NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 28 marzo 2022

Aperitivo strategico

 

Segnaliamo l’interessante appuntamento che si terrà presso
la 
LIBRERIA HORAFELIX dedicato alla guerra in Ucraina.

Inviamo l’informativa relativa all’Evento

Nell’Italia dei talk show anche la guerra in Ucraina risulta maneggiata con la stessa tendenza alla polarizzazione che ha contraddistinto l’approccio all’altrettanto spinoso tema del contrasto al COVID-19. Il risultato è che ci troviamo spesso di fronte allo scontro tra opposte tifoserie. Sul nodo russo-ucraino rifletteremo nel primo di un ciclo di appuntamenti, dedicato ai temi di politica internazionale, l'Aperitivo strategico”.

APERITIVO STRATEGICO     30 MARZO 2022     ORE 18:30

domenica 27 marzo 2022

La Monarchia dal 22 a domani - VIII parte

 


La mattina del 10, Ambrosio si reca dal Re, «visto che il Governo dorme», - e il Re esprime la decisione di prendere «subito» contatto con gli angloamericani - Indecisione tra Badoglio e Guariglia se mandare un militare o un diplomatico e alla fine si sceglie il Gen. Castellano, la cui missione «si limitava ad un approccio con la parte anglo-americana, ristretto al campo militare per fornire delle notizie militari e per riceverne , per concertare un piano di azione coniane tra le nostre forze e quelle degli alleati».

E così continuava ancora a mezzo agosto la prima manchevolezza di non avere lo stesso 25 Luglio iniziato pratiche, naturalmente segretissime, a Londra e Washington per far loro sapere che l'Italia, caduto il regime, intendeva sganciarsi senz'altro dalla Germania e trattare per unirsi agli Alleati, sfruttando la promessa tante volte ripetuta dagli Alleati stessi, che, caduto il Regime, l'Italia sarebbe stata trattata da amica. Si obiettano le difficoltà che l'Italia avrebbe incontrato per porsi in relazione con gli Alleati: pur non disconoscendole, parrebbe che esse non dovessero essere addirittura insormontabili, tanto più che in quei primi momenti i Tedeschi non erano ancora al parossismo della diffidenza come in seguito. E allora, colla Marina in piena efficienza, se fornita di combustibili; con l'aviazione ancora in forma, con l'esercito stesso, anche se sfiduciato, ancora regolarmente inquadrato, l'Italia, in un con la fiducia che il nuovo regime aveva ragione di inspirare, poteva sperare ben altro trattamento da parte degli Alleati. Invece venti giorni di inazione avevano potuto dare l'impressione di incertezza nel Governo.. tanto più dopo l'intermezzo di Tarvisio, e quindi ingenerare quella diffidenza che andò purtroppo sempre più aggravandosi.

Anzitutto il Gen. Castellano per prudenza non era stato munito di credenziali; (1) ed aveva un mandato semplicemente generico, quasi solo, informativo ed essenzialmente solo di carattere militare, ed infine gli era stato prescritto che l'Italia sarebbe stata pronta a unirsi contro i Tedeschi sol quando gli Alleati fossero sbarcati in Italia. E' francamente a stupire che con, questi semplici incarichi il Gen. Castellano sia riuscito ad ottenere anche quel pochissimo che ottenne, ma essenzialmente quanto Churchill e Rooswelt da Quebec promisero col telegramma, che fu poi concretato nel Promemoria comunicatogli a Lisbona il 10 dal Gen. Smith per incarico del Gen. Eisenhower col qua le «la misura in cui Le condizioni saranno modificale in favore dell’Italia  sarebbe dipesa dall’entità dell'apporto che sarebbe stato dato dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra». (2).

A questa cobelligeranza tennero fede con tutte le loro forze dalla Marina a quel poco di truppa cui fu permesso di prendervi parte, al largo stuolo dei partigiani nel periodo repubblicano: questa cobelligeranza che idealmente si ricollega anche a quella non belligeranza    dei nove mesi del 1939-40, tanto rimproverata da Hitler al nostro Re, gli Alleati speriamo tengano alto conto, secondo il loro impegno, nel fissare i termini della Pace alla nostra povera Nazione.

