NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 29 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, V parte


Al 1923, Vittorio Emanuele aveva contato tutti gli uomini politici ch'erano stati al Governo, lui regnante, erano 365, di cui 190 sottosegretari. Li aveva osservati tutti, cavandone idee generali. Era rimasto colpito dalla loro quasi generalizzata mancanza di naturalezza. La spiegava con l'influenza esterna: «il vasto palazzo, quei lacchè scarlatti e gallonati, quelle scalee maestose, quei tappeti profondi, quelle grandi piante, quei saloni tutti pitture, arazzi, specchi e lumi e quell'aria ambiente di silenzio di serenità di maestà. Non appena si è alla presenza dei Personaggio, la preoccupazione di mostrarsi all'altezza del momento, l'ansia di dire tutto nel tempo ristretto e l'intima disposizione di trovare nelle parole del grande uomo un senso meraviglioso e nascosto, il desiderio di compiacerlo esagerando quello eh'egli dice, tolgono all'interlocutore parte del senso accennato, amplificando. 'Non appena detta una cosa spiritata l'interlocutore ride troppo, non appena accenna una notizia triste l'interlocutore mostra un dolore infinito. I due non si svelano come sono; quello che è sopra, preoccupato di non dire di più di un certo punto, quello di sotto spinto ad allargare il numero e l'estensione di ciò che sente e a farmi capire che è in tutto degno della grande fiducia». (Ma questo tratto di psicologia, il Re può averlo anche pensato e detto come indiretta critica all'osannante mandi che montava, senza limiti di altezza e di fragore, verso la Dittatura e il dittatore. Son parole del 1923).

Egli non ebbe amicizia per gli uomini dei suoi governi: non ne ebbe per

Giolitti, per Orlando o per Mussolini e questo spiegava con un altro aneddoto. «In Russia, il principe Dolgorucki essendo colonnello della Guardia Imperiale, avendo ucciso in duello un altro ufficiale, fu retrocesso a sergente. Lo mandarono nel Caucaso e si distinse alla presa di Schamyl, talmente, che lo rinominarono colonnello. Fu addetto al comando del reggimento di cui era stato sergente, ma con grande stupore dovette osservare che tutti i sergenti di quel suo reggimento chiedevano di essere trasferiti. E che egli da sergente sapeva troppo le magagne commesse dai sottufficiali. Si trovava in condizioni specialissime per conoscere colpe che altrimenti avrebbe ignorate. Dovette promettere di dimenticare quello che sapeva e gli ci volle del bello e del buono per rassicurare i suoi dipendenti».

 

Il Re non voleva avere «troppi legami da spezzare»: lo si vide in due grandi occasioni, quando congedò Cadorna e quando dimise Mussolini.

 

Altra massima aurea del mestiere di Re, Vittorio Emanuele III praticò conservando una calma gelida in circostanze eccezionali. A Caporetto fu il solo a non perdere la testa e a Brindisi, malgrado la povertà e la squallida decadenza della sua sovranità, ristretta al piccolo territorio non ancora invaso e che, poi, presto fu invaso, fu il solo come a Peschiera a tener testa agli stranieri vittoriosi e punitori. Di quel che allora il Re fece non s'è ancora scritto con documentata ampiezza, anche perché dei Re si preferisce non vedere la disgrazia. Anche a Brindisi, come durante la guerra fortunata, egli si svegliava alle 4 del mattino e partiva alla volta di qualche caserma, villaggio o sconosciuta chiesa normanna o rovina romanica o chiostro barocco o selciato famoso o tomba rinomata o prezioso affresco. Visitava, spiegava le particolarità, i riferimenti, le sovrapposizioni di stile — lui che sapeva tutto — agli aiutanti che sapevano molto poco. Erano frigide mattinate, come quelle del Carso, del Friuli, del Trentino, della Carnia. Presso a poco disponeva della medesima automobile, della stessa frugale colazione da consumare in campagna, degli autisti, dei generali, degli aiutanti. Gli mancavano i soldati, dispersi in Europa, perduti in Russia e nei campi di concentramento tedeschi, sbandati sugli Appennini.

 

Assistette l'Il novembre del '43 ad una rivista di truppe in partenza per il Monte Lungo, sul fronte di Cassino, all'aeroporto di Brindisi spazzato dal libeccio; gli colava il naso e se l'asciugava continuamente in un fazzolettone di ordinanza della Marina di tela dura e inamidata, lottava con le pieghe, mentre con l'altra mano salutava, col gesto meccanico quasi nato con lui.

 

Quelle truppe raccogliticce, in uniformi spaiate, appartenenti ad armi dissimili, avanzavano su colonne disordinate e sghembe, malgrado le urla degli ufficiali.

 

Molti di quei soldati si erano arruolati nell'esercito del Re per passare al di là alla prima occasione, per ritornare presso la famiglia nel troncone settentrionale dell'Italia spezzata in due. Nessun altro avrebbe resistito a quello sfacelo e agli errori propri e altrui, come Vittorio Emanuele. Egli era convinto però che non esistessero disastri irreparabili e che l'ultimo dovere di un Sovrano fosse quello di non farsi mai scoraggiare dal momento presente come ultimo e definitivo. Un Re incarna il principio di continuità e per obbedirvi egli il Re di Vittorio Veneto era rimasto Re a Brindisi. Gli ci volle, certo, una gran forza a non morire.


Le millenarie radici cristiane di Casa Savoia

di Francesco di Bartolomei

 

Conversare sopra un rapporto plurisecolare tra la più antica casa reale d’Europa e la sua religione è un esercizio duro, se si vuole avere il dono della sintesi.

La “diletta” Casa di Savoia (così chiamata da alcuni pontefici), nel corso di un periodo storico così lungo ha alternato momenti di grande legame al cattolicesimo, ad altri di profonda tensione e rottura col papato, che tuttavia non pregiudicarono mai il rapporto spirituale.

Dai tempi del Conte Biancamano, capostipite della dinastia (980 d.C.) e benefattore di chiese e conventi nei suoi territori, la storia si snoda attraverso le crociate dove spicca tra i Savoia la figura del Conte Amedeo II detto appunto “il crociato”. Chiamato alle armi dal Papa Callisto II suo zio, partecipò alla seconda crociata, guidando le avanguardie cristiane in Anatolia e trovando due anni dopo la morte a Cipro. In una guerra santa successiva (1366) Amedeo VI in una nave-galea veneziana sulla quale era imbarcato fece montare oltre la bandiera con le insegne sabaude un vessillo di colore azzurro in onore del manto mariano. Pare che da queste circostanze nacque l’adozione per la futura casa regnante del nostro paese, di quel colore azzurro o blu-Savoia che ancora oggi per tale motivo è il colore indossato da tutti gli sportivi italiani.

Per quanto attiene il culto parliamo della famiglia reale con più santi, beati e servi di Dio della storia, ben trentasette. I santi veri e propri sono due: Santa Giovanna e San Girolamo Carmelo. La prima nata nel 1306 fu sposa di Andronico III e Imperatrice di Bisanzio. Cercò da quella posizione di ricucire lo strappo dello scisma d’oriente. A tutt’oggi la chiesa la commemora con il suo nome da Imperatrice Anna Paleogina. San Girolamo Carmelo o San Carmelo dopo una vita da soldato, passò gli ultimi sedici anni della sua esistenza col saio e scrisse un’opera sulla Madonna: “De conceptione”. In questo scritto è presente un verso molto poetico dedicato a “Toda Pulcra”. Il santo conversava con la Vergine e gli furono attribuiti molti miracoli. Fu uno strenuo difensore del dogma dell’Immacolata Concezione, morì a Barcellona nel 1558.

[...]

lunedì 28 novembre 2022

Un ricordo della Regina Elena a settant 'anni dalla sua morte

di Emilio Del Bel Belluz 

Il 28 novembre 2022 saranno trascorsi settant’ anni dalla morte in terra francese della Regina Elena di Savoia. Una data che temo passi inosservata per la maggior parte degli italiani. E questo mi spiace. La mamma degli italiani alla quale fu conferita dal papa Pio XI, la Rosa d’Oro della Cristianità nel 1937, per il suo nobile cuore rivolto alle persone umili, e agli ultimi. 
Questa regina ebbe modo
di fare conoscere le sue doti di generosità e di altruismo anche nella terra che la ospitò negli ultimi anni della sua vita e ciò fu dimostrato dalla immensa folla di francesi  che l’accompagnò alla sua ultima dimora. Si disse che fossero presenti cinquantamila persone che piangevano la morte di una donna unica.  
Nel 2001 la Regina Elena era diventata Serva di Dio, e da anni attende che possa essere fatta beata. I suoi meriti in vita sono davvero tanti, ma da anni tutto è avvolto nel silenzio. Nel mio cuore c’è la speranza che questo possa accadere molto presto. Il papa non l’ha mai nominata, nessun riferimento a questa mamma d’Italia così speciale. 
In un manifesto del Partito Nazionale Monarchico, della Federazione Provinciale di Treviso veniva ricordata con queste parole: “ Elena di Savoia, la Regina del sacrificio e del dolore, la fedelissima sposa del Re Vittorio Veneto  é morta. Il suo nobile cuore, vinto più che dal peso degli anni, dall’accumularsi di sventure e di dolori, ha cessato di battere per ricongiungersi, come anelava, al suo Reale Consorte e alla Sua adorata Mafalda in quella gloria che, sola, non conosce tramonti . 
Milioni di italiani, di sofferenti e di umili che tanto l’amavano e che Ella ha sempre beneficato, oggi La ricordano con devota riconoscenza e la benedicono dal profondo del cuore, poiché la Regina madre non conobbe che l’abnegazione, la carità, l’amore, ed infiniti sono i ricordi della sua assistenza, della Sua protezione  e della sua bontà…” Treviso, 29 novembre 1952. 
Quanto mi piacerebbe se qualche buona persona potesse portare un fiore sulla sua tomba a Vicoforte dove è sepolta assieme al suo consorte. Quanto vorrei che i giornali ne parlassero del suo esempio di vita esemplare. Speriamo che dall’alto possa  intercedere perché la pace si realizzi in tutto il mondo.

