definitiva e irrevocabile ». Dal giorno 5 giugno 1944 alla liberazione di Rowww. ma, il principe Umberto verrà nominato luogotenente del regno. La visita successiva del sovrano avvenne circa dieci mesi dopo. Il giorno 28 febbraio 1945 (anche questa seconda firma è conservata nel registro) il sovrano si presentò in abiti borghesi, a differenza della visita precedente dove aveva indossato l’uniforme di Maresciallo d’Italia. Il 9 maggio 1946 il vecchio sovrano (allora quasi settantasettenne) abdicò a Napoli in favore del figlio con atto del notaio Nicola Angrisano del collegio notarile di Napoli. Vittorio Emanuele III morì il 28 dicembre 1947 ad Alessandria d’Egitto dove, con il titolo di Conte di Pollenzo, si era ritirato in esilio prima della consultazione referendaria.



9 Maggio :Dall'abdicazione di Vittorio Emanuele III alla successione di Umberto II

domenica 5 maggio 2019

La vera storia di “Bella ciao” la canzone che non fu mai cantata nella Resistenza

Dall'amico  Antonio  Ratti  riceviamo  la segnalazione  di  questo  articolo.


di Luigi Morrone

Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto».
La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani.
Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti?
In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso.
Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella.   Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”.  E così via.
Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa.
Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome.
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http://www.nuovarivistastorica.it/?p=7807&fbclid=IwAR3Hii_NNg2GGiz8upPJtvG5tewcVgffguWGos4oqlDeitNOi1ZVoIQcs_E

Ricollochiamo la statua di Vittorio Emanuele II

A Bologna il sindaco Virginio Merola (PD) ha fortemente voluto che la lapide in onore di Umberto I, posta fra due statue che simboleggiano l’Amor Patrio e il Valor Militare, fosse ricollocata all’ingresso di Palazzo d’Accursio.

“La storia non può essere utilizzata a fini di parte”, ha detto Merola.

A Ferrara, invece, dove tutti i simboli e le targhe stradali che ricordavano i Savoia sono stati cancellati da una sinistra ottusa e accecata dall’ideologia, non si riesce ancora a ricollocare in pubblico la statua di Vittorio Emanuele II. 


Qualche candidato sindaco vuole prendersi l’impegno di posizionare in maniera decorosa la statua del “padre della Patria”?

Aldo Fiorini