       

       

Non atterrebbe al mio esposto seguire le fasi delle trattative per l'armistizio; ma non credo potermi esimere dal riassumerne i punti essenziali quali risultano dal citato libro del Gen. Castellano, completando essa la dolorosa storia della nostra guerra.

Il Gen. Castellano ritorna a Roma il 27, riferisce a Badoglio, sulle trattative e gli consegna le dure condizioni di armistizio nonché il citato telegramma di Quebec e conclude: «Il Maresciallo non parla e si, congeda senza esprimere il suo parere (2).   L'indomani 28 Badoglio, Ambrosio e Guariglia vanno dal Re» precisa il Gen. Castellano «il Sovrano alle 11 fa dire a Badoglio a mezzo di Acquarone, Prenda una decisione il capo del Governo e poi deciderà lui. In un a sala dei Quirinale si riuniscono Badoglio, Ambrosio Guariglia: dopo pochi minuti sono ricevuti dal Re che li trattiene per brevi istanti.... Dopo aver parlottato ancora qualche minuto con Ambrosio e Guariglia; il Maresciallo esce dal Quirinale. È di cattivo umore, va via senza salutare nessuno». Il Gen. Castellano non fa commenti, pur essendo probabile che dal Gen. Ambrosio abbia saputo come si sono passate le cose alla presenza del Sovrano: vale però la pena di notare questa scena perché ognuno ne tragga quelle argomentazioni che crede!

L'indomani 30 il Gen. Castellano riparte per la Sicilia per definire le clausole d'armistizio nella speranza di poterle migliorare, ma purtroppo si trova di fronte a nuove diffidenze a causa dell'invio a Lisbona del Gen. Zanussi ad opera del Gen. Carboni che aveva allora il comando della S.I.M., la cui azione quale Comandante il Corpo d'armata: l'8 e il 9 settembre ha ancora da essere chiarita.

È certo non si può dire chiara questa missione del Gen. Zanussi alla dipendenza di Roatta, capo di Stato Maggiore dell'esercito, mentre vi era Castellano incaricato dal Governo e a sua insaputa. A giudicare di queste - interferenze è ad augurarsi non tardi una serena ed autorevole inchiesta che fra accuse, difese e giudizi che potrebbero essere avventati e punti interrogativi (4) chiarisca le cose.

Basti qui accennare che indubbiamente l'intervento del Gen. Zanussi fu così poco compreso dagli Alleati che il Gen. Smith ebbe a confessare al Gen. Castellano che «il comportamento del Gen. Zanussi aveva subito messo in allarme i generali alleati... aggiungendo che nei successivi colloqui il contegno di Zanussi s'era fatto ancor più ambiguo... e li aveva insospettiti anche nei confronti di Castellano, perché, era evidente che dei due generali uno non era in buona fede...; le informazioni chieste e fornite dall'Ambasciatore presso la Santa Sede avevano chiarito che il vero rappresentante era Castellano e che pertanto la posizione di Zanussi diventava insostenibile, tanto che in un primo momento voleva farlo arrestare e fucilare» (5). Condotto in Sicilia le cose si erano chiarite, ma intanto le trattative avevano subito un arresto in mezzo alla più sconcertante diffidenza.