domenica 20 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, IV parte

 


Anche quel suo vagare, così strano e poco noto, per mari e contrade lontane da solo e poi con la giovane moglie, quell'apprendere l'assassinio del padre sul mare, mediante i segnali del semaforo di Capo dell'Armi, quel passare subito nella poesia di d'Annunzio — la più evidente delle personalità romantiche nata sotto il cielo d'Italia —l'essere stato il Re del futurismo, del nazionalismo, dell'interventismo e poi di altri «ismi» più romantici ancora come l' «arditismo» e il «fascismo»: se non si conoscessero di lui altri tratti della persona e del pensiero, si potrebbe farne facilmente una immagine di protagonista schilleriano. Un certo gusto degli uomini e avvenimenti dell'ultima età romantica, una inclinazione curiosa a persone ed episodi di guerre e rivoluzioni gli facevano, lui così riservato, chiedere con insistenza al Crispi, sospetto di essere stato complice di Felice Orsini nell'attentato di Parigi, se davvero avesse lanciata la quarta bomba contro Napoleone III, Di Saracco, curiosa saturnina figura di altri tempi, vedeva le somiglianze con tenebrosi eroi della rivoluzione francese e gli interessavano, degli uomini che gli passavano accanto, gli ardimenti dell'intelligenza e dell'azione.

***

 

Tuttavia non bisogna troppo insistere su quest'aspetto della personalità di Re Vittorio. Esso era pur sempre re-presso dalla fredda ragione e corretto dalla rigorosa osservanza « tecnica » delle norme del suo mestiere di Re.

Di questo mestiere conosceva i limiti e le trappole, ma anche le idee-basi che glielo avevano fatto accettare. Le quali idee non partivano — probabilmente — da un concetto della Monarchia per diritto, sia pure costituzionale, ma piuttosto della Monarchia come un principio cosmico di continuità. Questa continuità si fondava sull'equilibrio instabile del gioco costituzionale democratico; né il Re, che a questo gioco credeva come al dogma primo dell'esistenza dello Stato, poteva prevederne la distruzione o la « sospensione » per effetto dell'avvento fascista. Qui, senza volerlo si scivola nel mare dell'analisi delle origini del fascismo e della -fine della Monarchia.

S'è detto e scritto che il Re aveva promesso a Soleri di non apporre mai la sua firma a decreti di nomina di un Governo fascista. Circostanze mutate suggerirono invece la convocazione di Mussolini e il governo fascista.

Il Soleri stesso potette giustificare l'operato di Vittorio Emanuele III: «Un Re — disse — può fare questo perché non ha bisogno di essere coerente come gli altri uomini, bisogna che decida secondo i momenti, conforme alla superiore necessità. Si capisce quindi che dopo di aver sostenuto che non avrebbe mai avallato il fascismo, obbedendo al sentimento del paese abbia mutato consiglio».

Giolitti disse che il Re non può, né deve essere grato a nessuno: la gratitudine non è opera di Re. E, guarda caso, giustificava la decisione di Vittorio Emanuele di chiamare Mussolini al Governo proprio «per convinzione democratica», cioè osservando e applicando il sentimento della maggioranza.

Egli non firmò lo stato d'assedio, quando seppe il numero dei fascisti in marcia. su Roma (più di centomila), gli effettivi dell'Esercito (in disgregazione per i decreti di smobilitazione del Nitti) disponibili nei diversi corpi di armata (dodicimila) e l'opinione favorevole di quasi tutto il Corpo degli ufficiali. Dovette probabilmente chiedersi se fosse quella una rivolta o una rivoluzione e se convenisse sparare su quei giovani che gridavano «Viva l'Italia » per non offendere il sentimento di quelli che gridavano «Viva Lenin».

L'opinione intermedia, liberale, democratica, riformista, cattolica, partecipava delle sue idee. Giolitti voleva fare il Governo con Mussolini, Facta, come è noto, aveva lungamente meditato di «dividere la torta» con i fascisti. Lui lo sapeva e quando il 28 ottobre mattina il Presidente del Consiglio gli portò il decreto di Stato d'assedio, lui gli raccontò quest'aneddoto: «Il segretario comunale di Mona-sterolo, che è un paese vicino a Racconigi, un anno aveva ricevuto i manifesti per la mobilitazione che i comuni debbono tenere in serbo per il caso di una chiamata alle armi: per ignoranza quando arrivarono li fece affiggere e a Monasterolo fu dichiarata la guerra. Corsero a Racconigi, al Castello, da tutte le parti. Erano state chiamate dieci classi; la gente ritornando in fretta dalla campagna era sconvolta. Bisognò acchiappare il segretario e obbligarlo a staccare, subito, personalmente, tutti i manifesti. Così farà lei col suo decreto».


sabato 19 novembre 2022

La principessa Mafalda di Savoia (1902-1944)