Non seguirò oltre le fasi della definizione e firma dall'armistizio che ci fu imposto, cui pur troppo fece seguito il gravissimo incidente della sua proclamazione anticipata da parte del Gen. Eisenhower. Nelle laboriose trattative per fissare a coordinare la pro clamazione dell'armistizio con il richiesto lancio di una divisione di paracadutisti a Roma, arrivo dal Tevere di chiatte di cannoni controcarro ed altre materiale bellico, nonché con lo sbarco di ingenti forze, gli Alleati non avevano mai voluto indicare, si diceva in omaggio alla necessità del segreto militare, la data dello sbarco di queste forze, "al ciò il Gen. Castellano aveva creduto poter supplire in base ad informazioni confidenziali coll'indicare al Gen. Ambrosio che esso potesse avvenire tra il 10 e il 15 settembre forse il 12. Su questo forse a, Roma basò i suoi provvedimenti, sì che quando la mattina dell'8 il Gen. Stong avvertì Castellano che quello era il giorno fissato per l'armistizio (6) a Roma non si era pronti. Fu chiesta e supplicata una dilazione per poter ricevere le forze alleate; la richiesta fu disgraziatamente male interpretata, per la solita diffidenza da Eisenhower, il quale senz'altro l'annunziò alla radio alle 18. Le cose furono chiarite poco dopo, tanto che Eisenhower non dubitò di confessare: «Può darsi che io abbia sbagliato, ad ogni modo adesso non possiamo tornare più indietro» (7). E così anche gli «sbagli» di chi diventava in quel punto nostro amico, congiurarono alla rovina della nostra Patria, che, non essendo la divisione paracadutisti potuta arrivare al Campo di aviazione e le chiatte sul Tevere venire in aiuto ai presidi della Capitale, questa si trovò ridotta alle sole forze Italiane, le quali non erano in, grado di difenderla Sal l'occupazione tedesca. Almeno gli Alleati tengano conto di questi «sbagli» che tanto ci costarono in rovine, perdite di uomini e durata dalla guerra!

Prima di procedere oltre, due parole sul cosiddetto «tradimento», per quanto alle accuse di quei primi giorni sia universalmente subentrata una più serena valutazione. In un opuscolo (8) pubblicato a cura del Gruppo Cavour durante il periodo clandestino, il Prof. E. Crosa ne tratta dal lato giuridico, sostenendo anzitutto che il trattato di alleanza colla Germania non essendo stato sentito dal popolo italiano perché «in contrasto con le sue tradizioni, coi suoi interessi, con la sua volontà», non è stato né giuridicamente dopo il 25 luglio, né moralmente violato, in quanto «il diritto internazionale nel riconoscere. la piena competenza dei governi per la stipulazione dei trattati, ne pretende la ratifica o dal Parlamento o dal popolo, ciò che non si può dire abbia avuto il trattato in questione dato lo stato di asservimento cui era soggetto il popolo italiano sotto il regime, tratto per di più volutamente in errore sulla realtà e scopo degli accordi. E conclude ricordando che «è canone di diritto internazionale - ed anche più - è un canone morale prima che giuridico che' ogni trattato duri rebus sic stantibus: ora le cose da noi erano tanto radicalmente mutate... da compromettere l'esistenza dello stesso Stato ».

 

  

(1)        Gen. Castellano: op. cit, pag. 83 e segg.

(2)        Gen. Castellano: op. cit, pag. 110

(3)        Gen. Castellani: op. cit, pag. 125e segg.

(4)        Corriere di informazioni 22-24 febbraio 1946.

(5)        Gen. Castellano: op. cit, pag. 175 e segg.

(6)        Gen. Castellano: op. cit, pag. 189 e segg.

(7)        Gen. Castellano: op. cit, pag. 187

(8)        «il Tradimento»: ripubblicalo a cura del Gruppo d'Unione «Camillo Cavour » quando l'Italia fu liberata.


mercoledì 23 marzo 2022

La storia del Regno d’Italia vive al Castello Visconti di San Vito

Inaugurata la mostra “Da Napoleone a Umberto II”, storia del Regno d’Italia, al Castello Visconti di San Vito a Somma Lombardo.



Somma Lombardo – La mostra storica, che ripercorre la storia del Regno d’Italia fino alla proclamazione della Repubblica Italiana, è stata inaugurata alla presenta di molte autorità e personalità.

A presentare la mostra l’Avvocato Gaetano Galeone, Presidente della Fondazione Visconti di San Vito, che ha generosamente messo a disposizione le prestigiose sale del Castello.

Un’esposizione di dipinti, sculture, uniformi, decorazioni, armi e documenti antichi che ripercorrono la nostra storia dalla Monarchia alla Repubblica. Lo scopo della mostra è raccontare la storia del Regno d’Italia attraverso gli oggetti messi in disposizione, secondo un percorso tematico in stretto ordine cronologico. L’esposizione parte così dalle origini della Dinastia Sabauda, passa attraverso l’egemonia del Regno Napoleonico, prosegue attraverso il Risorgimento e l’Unità d’Italia, fino alla proclamazione della Repubblica”. 

[...]

Fonte Sempione News

domenica 20 marzo 2022

Capitolo LI , UNA CANZONE NATA DAL FIUME

 

 di Emilio Del Bel Belluz


Le canzoni, a volte, nascono anche da coincidenze fortuite. Così nacque questo brano, portato dal fiume, come altre storie il cui eco non si è ancora spento. La canzone di Primo Carnera uscì dalle silenziose acque della Livenza in una limpida sera d’inverno ricca di stelle. Mi trovavo a cena con l’amico Goran Kuzminac in una locanda lungo il fiume, attorniato da buoni cibi e da ottimo vino. Gli raccontai una storia che avevo sentito da un giostraio. Bisogna risalire agli anni Ottanta, quando i miei genitori gestivano ancora una vecchia osteria a Villanova di Motta di Livenza, nel trevigiano, un raccolto paese di cinquecento anime, il cui campanile si specchia sulle limpide acque della Livenza. Allora avevo vent’anni. Nel locale, essendo molto appassionato di pugilato, si trovava ad una parete una foto incorniciata di Primo Carnera con una dedica che il pugile aveva donato ad un ammiratore. Il quadretto era ben visibile alle persone che si recavano nel locale. Nel periodo della sagra paesana, nel mese di luglio, capitò in paese il solito giostraio che, come ogni anno, si piazzava con la sua piccola giostra per bambini vicino alla chiesa. L’uomo, osservando la foto, dichiarò con un sorriso di aver acquistato dopo la guerra da Carnera, un’automobile. Era stato pattuito un onesto prezzo, ma il giostraio, non disponendo del denaro necessario, si era impegnato a pagare tale macchina, nell’arco di qualche settimana. Carnera accettò questo affare e lo concluse, come di solito si fa, con una stretta di mano. Ma il giostraio non riuscì ad onorare il debito, non trovando nel tempo stabilito il denaro sufficiente: la sua piccola giostra non aveva garantito in quel periodo la cifra necessaria. Al giostraio, un uomo piccolo e tarchiato, non rimase altro che non farsi trovare all’appuntamento pattuito per saldare il debito. Smontò la giostra e se ne andò. Dopo alcuni mesi piantò ancora la sua giostra in una piazzola ai piedi dell’argine della Livenza e, mentre in una vicina osteria in un caldo pomeriggio estivo stava sorseggiando del vino, vide entrare il pugile Carnera. Subito il suo istinto gli suggerì di fuggire, temendo una reazione violenta del creditore, ma questi tranquillamente gli si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla e gli annullò il debito bevendo con lui del vino. Quel giostraio ebbe così la macchina gratis. Primo Carnera aveva un cuore grande come una quercia. Il giostraio grazie a quella macchina aveva potuto diventare una persona diversa, si era costruito una piccola fortuna. Da quel giorno seppe che non doveva temere nulla, quella macchina che aveva utilizzato per anni, era finalmente sua. Quell’uomo aveva viaggiato per tutta la vita da un paese all’altro, piantando la giostrina vicino alla chiesa, e ora poteva raccontare a tutti quella storia senza temere. Ogni persona a cui la raccontava, esprimeva solo degli elogi al campione. Quando apprese della morte di Carnera, si trovava in un paese lontano, e non poteva in nessun modo spostarsi per andare ai suoi funerali, forse gli mancavano i soldi. Quel giorno all’osteria raccontò a quelli che stavano commentando la morte del campione che lui lo aveva conosciuto e si trattava non solo di un gigante che aveva fatto grande l’Italia, ma era un gigante buono, di quelli che si trovano solo nelle favole. Alle persone che si trovavano attorno a lui, mostrò una foto del campione vicino alla macchina che aveva comprato e mai pagato. Quella macchina l’aveva usata per tanto tempo, macinando chilometri e chilometri e, alla fine, l’aveva consegnata a un