  di Emilio Del Bel Belluz



Domenica scorsa mi recai a Concordia Sagittaria, e la mia meta era quella di andare a visitare la chiesetta posta sul ciglio della strada, dedicata alla principessa Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana di Savoia, figlia secondogenita del Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Questa chiesetta mi ha subito colpito per la lapide che vi ho trovato sulla facciata, su cui erano incise le seguenti parole : “ A Mafalda di Savoia perché nell’onorare il suo martirio vengano sempre ricordati ed accomunati tutti gli italiani che offrirono nei campi di sterminio nazisti la loro vita per un’Italia migliore. 25 Aprile 1968." Da allora sono passati oltre cinquanta anni, ma quello che mi ha intristito è lo stato di abbandono in cui si trova, la porta chiusa, delle erbacce la circondano e il cinto di rispetto in pietre è in parte crollato. Mentre osservavo desolato e triste questo posto, mi sono messo a parlare con una donna che stava passeggiando. Le feci presente lo stato di degrado della chiesetta.  Avevo saputo che se ne occupava, un tempo, una persona anziana che ci ha lasciati, e la donna me ne ha dato conferma.  Mi raccontò inoltre di conoscere la storia di questa sfortunata principessa di Casa Savoia, e mi disse d’aver visto il film che parlava della sua vita e di essersi commossa. Mi sono chiesto come mai non ci fossero delle persone disponibili a mantenere la chiesetta, che è sempre la Casa del Signore, in modo dignitoso. Andandomene mentre il sole tramontava, pensai che se avessi vissuto vicino l’avrei tenuta in ordine ed adornata con dei fiori. Troverei giusto che anche queste piccole realtà venissero conservate. Mi auguro che al suo interno ci sia almeno un dipinto che raffiguri la Principessa sfortunata di Casa Savoia. Alla sua morte il vescovo di Napoli, Giuseppe Gagnor scrisse una preghiera che riporto:” Pietosissimo Iddio, che nei Tuoi imperscrutabili disegni, permettesti che la Tua serva Mafalda, nata e vissuta nella regalità della corte, si dipartisse da questa terra in seguito alle sofferenze ed all'abbandono vissuto negli ultimi mesi della sua esistenza terrena, lontano dalle cure e dall'affetto dei suoi, umiliata e vilipesa in suolo nemico, accetta il suo sacrificio! Fà che ella, spiritualmente ricollegata alle grandi donne della sua casa che la precedettero, in una dinastia di Santi e di Eroi, ascenda presto alla Beatitudine del Regno dei Cieli, onde intercedere presso di Te per la grandezza del Regno d'Italia. Così sia. Con approvazione ecclesiastica + Giuseppe Gagnor, Vescovo Napoli, 18 nov. 1945. Il 19 Novembre, ricorrenza della sua nascita,  metterò davanti alla porta chiusa della chiesetta, questa preghiera con dei fiori con la speranza che da Portogruaro o da Concordia Sagittaria qualcuno si occupi di riportarla all’antico splendore. Lasciai quel luogo con immensa malinconia che non voleva abbandonarmi. Allora ho ripensato ad alcune parole che scrisse Paola Capriolo : “ Una della poche consolazioni, quando perdiamo una persona cara, è data dal rendersi conto che la sua scomparsa è soltanto relativa : essa  continuerà in qualche modo ad esistere finché noi  esisteremo e la ricorderemo, e sopravviverà tanto più intensamente e durevolmente, quanto maggiore è  l’<eredità d’affetti> che lascia dietro di se” . Il 19 novembre 2022 saranno trascorsi 120 anni dalla nascita della principessa di casa Savoia,  Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana , nata nel 1902, dal matrimonio tra Vittorio Emanuele III e la sua consorte Regina Elena. Una nascita attesa con felicità dai genitori, ma il destino di quella bambina sarebbe stato segnato da tanto dolore.  Il Re  era salito al trono dopo l’uccisione del padre Umberto I in quel drammatico giorno di luglio del 1900 a Monza. Aveva riversato tutto il suo amore alla sua Patria e alla Patria del cuore che è da sempre la famiglia. Dal matrimonio nacquero altri figli, e finalmente venne l’erede  tanto atteso che nacque nel 1904 a Racconigi. La Principessa Mafalda visse fino al matrimonio in armonia con la famiglia. Fu vicina alla madre anche  durante il periodo buio della Grande Guerra, quando dovette aiutare  la Regina Elena, assieme alle sorelle, a curare i soldati feriti che venivano ricoverati in alcune stanze del Quirinale e a Villa Margherita. La vita in quel periodo era scandita da una rigida volontà della Regina Elena, ogni figlio aveva il suo compito. La Grande Guerra lasciò delle ferite profonde, difficili da rimarginare: distruzione di una parte d’Italia, molti invalidi e una grande povertà.   La principessa Mafalda con gli anni si affezionò a tutte le sorelle, al fratello Umberto e in modo particolare  alla principessa Giovanna. Nel 1923 Mafalda sposò a Racconigi,  il principe Filippo d’Assia e dal loro felice matrimonio nacquero ben quattro figli : Maurizio d’Assia (1926); Enrico d’Assia (1927-1999), Ottone  (1926 -1998), ed Elisabetta d’Assia. Una vita che sembrava essere una favola: il matrimonio d’amore, e la nascita dei figli a coronamento del loro matrimonio . Fu una sposa ed una madre esemplare. La principessa Mafalda aveva ereditato dalla madre la dedizione per le persone disagiate, per gli umili e questo il buon Dio non lo avrebbe mai dimenticato. La vita spesa per gli altri è la più nobile. Lo scrittore Romano Battaglia  scriveva: “ La merce più rara al mondo è il buon senso, la più preziosa il coraggio, la più fragile la virtù, la  più svalutata è l’intelligenza. Infatti è difficile incontrare persone di buon senso, coraggiose, virtuose, ma abbastanza facile trovarne di intelligenti”. La principessa Mafalda di Savoia era una donna di buon senso, a cui si univa una viva intelligenza. Tra le molti doti la contraddistinguevano  la generosità e l’altruismo. Lo dimostra il fatto che quando seppe della morte del marito di sua sorella Giovanna, si dice avvelenato dai tedeschi, non pensò minimamente a se stessa, e si precipitò subito da lei. L’idea che fosse sola in quel momento di dolore la spaventava, a dimostrazione dell’amore che la univa alla sorella. Affidò i suoi figli al Vescovo Montini, il futuro papa, che li nascose in Vaticano e partì per la Bulgaria, accompagnata da una persona di fiducia di suo padre il Re Vittorio Emanuele III. Dopo un viaggio difficile raggiunse l’adorata sorella e le stette accanto. Il mondo stava attraversando un periodo difficile, la guerra era al culmine. La sorella era distrutta dal dolore, la morte del marito e la sofferenza che l’uomo ha provato non sono comprensibili. Nino Bolla, uno dei massimi scrittori dei Savoia,  scrive nella rivista Historia :“ Il 21 settembre 1943:  la secondogenita di Vittorio Emanuele III è tornata a Roma dopo aver partecipato nella capitale Bulgara, alle esequie del cognato Re Boris che tredici anni prima in Assisi aveva sposato Giovanna di Savoia. E’ tornata, Mafalda con negli occhi il ricordo del pianto della sorella, prima di lei sfiorata dalla crudele sorte che, dopo tanto splendore e tante soddisfazioni per abbattersi, senza pietà, sui discendenti principali della stirpe  Sabauda”. Nonostante fosse stata messa al corrente dell’armistizio dalla Regina di Romania, decise comunque di rientrare a Roma per abbracciare i suoi figli che erano ospiti presso il Vaticano. Con l’inganno fu arrestata il 22 settembre 1943, portata in Germania e infine deportata  nel lager di Buchenwald. Venne rinchiusa in una baracca sotto il falso nome di Frau von Weber assieme all’ex deputato social democratico Rudolf Breitscheid e sua moglie.  Il suo fisico già provato dal dolore per lontananza dei figli, e dall’impossibilità di avere notizie del marito, deperì ulteriormente a causa del glaciale freddo invernale e del poco cibo che divideva con altri prigionieri. La guerra continuava e nell’agosto del 1944 un bombardamento anglo - americano distrusse la sua baracca. La principessa riportò gravissime ferite, pertanto, venne trasferita nell’infermeria del postribolo tedesco. Solo dopo quattro giorni fu sottoposta ad intervento chirurgico per sopraggiunta cancrena al braccio sinistro. Ma il ritardo dell’atto chirurgico la condusse alla morte dopo grandi sofferenze il 28 agosto 1944. Grazie all’intervento di un monaco boemo, le sue spoglie non vennero cremate e furono messe in una cassa di legno. Dopo alcuni mesi grazie all’intervento di sette marinai italiani, reduci dai lager nazisti, identificarono la bara della principessa, e posero una lapide e una croce in legno di quercia , che permisero successivamente  di identificarla. I suoi genitori vennero a conoscenza della sua morte solo dopo otto mesi, verso i primi di maggio del 1945. La vecchia regina alla notizia s’ accasciò e un pianto disperato la travolse ininterrottamente. Attualmente la principessa Mafalda riposa nel piccolo cimitero degli Assia nel castello di Kromberg in Taunus a Francoforte- Xochst, frazione di Francoforte sul Meno.  Le sue ultime parole furono dirette agli italiani del lager : “ Italiani, io muoio , ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana”

martedì 15 novembre 2022

IL PROFILO DI ROMA. DALLA META ALLA METAFISICA






Link  Info Conferenza

EUROPA INVERTEBRATA E “FIUME” IN SECCA



di Aldo A Mola

 

Una perturbazione atlantica in picchiata sull'Italia?

 

   Ma la Francia ama l'Italia? Come no! Dove, quando e da chi il re dei Franchi Carlo si fece porre sul capo la corona di Sacro Romano Imperatore? A Roma, il giorno di Natale dell'anno 800 d. Cr., da papa Leone III. Senza la Città Eterna la Francia rimane “in cerca”. La sua passione per l'Italia divampò nuovamente con Carlo VIII di Valois che, appena giovinotto, nel 1494 vi irruppe e in un battibaleno arrivò sino a Napoli. Il suo affetto non fu del tutto corrisposto. Papa Giulio II (Giuliano della Rovere, Savona, 1444-Roma, 1513) nel 1511 promosse la Lega Santa con Spagna e Venezia e bandì la crociata contro i francesi al grido “Fuori i barbari!”. Nel 1796, tre secoli dopo Carlo VIII, Napoleone Buonaparte capitanò la francese Armata d'Italia alla conquista del Bel Paese. Gli piacque allo spasimo. Contento che Ugo Foscolo lo avesse invocato “liberatore”, ne portò via tutto il possibile. Ricordini in gran parte rimasti là. Quando si incoronò imperatore si dichiarò successore di Carlo Magno. Anche Napoleone III volle bene agli italiani (di passaggio anche alla contessa di Castiglione, molto meno influente di quanto si narri). Appena morto Camillo Cavour, lo spiegò a Vittorio Emanuele II: l'Italia aveva sbagliato a volere l'“unificazione”, doveva contentarsi di essere una “unione”, più o meno una confederazione, senza toccare lo Stato Pontificio. Poi la storia andò come andò. Nel 1945-1947 la Francia di De Gaulle impose mortificanti rettifiche di frontiera, irrilevanti in caso di guerra. Aveva la testa volta al passato remoto. Ne scrisse “Il Pensiero di Nizza Bollettino semestrale di studi nizzardi e tendaschi,1995-2006”  riproposti in volume  da Achille Ragazzoni (ed. Settimo Sigillo). I recenti “dissensi” italo-francesi sono dunque appena un cirro in un cielo roseo rispetto alle tempeste dei tempi andati.

   Furono altri, come Altiero Spinelli e Jean Monnet, di qua e di là delle Alpi, a insegnare, settanta e più anni fa, che dopo la nuova guerra dei trent'anni (1914-1945) era tempo di Europa.