carrozziere. Il dolore per la morte del suo amico campione lo aveva davvero messo di malumore, e si versò del buon vino che bevve alla salute di Primo. Il giorno dopo aveva pensato di far celebrare una messa per il suo benefattore, e il vecchio curato ne fu ben lieto. La vita di Primo è un mito da inseguire per sempre. Continuai a parlare con il cantautore Goran Kusminac, al quale mi legava una grande amicizia che durò per sempre. Alcuni giorni dopo, assieme a Goran, mi diressi proprio a Sequals, volevo che conoscesse il paese del campione. La giornata che avevamo scelto era proprio bella e il sole splendeva su tutte le cose.
  Quel giorno visitammo per primo la tomba dove era sepolto il campione e vi ponemmo dei fiori, e con una certa felicità vi notammo  un biglietto scritto da una mano gentile che esprimeva il grande affetto per il pugile: la donna che lo aveva depositato veniva sicuramente dall’estero, perché vi accennava a una città americana. Pensammo che il padre di questa giovane le avesse parlato di Carnera, chiedendole di deporre un fiore sulla sua tomba. La vita del pugile era trascorsa per una ventina d’anni in America e non erano pochi quelli che lo avevano amato. La figura del campione donava molta forza. Dopo aver visitato la tomba, andammo a vedere la casa che si era costruito con i proventi del pugilato; notammo il suo stile, la bellezza del giardino, i meravigliosi cedri del Libano che la circondavano. Questi alberi erano gli stessi che il campione aveva piantato, e gli erano succeduti. La loro altezza spiritualmente raggiungeva il paradiso dove Primo di sicuro stava. Nella villa il campione aveva vissuto momenti davvero sensazionali. Goran era entusiasta di tutto quello che stava vedendo, e parlavamo di Carnera e di quanto avesse lasciato un segno su quella terra che aveva calpestato. Il mondo della boxe vedeva solo lui, perché le sue possenti mani avevano fatto il miracolo di impossessarsi del titolo mondiale dei pesi massimi. Quella vittoria lo aveva reso celebre, era diventato un mito, e ciò era confermato anche dal fatto che un cantautore volesse conoscere il posto dove era vissuto. Da quella conquista del titolo ne erano passati di anni. Lasciando la villa Carnera incontrammo un vecchio che ci diede ancora delle notizie  su di lui. Volle seguirci all’osteria, voleva bere del vino con noi, in questo modo i ricordi gli tornavano alla mente più facilmente. L’uomo disse che lo aveva visto molte volte da bambino, e spesso suo padre lo aveva invitato nella sua casa, amava la buona cucina e specialmente la polenta che veniva versata dal paiolo fumante. Quella volta scarseggiava il cibo, allora, era il campione che ce lo portava. Quando arrivava il buon Primo tutti i bambini della famiglia volevano che li sollevasse, ed era sempre una gran festa. I ricordi del vecchio erano tanti e Goran ascoltava sempre più convinto che avrebbe composto una bella canzone. Verso mezzogiorno visitammo la chiesa e la casa dove il grande campione  era nato. Quel giorno mangiammo nella vecchia osteria dove Carnera andava a giocare a carte, e il buon cibo accompagnato dall’ottimo vino ci fece dimenticare le traversie della vita.  Quel giorno ci sembrava di rivivere la vita che Primo trascorreva nel suo paese natio. Qualche tempo dopo nacque la canzone di Primo Carnera, che lo ha fatto conoscere ed ammirare ancora di più. La melodia piaceva molto alla figlia di Primo  che ci ha lasciato dopo la morte del fratello ed ora riposano al cimitero di Sequals.  Il mito di Carnera non morirà mai, è una strada che continua e che altri la percorreranno. Questo è il testo della canzone “Primo di Sequals”, musicata da Goran Kuzminac e scritta da Sergio Contin