 

L'Europa non c'è

   Però i fatti sono ostinati. Insegnano che, come Clemens von Metternich diceva dell'Italia, l'“Europa” odierna è solo “un' espressione geografica”. Senza politica estera e di difesa veramente unitaria (lo ricorda il generale Claudio Graziano in “Missioni”, ed. Luiss) essa ha confini labili, a differenza della nostra Penisola che va indiscutibilmente dalle Alpi a Capo Passero. Nei miti e nei manualetti delle elementari l'Europa spaziava dall'Atlantico agli Urali. Oggi per molti essa termina dove inizia la Federazione delle repubbliche russe: strabismo politico-culturale dalle conseguenze imprevedibili. Parecchi hanno un'“idea di Europa” più piccola rispetto a quella già matura nel Settecento, quando zar e zarine attraevano in Russia giganti dell'Illuminismo. Il congresso di Vienna del 1815 fu incentrato sullo zar Alessandro I vincitore su Napoleone e “profeta” della Santa Alleanza stipulata tra lui, il re di Prussia e l'imperatore d'Austria (26 settembre 1815). I Tre sovrani decisero di «considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana delegati dalla Provvidenza a governare tre rami di una stessa famiglia», senza alcun bisogno di patti costituzionali con i sudditi. Il loro accordo, malgrado tutto, durò sino alla conflagrazione del 1914.

   La Grande Guerra, nel 1917 degenerata nella prima guerra mondiale, travolse quattro imperi (russo, turco, austro-ungarico e germanico) e partorì una decina di nuovi Stati di varie dimensioni (Finlandia, le repubbliche baltiche, la Polonia, la Ceco-Slovacchia, l'Albania, la Turchia stessa...): una babele condannata alla precarietà e precipitata nella seconda fase della “guerra dei trent'anni”, conclusa con la Conferenza di Postdam (17 luglio-2 agosto 1945), che definì un assetto durato fino al crollo dell'Unione sovietica. In “Requiem per un Impero” François Fejto ha descritto magistralmente le rovine causate dalla “repubblicanizzazione” dell'Europa orientale voluta dalla Francia all'indomani della Grande Guerra. La artificiosità dei confini tracciati nelle cinque paci del 1919-1923 generò l'instabilità interna degli Stati novelli e pulsioni neo-nazionalistiche, fomite di altri conflitti. È un “fatto” fisico.

 

Grande politica e passi rituali

   Tra i frutti tossici della Grande Guerra vi fu l'invenzione del “regno serbo-croato-sloveno”, tenuto a balia dai francesi e dal presidente degli Stati Uniti d'America Wilson che ne assunse la tutela.

   Nel quadro delle relazioni sta Stati antichi e di nuovo conio il Grande Oriente d'Italia (GOI) e la Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI), principali Comunità massoniche italiane negli anni dall'intervento nella Grande Guerra all'avvento del governo Mussolini (1915-1922), esercitarono un'influenza effettiva sulla politica estera e, in specie, per l'annessione di Fiume al Regno d'Italia sin dal 1917-1918? Se n’è parlato a Udine sabato 12 novembre alla presentazione del libro “L'impresa di Fiume tra mito e realtà, 1919-1920”, Atti del convegno svolto nel Castello di Villalta il 19 ottobre 1919 (ed. Etabeta), con interventi di Antonio Binni, già gran maestro della GLI, Valerio Perna, docente emerito di relazioni internazionali, Enrico Folisi e del filmografo Giorgio Sangiorgi. Il quesito merita attenzione perché è rimasto ai margini o è stato appena accennato nelle numerose e talora corpose opere pubblicate a ridosso del centenario della “marcia di Ronchi”. È il caso di “Fiume città di passione” di Raoul Pupo (ed. Laterza), che gli riserva un rapido cenno, mentre è del tutto ignorato nella magistrale opera di Maurizio Serra “D'Annunzio il Magnifico”. Se ne disse nel convegno internazionale di studi organizzato da Giordano Bruno Guerri al Vittoriale (Gardone) nel centenario dell'“impresa”, i cui Atti sono raccolti in “Fiume, 1919-2019” (Silvana Editoriale), ma l'interrogativo è entrato nelle corde solo di pochi studiosi di Fiume e della questione fiumana. Tra costoro, Luca Giuseppe Manenti ne ha scritto in “Meditati riserbi. La massoneria italiana e l'impresa di Fiume”, pubblicato con saggi di Fabio Todero in “Di un'altra Italia. Miti, parole e riti dell'impresa fiumana” (pref. di Raoul Pupo, ed. Gaspari).

   Nell'insieme la domanda sul peso politico effettivo delle Comunità massoniche è rimasta senza risposta esauriente, alla pari dell'altro quesito affiorato nel profluvio di libri pubblicati nel centenario della cosiddetta “marcia su Roma” e della formazione del governo Mussolini. Quale parte vi ebbero i massoni? Mere comparse o protagonisti? La differenza non è affatto irrilevante. Per comprenderne l'importanza occorre un cannocchiale con molte lenti. In primo luogo bisogna inquadrare le Comunità liberomuratòrie italiane nella rete della Massoneria universale: Grandi Orienti o Grandi Logge, secondo le loro denominazioni nei diversi Paesi, e i Conventi mondiali dei supremi consigli del Rito scozzese antico e accettato e gli altri Ordini liberomuratòri, sia noti e sia più riservati. In secondo tempo occorre “testare” il ruolo svolto dalle “massonerie” delle potenze uscite vittoriose dalla prima guerra mondiale nell’ideazione e costituzione della Lega delle Nazioni. Infine vanno accertati i rapporti tra quest'ultima e la Associazione Massonica Internazionale (AMI), di cui in Italia pochissimo si è scritto.

 

Tre “tre puntini” per Fiume italiana

   Nell'impossibilità di percorrere i meandri di una vicenda aggrovigliata e dalla documentazione frammentaria, per fornire almeno la cornice entro la quale vanno campeggiate “le opere e i giorni” delle Comunità liberomuratòrie italiane con riferimento alla “questione fiumana”, nodo delle tensioni italo-francesi, va ricordato in sintesi che i tre principali propugnatori dell'italianità di Fiume furono massoni: uno, Giacomo Treves, iniziato a Torino nella loggia “Ausonia” del GOI; un secondo, Antonio Vio, membro della “Sirius” di Fiume (già all'obbedienza della Gran Loggia simbolica di Ungheria); e un terzo, Attilio Prodam, iniziato in una “officina” di Venezia della Gran Loggia d'Italia. Si dovrebbe ricordare anche il leggendario Cesare Pettorelli Lalatta Finzi (iniziato alla Gran Loggia d'Italia) ma è meglio non disperdersi in troppi rivoli. Sin dal 30 ottobre 1918, prima della richiesta di armistizio (2-3 novembre) e della sua entrata in vigore (4 novembre) Vio rivendicò pubblicamente l'annessione di Fiume all'Italia. Lo fece con l'autorevolezza che gli derivava dall'essere maggiorente della città, come documenta il poderoso volume “I Verbali del Consiglio Nazionale Italiano di Fiume e del Comitato direttivo, 1918-1920” curato da Danilo L. Massagrande per la benemerita Società di Studi Fiumani. Nelle stesse ore Prodam intraprese la sua missione. Da Fiume raggiunse l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel e lo sollecitò a inviare una squadra navale per presidiare la città quarnerina dalle mire dello Stato serbo-croato-sloveno i cui rappresentanti da anni operavano in perfetta sintonia con il Grande Oriente di Francia e con la Gran Loggia di Francia, efficaci proiezioni della politica estera di Parigi. Come egli stesso narrò in “Gli Argonauti del Carnaro”, Prodam ottenne riscontro positivo dal comandante della Marina italiana (membro del Supremo consiglio della Gran loggia d'Italia), che, è da credere, attendeva da parte dei fiumani un segnale che legittimasse l'immediato invio di navi, giunte nel porto di Fiume la mattina del 3 novembre. A quel modo venne scongiurato il rischio che l'occupazione interalleata della città escludesse l'Italia dalla possibilità di accogliere il voto di quanti ne chiedevano l'annessione.

   In vista della pubblicazione del trattato di pace italo-austriaco di Saint-Germain (10 settembre 1919), che rese ufficiale l'esclusione di Fiume dalle terre assegnate al regno d'Italia, Vio rimase a presidiare la città contro gli “autonomisti” capitanati da Riccardo Zanella (ne ha scritto ripetutamente Giovanni Stelli, autore della densa “Storia di Fiume dalle origini ai giorni nostri”, ed. Biblioteca dell'Immagine). Fiume era in fermento. Lo si vide con i “vespri fiumani”, il 6 luglio 1919, quando in un conflitto a fuoco con marinai italiani i “francesi” (alcuni erano annamiti, invero) lamentarono nove morti e undici feriti.

   A inizio settembre, invece, Prodam e Treves in giorni diversi e separatamente raggiunsero Gabriele d'Annunzio alla Casetta Rossa in Venezia per chiedergli di mettersi alla guida della spedizione armata su Fiume, con l'assicurazione che avrebbe avuto il sostegno di un reggimento dei Granatieri di Sardegna ispirati dai “Sette giurati di Ronchi” (nessuno dei quali risulta massone), decisi ad assumere l'iniziativa armata in aperto conflitto con il governo di Roma, tenuto a rispettare il trattato di pace di cui era firmatario. Dopo il Trattato di Versailles del 28 giugno, quello di Saint-Germain costituiva il secondo punto di arrivo del Congresso di pace in corso a Parigi.