 

 

 

Questa vita è una bestia

 

Che t’insegue e poi ti morde

 

Come fosse un avversario

 

Con la schiena sulle corde

 

Ma se provi ad affrontarlo e

 

Lo guardi bene in faccia

 

Il coraggio è solo sangue

 

Nelle vene delle braccia.

 

Perché Primo è il migliore

 

E combatte veramente

 

Attenzione che ogni pugno

 

È una scommessa per la gente

 

Quella gente che la vedi

 

Applaudire dritta in piedi

 

Quando il pugile è sfinito,

 

nell’orgoglio è ferito e cade.

 

Questa vita è una bestia,

 

qualche volta mostra i denti,

 

se potesse farti a pezzi

 

senza tanti complimenti,

 

lo farebbe volentieri,

 

e come tutti i vincitori,

 

gioirebbe a testa alta, con i

 

muscoli di fuori, ma io…io no!

 

Nella spugna c’è il dolore,

 

sui giornali il malumore

 

perché adesso perdo colpi,

 

ed il motore è arrugginito,

 

e non stendo più nessuno,

 

vado a terra con un dito,

 

mentre tutta quella gente

 

pensa ai soldi solamente,

 

e alla forza del destino alzo

 

il calice di vino e bevo.

 

Perché Primo è il migliore

 

E combatte veramente

 

Attenzione che ogni pugno

 

È una scommessa per la gente

 

Quella gente che la vedi

 

Applaudire dritta in piedi

 

Quando il pugile è sfinito,

 nell’orgoglio è ferito e cade".

 

Un grazie di cuore ai miei lettori affezionati.

Emilio Del Bel Belluz

 

sabato 19 marzo 2022

La Monarchia dal 22 a domani - VII parte

 



DOPO IL 25 LUGLIO

Il 25 Luglio riuscì come meglio: non si poteva pensare e ne va data lode al Re, sì che tutta Italia con esposizione di bandiere ai balconi, di ritratti del Re alle finestre, con cortei, che a Roma sostarono a lungo in piazza del Quirinale; aspettando; che il Re si affacciasse al, balcone, gli dimostrò la sua soddisfazione e riconoscenza.

Vi è cionondimeno chi crede che il Re avrebbe dovuto fin d'allora ritirarsi ed abdicare, data la sua ventennale adesione al fascismo. Senza ritornare sulla inconsistenza delle accuse al Re, né rilevare quanto meno l'incongruenza dell'abdicazione proprio nel momento in cui il Re era riuscito finalmente a liberare il Paese dall'incubo fascista, senza che fosse versata una goccia di sangue, anzi in perfetta tranquillità del Paese e con una soluzione del tutto costituzionale, resta pur sempre a demandarsi come il Re poteva «allora» immaginare che fosse anche solo desiderata questa sua determinazione; come poteva anche solo sospettare, indovinare che si sarebbe avuto «un seguito» tanto infelice, un disgraziato armistizio, la disorganizzazione dell'esercito, l'invasione del territorio nazionale sino alla necessità per il Governo di ridursi in un estremo angolo della Penisola.

Perché fu questa serie di disgraziatissimi avvenimenti «posteriori» che diedero appiglio per erigersi contro la Corona ai partiti estremi, i quali pur troppo, valorizzati per cause varie da Croce e Sforza, ebbero, rinvangando il ventennio fascista, possibilità di una violenta campagna denigratoria per i loro scopi politici.

E «allora», ma solo «allora» si presentò al Re l'opportunità di ritirarsi a vita privata, per dare alla Nazione col sacrificio di se stesso quell'«unità» di intenti, che si imponeva sopra ogni altra considerazione per scacciare lo straniero dall'Italia e finire la guerra. Monelli nel precisare che il Re aveva scelto fin dal 16 Luglio Badoglio a successore di Mussolini, aggiunge che fin d'allora fu contrario alle proposte del Maresciallo per un Gabinetto con Orlando o altri personaggi eminenti dei partiti antifascisti. E fu precisato dal Ministro della Real Casa, Duca Acquarone, che il Sovrano era ostile all'idea di un Gabinetto politico, che ciò «avrebbe potuto provocare una reazione immediata dei tedeschi»; aggiungendo: «è un ministero che non deve dar fastidio ». (1) Bonomi, secondo Monelli, anteriormente al 25 Luglio, sarebbe stato per un Governo militare che avrebbe però dovuto durare qualche settimana, per guadagnar tempo con la Germania e preparare le cose militari in modo da rendere facile il compito al Gabinetto che avrebbe dovuto subito succedergli per assumersi le più gravi decisioni politiche e per trattare l'armistizio. Soleri era per un Governo possibilmente non politico (viceversa Antonicelli nella sua commemorazione di Soleri l'« Opinione del 24 Luglio » n. 75 — scrive: «al Re disse tutta la verità, confidò le più appassionate speranze, non riuscì ad averne quel Ministero politico che egli giudicava giustamente necessario »). Grandi, secondo il suo Memoriale, avrebbe espresso al Ministro della Reale Casa l'avviso che l'incarico poteva essere assunto da un capo militare che non fosse compromesso col fascismo, escludendo chiunque fosse stato ministro con Mussolini, ma non aggiunge se il Ministero avrebbe dovuto avere o non colore politico. Orlando suggerì l'idea di, un governo di funzionari. La mattina, del 26 anche Grandi si fece vivo; pare auspicasse ad un ministero di concentrazione nazionale con fascisti convertiti, liberali o cattolici; il 27 fu visto con Federzoni nell'anticamera di Badoglio(2).