   A cospetto del “colpo di mano”, il governo italiano, presieduto da Francesco Saverio Nitti tenne una condotta altalenante. Ufficialmente contrario all'“impresa” e preoccupato per l'afflusso in Fiume di un numero elevato di militari (sin quasi a diecimila uomini), indifferenti al richiamo all'ordine, tentò continuamente mediazioni e non ostacolò i giganteschi soccorsi recati a Fiume dalla Croce Rossa presieduta dal massone Giovanni Ciraolo, che svolse una “diplomazia parallela”.

   Il 25 settembre Vittorio Emanuele III convocò un inedito “Consiglio della Corona” con la partecipazione degli ex presidenti del governo (Giolitti incluso) e dei rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. I soliti socialisti si sottrassero accampando che esso non figurava tra gli organi politici previsti dallo Statuto. Il parere fu unanime: il governo non poteva dichiarare unilateralmente l'annessione di Fiume. Si trattava di una “questione” di carattere internazionale tanto più che erano ancora in corso i lavori poi approdati ai Trattati di pace di Neuilly, Trianon e Sèvres.

   La debolezza del governo Nitti aveva alle spalle gli errori dei suoi predecessori come bene argomenta Valerio Perna nel saggio sulla Marcia di Ronchi, “Un evento annunciato: i presupposti di un colpo di mano”. Si continuava a usare “moneta vecchia” (la disputa su questioni territoriali minimali) a cospetto della “moneta nuova”: lo scenario aperto dal crollo della “Vecchia Europa” e dall'irruzione degli Stati Uniti d'America che al congresso di Parigi si presentò forte di centinaia di consulenti, mentre Roma si limitò a un paio di “politici”, Orlando e Sonnino, a parte Silvio Crespi che a cospetto dalla loro inconcludenza si dimise.

 

D'Annunzio diplomatico o rivoluzionario?

   Un secolo dopo va constatato che l'ambiguità di Nitti costrinse d'Annunzio a proseguire per la sua via. Che cosa fare a Fiume? In “D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume” (ed. Rubbettino) con dovizia di documenti e di analisi Eugenio Di Rienzo colloca l'“impresa” e la sua “lunga durata” nel groviglio dell'instabilità politico-militare postbellica e della “ritirata” degli USA dagli affari europei sin dal crepuscolo dalla presidenza di Wilson. Appena un mese dopo l'“occupazione” della “città olocausta” d'Annunzio fu sul punto di andare oltre l'incertezza con una seconda “marcia”, su (e da) Trieste per incendiare l'Italia. Cozzò contro la ferma opposizione del gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Domizio Torrigiani (GOI). La nuova “impresa” avrebbe scatenato l'insurrezione dei socialisti e questi sarebbero stati annientati dall'esercito. In Italia si sarebbe imposto un regime militare. Ma a defilarsi furono anche altri, compreso Benito Mussolini (già al soldo degli inglesi, 75 sterline al mese, secondo quanto scrivono Cereghino e Fasanella in “Nero di Londra”, ed. Chiarelettere) che “capitalizzò” il fiumanesimo a vantaggio del fascismo nascente.

   La “stasi” della questione fiumana fino alla proclamazione della Reggenza e della Carta del Carnaro e al Trattato italo-jugoslavo di Rapallo (novembre 1920) concorse a condurre l'“impresa” nei binari degli interessi dell'Italia, al riparo dalle pesanti interferenze di Parigi. A deciderne le sorti fu infine Vittorio Emanuele III, che recepì e sintetizzò i “consigli” delle maggiori forze economiche del Paese, molto più risolutivi rispetto all'anemico Consiglio della Corona del 25 settembre 1919. I nodi aggrovigliati sul confine italo-jugoslavo nel 1918-1924 si ripresentarono vent'anni dopo, a danno degli italofoni della costa dalmata, di Fiume, dell'Istria e della Venezia Giulia con la terribile  pagina delle foibe e del forzato esodo di trecentomila cittadini italiani. Tra i quali Attilio Prodam, poi asceso alla guida della Gran Loggia d'Italia. Quel “mondo” rimane in attesa di essere meglio conosciuto e apprezzato.

   Dunque gli screzi odierni tra le “sorelle latine” hanno secoli di storia alle spalle. Sono brume in attesa che sull'Europa sorga il Sole.

Aldo A. Mola

 

 

DIDASCALIA: Sui rapporti tra Gabriele d'Annunzio (Pescara, 1863-Gardone Riviera, 1938: qui ritratto nella copertina del Quaderno curato da Giacomo Treves per il Comitato torinese “Pro Fiume e Dalmazia) e la Libera Muratoria ha scritto recentemente Raffaella Canovi in “L'Iniziato. D'Annunzio e la Massoneria” (ed. Ianieri), che privilegia Giacomo Treves quale tramite fra il Vate e il Grande Oriente d'Italia. Molto più durevole e profondo fu il rapporto instaurato dal Poeta con Attilio Prodam, rimasto al suo fianco anche nel “Natale di sangue”, venerabile della “XXX Ottobre”, “officina” della Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) e “ponte” tra il Comandante e il sovrano scozzesista Raoul Palermi. Suscita interesse il notevolissimo sviluppo registrato dalla rete di logge della GLI da Trieste all'Istria e alla costa dalmatica dopo il 1918.

   Poiché è una realtà poco nota, giova ricordare alcuni dati. In primo luogo, nel decennio tra il 1915 e l'auto-scioglimento (1926), deliberato sotto la persecuzione antimassonica scatenata dai nazionalfascisti, vennero annotate 28.800 iniziazioni, alcune delle quali “segrete”. A parte le logge installate all'estero, richiamano l'attenzione quelle di Trieste (“Trieste Redenta”, “Nuova Italia” “Washington”, “Bovio”, “San Giusto”, “Sabotino”, “Adriano Lemmi”), Udine (“Carlo Pisacane”, “Cavalieri del Friuli”), Gorizia (“Santa Gorizia”), Istria (“Capodistria”, “Nazario Sauro”), Pola (IV novembre”, “Nazario Sauro”), Abbazia (“Concordia”), Zara (“Premuda”) e, s'intende, Fiume (“XXX Ottobre 1918-12 settembre 1919”).

   Troppo spesso sottostimato dai massonologi, Palermi si mosse con lungimiranza, attraendo nella sua Comunità personalità già affermate: militari, industriali (tra i quali Vittorio Valletta), banchieri, diplomatici, politici nettamente contrari al bolscevismo, artisti, scrittori (Curzio Malaparte), futuri storici (come Nino Valeri, collaboratore di uno dei figli del Vate, Gabriellino d'Annunzio, a sua volta iniziato), sino ad Antonio De Curtis, “Totò”, Cesco Baseggio e altri.

   Anche su pressione dei nazionalisti, Mussolini annientò il GOI e la GLI ma continuò a valersi di massoni, anche in posizioni eminenti (Italo Balbo, Giacomo Acerbo, Balbino Giuliano, Edmondo Rossoni, Alberto Beneduce...), perché essi costituivano il nerbo della classe dirigente e risultavano insostituibili. Esattamene come accadeva negli USA, in Gran Bretagna, Francia e negli Stati di nuova creazione, ove le logge erano e sono espressone diretta e indiretta della “grande politica”, le cui vicende possono dunque essere meglio comprese proprio addentrandosi nel mondo latomistico, da studiare e narrare senza pregiudizi, compreso quello secondo il quale le logge non si occupano né di politica né di religione. È esatto, ma solo se per tali si intendano “fazioni” e  “fanatismi”.


domenica 13 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, III parte

 


Edoardo VII elegante, parlatore e «colto per sentito dire»; Felix Faure «che diceva di aver vinto i tedeschi nel '7O alla testa dei pompieri di Le Havre»; Francesco Giuseppe: «un ometto tutto timido che parlava con molta calma e modestia» ; Nicola II «brav'uomo debolissimo di carattere»; l'Imperatrice Alessandra Feodorowna con la quale si intrattenne a discutere come un capitano di fanteria della differenza tra una compagnia russa di 18o uomini e una tedesca di 150 e il suo migliore impiego tattico. Egli ammirava quell'Imperatrice prima che si «mettesse a credere ai miracoli; perché quando uno crede ai miracoli non ha certo la testa a posto».

Quest'Europa evidentemente invecchiata, vivente sul «balance of powers» e la solidarietà dei Troni non gli riusciva simpatica. In un certo senso la sua natura romantica in questo continente ancora fermamente basato sul «diritto divino» lo spingeva dalla parte dei rivoluzionari.

Le sue simpatie, ricambiate, per Turati e Bissolati sono notorie, la sua risposta al Gianturco, che eccedendo in zelo punitivo per la uccisione di Re Umberto, proponeva una reazione più energica non è altrettanto nota: «Allora, - egli disse al Ministro che proponeva la sospensione dei poteri delle due Camere - sarò io stesso a guidare un battaglione per occupare Palazzo Madama».

La lunga collaborazione col più rivoluzionario dei suoi ministri, il Giolitti, è altrettanto nota, sebbene si sia voluto fare d quest'incontro un antagonismo, e di Giolitti il più fedele dei servitori della monarchia costituzionale, un repubblicano in palamidone.

Non è vero che egli non credesse a niente, fosse uno scettico al di là d'ogni fede, un ateo incapace di palpiti e di commozioni, egli credeva prima di tutto nell'Italia e negli italiani: senza retorica, in base ad una valutazione obiettiva e, per questo punto, rimandiamo alle parole dette a Peschiera per scagionare il Soldato, l'umile proletario trincerista, dell'accusa che lo, gravava.

Credeva nelle loro virtù numerose e grandi, sapeva che non sempre essi erano diretti bene; sbagli, anche grandi e pericolosi se ne commettevano ma — come ebbe a dire —«non mai per tradimento o per bassezza di passioni». Il suo, nel complesso, gli appariva un popolo superiore. D'altra parte rimeditando la storia della sua piccola Casa, diventata a mano a mano, traverso i secoli e le audacie, una delle più importanti dinastie regnanti nel mondo, gli pareva giusto e logico attribuire agli italiani e all'Italia un destino di «crescenza», non foss'altro perché nel poco spazio e sulla magra terra della Penisola questo popolo viveva assai poveramente.

Non fosse, stato un romantico non avrebbe «tentato» la via delle guerre: la sola offerta alle Nazioni che non trovano nel loro suolo materie prime da ,trasformare ed esportare. Egli disse anche il perché delle guerre combattute, malgrado che personalmente amasse la pace e la tranquillità degli studi.

La guerra di Libia la iniziò perché là opinione pubblica la voleva e la contingenza internazionale (come si vedrà più oltre) non offriva altra scelta. A determinarlo intervenne una causa «debole» ma potente: il ministro degli esteri di San Giuliano, parente di Hassuna pascià di Tripoli, per via di un suo nonno che avendo ucciso un rivale durante la rivoluzione siciliana del '48 era fuggito a Tripoli e qui aveva sposato la figliuola di un Caramanli, garantiva  il successo assoluto dell'Impresa alla quale Giolitti riluttante in principio si decise.

L'entrata nella guerra mondiale risaliva a cause assai più profonde. Dall'avvento al trono in poi Re Vittorio si era dedicato alla difficilissima opera di demolire la Triplice. Nella seconda parte di quest'Introduzione il lavorio incessante del Re è seguito da vicino. Egli obbediva con questo alla sua natura romantica, «rivoluzionaria», per così dire; ma anche ad una tradizione della sua casa e lo disse esplicitamente al generale Angelo Gatti nell'anno 1923: «Da secoli i Savoja tentavano l'impresa, nel 1915 si presentava l'occasione opportuna». Inoltre, era convinto che dalla parte dell'Inghilterra e della Russia non si potesse perdere. «Noi ora abbiamo visto come sia la Russia — disse al Gatti — ma allora sembrava un colosso; del resto anche l'Inghilterra benché abbia vinto la guerra,- ha perduto grandezza e importanza. Con tanta roba presa è meno forte di prima. L'areoplano e il sommergibile hanno rovinata la sua potenza; qualche altra Nazione, forse, l'America prenderà il suo posto».

Era un Savoja che misurava la sua sorte. Sapeva come per un Re non fosse mai buon tempo e s'era fatta persino una teoria sulla «relatività storica» dei tempi in cui vive un Re. Son tutti tempestosi o agitati i giorni, le settimane, i mesi e gli anni di un Regno. Visti dall'esterno possono apparire idilliaci, visti dalle finestre della Reggia cambiano volto. Se si considerano gli anni 1908, 9, 10, 11, mostrano una faccia ridente, florida, pacifica e un'altra percorsa dalle rughe e dalle nuvole di avvenimenti o di avvisaglie gravissime. Tutto il suo regno è agitato dalla lotta sociale, dalle insurrezioni, dagli attentati anarchici. Egli ravvisa per primo il mutare delle condizioni di equilibrio tra capitale e lavoro, accetta (che per un Re era un gran bel sacrificio) il suffragio universale, accetta Giolitti e l'associa al periodo più glorioso del suo Regno.

Vittorio Emanuele non ebbe amici e stimò pochissime persone, tra queste sommamente di San Giuliano, del quale disse a giusto titolo, che se fosse stato vivo e presente a Versaglia la storia d'Italia sarebbe andata per altro verso; e Giolitti. Presso questo Re non era possibile e non fu possibile un «Partito di Corte », i suoi Presidenti del Consiglio, della Camera e del Senato rappresentavano gli strumenti del regno («Io non ho altre orecchie che il Senato e la Camera» disse, più tardi, ai deputati aventiniani Giolitti, lo definì lui stesso «il più fedele servitore di Casa Savoja»; forse avrebbe fatto meglio a indicarlo come il più preciso interprete della sua particolare concezione del Regno. Giolitti aveva servito fedelmente Umberto I e continuò con lui, avendolo consenziente nell'opera piuttosto ardita di dare una base al sentimento e al pensiero democratico del paese, secondo il movimento di idee, iniziatosi attorno ai primi anni del secolo. Al Giolitti, Re Vittorio disse di «concedere al popolo il centoventi per cento, anziché il cento » e si vide nella legislazione sociale di quell'epoca, tra le più ardite d'Europa, cosa volesse dire un Re democratico. Tutto ciò non evitava i grandi scioperi del 1901, ne gli risparmiò la revolverata del muratore d'Alba.

Incerti del mestiere di Re ai quali sarebbe temerario attribuire significati trascendenti il mutare dei rapporti tra Re Vittorio e il suo più intimo collaboratore, Giolitti. Di questi egli vide, però, anche taluni lati criticabili. «Poteva sopportare una somma enorme di lavoro e sotto questo aspetto, egli fece insieme male e bene al Paese. Conservò, infatti, la macchina dello Stato così pesante e ingombrante come l'aveva trovata, per quanto fosse stato l'uomo più adatto a semplificarla e più volte dicesse: Se tutti gli impiegati lavorassero tre ore .al giorno potrebbero essere ridotti della metà. Perché, dunque non obbligò quegli impiegati, tolte onorevoli eccezioni, a lavorare le tre ore? Perché, ed era qui il suo lato debole, in fondo mancava anche lui di coraggio: 'non di coraggio fisico che aveva, ma di coraggio morale. Quel coraggio e quella padronanza egli dimostrò costantemente in Parlamento ma non sempre di fronte alla folla che cercò piuttosto di capire e di accontentare. Quando le cose giungevano a'non poter essere risolte tranquillamente, quasi sempre egli si ritirava per tornare a bonaccia ristabilita. Era per natura e per educazione contrario alla guerra; aveva in fondo la convinzione che gli italiani si mettessero poco volentieri nell'avventura di un conflitto».

  

Capitolo XXVII: Il dono inaspettato

 di Emilio Del Bel Belluz 


L’interesse di Umberto per la Regina Elena divenne uno degli argomenti di cui si discuteva in famiglia. Per lui la Sovrana era come un grande angelo che proteggeva sia i bambini che gli adulti. Sulla copertina del quaderno nero aveva scritto a penna:” La storia di una buona Regina”. Nei pomeriggi che seguirono, dopo aver  fatto i compiti, si metteva seduto a ritagliare e poi incollare gli articoli che Genoveffa gli  aveva dato sulla Regina. Dalle pagine dei giornali  poteva trovare oltre che degli scritti importanti, anche delle foto davvero interessanti. Ce n’era una che raffigurava  la Sovrana mentre distribuiva dei pacchi dono a dei bambini bisognosi di una scuola elementare. 
I loro volti erano illuminati di felicità. Per un attimo Umberto avrebbe voluto essere tra quei bimbi per ricevere un dono. Inchinandosi davanti alla Sovrana, Le avrebbe detto che  si chiamava come  suo figlio, e che suo padre, umile pescatore, era nato nello stesso anno del Principe. Era talmente  assorto in questi pensieri che si era completamente estraniato dal mondo circostante e si godeva della felicità che lo possedeva. Per continuare la sua ricerca aveva bussato anche alla porta della canonica, gli aprì la pingue perpetua alla quale chiese se avesse raccolto dei vecchi giornali. Costei lo fece accomodare e chiamò il vecchio curato che stava leggendo nel suo studio per raccontargli il motivo della visita. 
Il curato si tolse gli occhiali e disse che dei  vecchi giornali erano rimasti che pochi fogli. Una volta letti li utilizzava la perpetua per  accendere il fuoco o per pulire i vetri delle finestre. Il parroco lo fece accomodare, e notò la delusione che traspariva dal suo volto, e gli aveva offuscato il sorriso. Umberto, a cui non mancavano gli argomenti, disse che doveva andare a casa a fare una commissione per la mamma. Questa era una scusa, e lo si vedeva da come era arrossito. Il parroco allora gli disse che poteva prestargli un libro scritto proprio sulla vita della Sovrana, a cui era molto affezionato. Lo aveva avuto in dono da un fedele per sdebitarsi di un favore che gli aveva fatto. Costui era andato a Roma in pellegrinaggio e in una bancarella,  dove venivano poste in vendita degli oggetti per raccogliere dei fondi da elargire in beneficenza, si era imbattuto in questo libro che portava la foto della Regina Elena. Il parroco sapeva che la Sovrana, pur di aiutare i suoi bisognosi, aveva fatto una cosa inaspettata: porre in vendita la sua foto con dedica e un libro autobiografico.  Umberto prese in mano il libro e baciò la foto della Mamma dei poveri, senza dire una parola. I suoi occhi si illuminarono come se avesse visto il paradiso, non poteva chiedere di più dalla vita. La foto  era uguale a quella che teneva la maestra appesa in classe. Il parroco, essendo vecchio e non avendo dei parenti, pensò che quella foto con il libro avrebbe potuto donarglieli a Umberto, almeno avrebbe fatto un gesto d’amore verso quel ragazzo che gli era sempre piaciuto. Un domani forse lo avrebbe ricordato, e questo non era poca cosa.
La perpetua che aveva assistito alla scena si commosse, il gesto del parroco gli aveva toccato le corde del cuore. Umberto salutò il curato e diede un bacio affettuoso alla perpetua. Il cuore gli batteva forte nel petto e corse velocemente verso casa.  Prima di entrarvi, vide da lontano suo padre che stava avvicinandosi alla riva e lo salutò festosamente. Entrò in cucina e la madre stava preparando la tavola; subito le andò vicino e l’abbracciò, e sia la donna che i suoi fratelli non compresero la gioia di Umberto.  Quando entrò il padre vide che teneva tra le mani il libro della Sovrana  e capì la sua euforia. Quella sera Umberto non abbandonò mai il suo libro, era timoroso che qualcuno lo sporcasse e chiese al babbo se poteva fargli una cornice per porvi la foto della Regina. Vittorio sorrise, aveva avuto una giornata molto fortunata, il pesce pescato era stato abbondante. La stanchezza che aveva accumulato durante il giorno, era stata ripagata anche dalla felicità del figlio.  Costui raccontò dell’atto generoso del parroco e della gioia che gli aveva procurato. Umberto venne a sapere dal curato  che la sovrana amava la pesca e donava il pescato alle persone che avevano fame. 
Era generosa verso i poveri e, nel suo piccolo, riusciva a sfamarli, come fece Gesù con il miracolo dei cinque pani e dei due pesci. Umberto prima di ritirarsi volle abbracciare la sua famiglia, e soprattutto Genoveffa che aveva portato delle fette di torta che le erano state donate da una donna del paese.  Si trattava del dolce del pescatore. Era stato appena sfornato e la sua fragranza si espanse in tutta la cucina. Quella notte Umberto non chiuse occhio, più volte aveva preso in mano il libro e aveva letto mille volte la firma della regina Elena scritta in inchiostro nero seppia. Aveva pensato che anche la sovrana aveva toccato il suo libro, come aveva preso in mano la foto. Gli sembrava una cosa bellissima che non avrebbe cambiato con niente al mondo. Si addormentò solo all’alba. Il padre Vittorio era rimasto in cucina con Elena e Genoveffa. 
Aveva voluto metterle al corrente che in paese era arrivata una nuova famiglia di agricoltori e che si era sistemata in una vecchia casa. Si trattava di una famiglia numerosa che magari aveva bisogno d’aiuto e l’indomani si sarebbe recato a trovarla, portandole come segno d’amicizia dei pesci che aveva pescato in abbondanza. Ogni famiglia nuova era una ricchezza per il paese. Era stato il postino che lo aveva informato di questa famiglia che arrivava da un paese vicino in cerca di fortuna, e aveva saputo che aveva già acquistato il biglietto per andare  in America; ma l’ aveva dissuasa il parroco che si era impegnato a trovar loro quella casa che era disabitata da tanto tempo. Una casa che aveva bisogno di essere ristrutturata, ma a quella gente la buona volontà non mancava. La gente bisognosa si rivolgeva al parroco perché sapeva di trovare una spalla su cui appoggiarsi. La sola persona che brontolava per la sua generosità era la perpetua, che trovava sempre la dispensa vuota a causa delle elargizioni del sacerdote. La filosofia di quest’ultimo era:”Dio vede e Dio provvede”.  
Con una mano il vecchio parroco riceveva e con l’altra dava. Spesso elevava le mani al cielo e ringraziava il buon Dio che non si era dimenticato di lui. Questa volta per aiutare la nuova famiglia aveva dovuto chiedere aiuto a Vittorio che non chiudeva mai la porta e  il cuore a chi abbisognava di qualcosa.  La famiglia aveva dei bambini piccoli che non potevano vivere in quella casa. 
Vittorio che era una persona pragmatica cercò in tutti i modi di appianare le difficoltà in cui si trovavano. Per prima cosa pensò al cibo. Portò con sé parte del pescato ed altri viveri.  La famiglia lo ricevette in una stanza fredda dove il fuoco non era acceso. Sembravano dei profughi fuggiti dalla guerra. Il rapporto che instaurò Vittorio con il capo famiglia fu immediato, dandogli il benvenuto, gli strinse la mano. Vittorio gli donò il cibo portato con sé e gli spiegò che non era sua intenzione fare della carità, ma si trattava di una usanza che aveva sempre praticato con i nuovi arrivati.  La famiglia gradì molto questa accoglienza, e si misero a parlare del futuro. Vittorio le prospettò che la terra, essendo da molti anni incolta, avrebbe richiesto parecchio lavoro per essere nuovamente pronta per la semina. Vittorio le offerse il suo aiuto, due braccia in più potevano fare la differenza. Nel frattempo  arrivò il curato con un carretto pieno di provviste che aveva acquistato alla bottega del paese, impegnandosi di pagarle con il tempo. Il bottegaio poi lo conosceva bene, e sapeva che alla fine, molta di quella roba gliela avrebbe dovuta regalare. Il curato fu molto felice che ci fosse Vittorio, perché voleva chiedergli  di ospitare i piccoli figli della coppia. Il colono rimase senza parole davanti a una tale umanità. Si commosse e accettò di buon grado l’aiuto. 

La donna teneva tra le braccia i due bambini, e il suo volto aveva ripreso a sorridere. Il parroco aveva portato con sé un crocefisso e un quadretto della Madonna dei Miracoli di Motta di Livenza. Il curato chiese a tutti di alzarsi in piedi e di partecipare alla benedizione della casa e di tutte le persone che vi abitavano. I due genitori fecero un cenno di gratitudine a Vittorio pieno di speranza. Quella stessa sera i due figli piccoli del nuovo colono si trasferivano per il tempo necessario da lui. Durante la strada rifletteva che nella vita se si aiuta qualcuno il buon Dio non dimentica.

sabato 12 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, II parte

 

La sua natura precisa, laconica ed esauriente, come quella delle monete che collezionava, si muto in qualche modo e il pessimismo di cui era ammalato, il segreto romanticismo della sua infanzia solitaria, della sua giovinezza dispersa tra guarnigioni di provincia e visite all'estero in missioni ufficiali si moderò e arrotondò.

Osio che l'obbligava, fanciullo, a montare cavalli difficili (erano cavalli da Corsa non più buoni per ippodromi, ma tuttavia ombrosi, difettosi, nervosi ed estemporanei: abituati a partire di carriera appena venissero repentinamente voltati) gli procurò una contusione ad un ginocchio che gli dolse sempre. Recatosi in viaggio ad Hammerfest, cadde da una scaletta e battetele quel medesimo ginocchio che, per questo, non gli dolse più. La sua vita rassomiglia molto a questo episodio.

* * *

Re Vittorio avrebbe voluto condensare, come Marco Aurelio, in un libro di Massime e Precetti, la sua esperienza e le sue osservazioni sugli uomini e sulle cose. Ritenne di non poterlo fare per mancanza di tempo e perché non sapeva maneggiare la penna. Dotato di una cultura immensa e di una memoria illimitata, il Re non amava le parole. Egli s'era fatta una natura di classificatore: monete, uomini, fatti, ed era capace di trovare i più sottili rapporti tra loro. Ma non sapeva o non voleva " narrare". Per antipatia, ripeto, alla parola o perché scrivendo gli pareva di dire troppo. C'erano persino delle parole che odiava cordialmente. Raccontava lui stesso che da ragazzo nel "Manuale per l'istruzione militare" che gli spiegava un sergente Tane, finito poi colonnello, c'era un participio all'udire il quale gli si allegavano i denti e se ne ricordava sempre quando gli tenevano grossi e vuoti discorsi. Questo participio inserito nella istruzione per l'uso del fucile Wetterley era: “caricantèsi". " Il fucile Wetterley caricantesi dalla culatta..." Non poteva soffrirlo.

Avesse avuta facoltà di scrittore probabilmente la sua intelligenza acuminata, la sua personalità e il suo animo ne avrebbero tratto vantaggio. Probabilmente avrebbe potuto meglio e più largamente difendersi nel periodo buio dopo il '43 e avrebbe opposto, in un mondo caotico di eloquenti disonesti salvatori della patria, sopravvenuti con la catastrofe, una più esplicita e pacata comunicativa. Ma noi non possiamo non soffermarci ammirati dinnanzi agli "aridi" silenzi di Vittorio Emanuele III, specialmente quando la maggioranza dei suoi interlocutori non meritava la sua parola.

Lui parlò a Peschiera e in altre tre o quattro occasioni, queste ultime nella nera sorte e nel triste Regno del Sud, quando si trattò di difendere con la sua piccola figura quella più grande, distante e immemore della disgraziata Italia. Gli bastò.

Non dunque con parole sue o in gran parte sue si scriverà la storia lunga del suo Regno. Ci penseranno gli altri e già l'opera di revisione è iniziata.

Anche gli scrittori più conformisti si attengono, trattando di lui, ad un distanziato e obiettivo rispetto. Noi siamo convinti, d'altra parte, che se avesse potuto scrivere lui stesso la storia della sua vita e del suo regno sarebbe stato assai più netto, nei giudizi e nelle condanne, di molti dei suoi avversari in buona fede. Comunque è buon segno, tanto per la Repubblica che per la Monarchia italiana, che si tenti di penetrare nel profondo significato della sua opera e della sua personalità, Qualche ardita teoria va facendosi strada, qualche modifica sostanziale di giudizi inveterati  ed erronei — giudizi che lo vedono o arido o cinico o solo attento alle fortune dinastiche o avaro e intento ad accumulare per sé e per i suoi — viene introdotta.

Configurando il cammino della idea socialista in Italia, dal 1900 alla marcia su Roma, ebbi occasione di avanzare una ipotesi tutta romantica: che lui, il Re, avesse concepito la rivoluzione delle camicie nere come il solo, concreto modo di inserire finalmente il socialismo nello stato. Documenti e testimonianze ulteriori hanno confermata questa intuizione.

Anche l'esteriore della sua infanzia e della sua giovinezza mostra caratteri romantici: la solitudine tra la severità di Osio e la indifferenza di mons. Anzino, il cappellano di Corte, gli studi pertinaci, le lunghe guarnigioni con pochi o nessun amico, i viaggi di rappresentanza all'estero e le esperienze che egli ne traeva osservando un'Europa fin di secolo, bilanciata tra l'ordine del vecchio Congresso di Vienna e il fermentare delle rivoluzioni e guerre che sarebbero presto cominciate e non sono ancora finite.

Dei contatti con i potenti del tempo Vittorio Emanuele teneva una salda memoria, rammentando tipi e figure di Capi di Stato, quei pochi che da Principe ereditario aveva potuto conoscere e non si scorre senza interesse questo albo sbiadito. Guglielmo II, il sovrano più colto e intelligente del continente, trascinato alla guerra da Bethmann Hollweg e da Moltke; Bismarck, che vide nell"88 alle feste dell'incoronazione a Berlino e gli ricordò con delicatezza tutta tedesca: «Voi italiani siete il popolo delle tre S: nel 1859 con Schierino prendeste la Lombardia; nel 1866 con Sadowa prendeste il Veneto; nel 1870 con Sédan prendeste Roma; nessuna delle tre S venne fatta da voi». Ed egli da allora avvertì la necessità per l'Italia di « ar da sé qualche S».

venerdì 11 novembre 2022

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse

  L'11 Novembre ricorre l'anniversario della nascita di Re Vittorio Emanuele III. Vogliamo ricordare l'evento con la pubblicazione della prefazione di un libro bellissimo: "Il Re, i Soldati, il Generale che vinse" di Giovanni Artieri.

Il libro merita di essere letto per intero e, abbiamo verificato, si trova in molte librerie antiquarie online.
Di seguito la prima parte della prefazione. 




In questo libro piuttosto breve e inadeguato si cerca di offrire con alcuni documenti inediti, osservazioni, note e notizie, una immagine approssimata al vero del Re Vittorio Emanuele III, dei Soldati e del Generale che vinse la guerra mondiale n. !. In grandissima parte, se non in lutto, le giovani generazioni hanno dimenticato questa storia italiana. i reduci della prima guerra mondiale sono dei vecchi uomini dai capelli grigi, uscieri di banche o di ministero, con qualche arto mancante, impiegati che non hanno fatto una troppo brillante carriera, uomini politici travolti o tramontati, scrittori e giornalisti quasi sepolti nelle nebbie delle ricordanze. Si riconoscono per la" placca" di mutilato a forma di scudo incoronato di alloro e per le rughe.

Altri mutilati sono sopraggiunti, così in quella umanità italiana che fece la prima guerra mondiale e doveva comporre un'aristocrazia, come si diceva una volta, si è introdotta la corrente dei nuovi combattenti delle ulteriori guerre d'Italia; di questa povera Italia che, per vivere male, ha dovuto fare delle ingrate guerre.

Al comparire di alcuni stralci di questo libro su un grande settimanale di Milano, potetti osservare come la gran massa dei giovani nulla sapesse, non dico dei protagonisti della nostra guerra vinta, ma dei luoghi e delle vicende e delle battaglie e delle umili grandissime cose operate dai soldati.

Mi parve, e non so se sia vero, che la nuova generazione avesse preso l'abito mentale della sconfitta, si fosse acconciata a non conoscere altro delle lotte italiane in Europa, che il lato doloroso e disgraziato. La gran parte dei consensi, per aver narrato in quel giornale taluni momenti della vita del generale Armando Diaz, mi venne proprio da ragazzi che scrissero o dissero. " Noi non sapevamo nulla" . Pure, sulla guerra mondiale n. 1 esistono intere biblioteche e s'è sviluppata una parte dell'o pera di un grandissimo Poeta italiano; da quella guerra vinta, usci, anche, una nuova stagione della vita italiana, solare nei suoi inizi, tragica e violenta alla fine.

Il rifiorire degli studi, delle storie, e cronache attorno a quella guerra, al Regno e al Re che la vinse e ai suoi protagonisti può forse largamente contribuire alla ricostruzione morale, se così vogliamo dire, d' un'Italia che abbia, ancora una volta, coscienza di sé.

Con queste finalità si sono scritte le pagine che seguono sulla figura del Re Vittorio e sulla sua azione nella politica estera italiana dall'avvento al Trono al primo Intervento.

Per quanto tentativi di vasto respiro, come quello lodevolissimo e nobile di Ugo d'Andrea, siano già stati fatti per concretare un quadro definitivo della vita di Vittorio Emanuele III, è forse più prudente attenersi, mentre la figura del Re ci è ancora troppo vicina, al criterio di contribuire il più intensamente possibile alla sua conoscenza storica, con saggi e studi particolari.

Dovremo, io credo, rinunciare all'ambizione di scrivere una vera storia del regno di Vittorio Emanuele III e con ciò una sua Vita, limitandoci ad approntare i materiali e offrirli a quell'ignoto che, dopo di noi, possa serena mente servirsene.

I materiali originali, cioè di mano di.Re Vittorio, sono scarsissimi e in qualche senso simili a quelli concernenti certe antiche figure, tanto emergenti e importanti quanto povere di tracce documentarie.

Non si può, quasi certamente, coniare su un" Diario" capace di illuminare con assoluta certezza tanti lati oscuri della azione di Re Vittorio.

Ciò che il Re lasciò fu:

I.            un'agenda o calendario di fatti, composta di dati e di rapidissime annotazioni, in possesso del Re Umberto II e mostrata, riprodotta e conosciuta largamente,

II.           Una serie di appunti lasciati al Quirinale, dopo l'8 di settembre 1943, pubblicati dalla rivista " La Vita Italiana" diretta da Giovanni Preziosi, il 26 aprile del 1945, concernenti la situazione politica militare dell'Italia, della Germania, dei satelliti dell'Asse dei neutri, e degli Anglo-americani, aggiornata al 15 maggio 1943. Si troverà riprodotto questo documento in Appendice e se ne dedurrà facilmente la importanza.

III.         Una raccolta di lettere, di altri brevi appunti e notazioni in possesso di Re Umberto II.

IV.        Il testo di una intervista-questionario, proposto nel '45 al Re, mentre si trovava a Napoli e riprodotta dal d'Andrea nel suo volume " La Fine del Regno ". Il " Diario ", favoleggiato da un vecchio giornalista che asserì di averne letto numerose interessanti pagine, non esiste, secondo le già ricordate e ripetute dichiarazioni dei Re Umberto II.

* * *

Per un Re e per un Regno come quello di Vittorio Emanuele III, tuttavia è la vita stessa della Nazione a fornire i materiali. Pure abilmente pilotando la politica, specialmente quella esterna del suo Paese, Vittorio Emanuele non credeva al " volontarismo " dell'uomo di stato, al suo determinare la storia, secondo linee pensate con cervello umano, alla predeterminazione " terrestre " dei fatti. Egli riteneva che l'uomo di stato potesse soltanto adattare e accomodare gli avvenimenti che si producevano per le cause eterne e profonde del processo storico.

Aveva osservato lungamente e acutamente, dall'alto della sua condizione di Re, la vita della Nazione, gli uomini di ogni calibro, le loro passioni e, aggiungiamo, s'era lui stesso osservato acutamente. Anzi, la solitudine nella quale visse da bambino, alquanto trascurato dal padre e dalla madre, che lo vedevano brullo e rachitico e non lo mostravano volentieri, lo aiutò a comporsi un'anima schiva, austera, nella quale la fredda- ragione e un tagliente possesso della realtà quotidiana si confondevano con venature romantiche e in qualche modo pessimistiche, alla maniera di Leopardi, sino a quando non incontrò Elena e la sposò.

Quel matrimonio fu, di gran lunga, il più importante avvenimento della sua vita privata.