Come si vede, le opinioni erano disperate, ma in genere piuttosto orientate verso un governo non politico, il che deve essere apparso al Re giustificato anche dall'apparizione, lo stesso giorno 26, di un «Appello» ad opera di cinque partiti - partito d'azione, democrazia cristiana, comunisti, di ricostruzione liberale (notare quella qualifica di «ricostruzione» che deliberatamente voleva escludere il risorgere del Partito liberale ante fascismo) e socialista, che rivendicavano senz'altro il diritto di «segnare il cammino ». Questa affrettata presa di posizione di cinque partiti era davvero poco rassicurante, sia perché per tre almeno di detti partiti il colore politico, era decisamente antimonarchico e non lasciava dubbi e per gli altri due, nulla era precisato sia perché tutti e cinque erano anonimi, sì che era logico dedurne che gli esponenti fossero semplicemente degli arrivisti disposti essenzialmente a segnare «il cammino» di loro gradimento senza garanzia alcuna che almeno fossero l'espressione di forti correnti in Paese.

Il Re pertanto non poteva a meno di essere diffidente di questa immediata presa di posizione, come del resto precisa in quel suo Pro-memoria rimesso a Badoglio il 16 agosto, di cui nel libro di Mussolini: «...deve essere lasciato ad un secondo tempo, e ad una successiva formazione di Governo l'affrontare i problemi politici         in clima ben diverso e più tranquillo per i destini del Paese.

D'altra parte, fra gli altri danni recati alla Nazione dal fascismo, vi fu appunto quello di non aver permesso per venti  anni che uomini seri si affacciassero alla vita politica e ottenessero il consenso del Paese : il Parlamento chiuso a chi non era fascista, la stampa aperta solo per lodi incondizionate al Duce e al fascismo; perfino le modeste assise dei consigli provinciali e comunali mute: non parliamo poi di assemblee politiche, sì che nessun uomo nuovo si era potuto presentare a dar prova delle sue facoltà politiche; donde il gravissimo imbarazzo del Re a scegliere dei Ministri.

In queste condizioni Egli credette miglior consiglio un ministero di tecnici, cadendo però nell'inconveniente di privarsi del necessario ausilio di Personalità, non come Capi Partito, ma quali valori personali che in un momento così critico, non solo con le loro doti pratiche di governo e lungimirante visione politica nel campo internazionale, ma altresì per il legame che avrebbero costituito tra governo e popolazione per la fitta rete delle loro relazioni politiche, avrebbero fatto sì che tra Governo e Paese non vi fosse quella frattura per cui questo dopo il 25 Luglio, quasi si adagiò nella serenità che colla caduta del fascismo non restasse che riprendere la vita ante 1922.

E invece occorreva provvedere, non solo a por fine alla guerra, ma operare in guerra il cambiamento del fronte!

Grandi nel suo Memoriale scrive che nel colloquio col Ministro, della Real Casa nella stessa notte dal 25 subito dopo la caduta del G. C. gli aveva fatto osservare «che la caduta di Mussolini doveva essere sincronizzata con un armistizio» aggiungendo: «lasciatemi andare immediatamente a Madrid per avvicinare gli Alleati e per preparare il terreno per ulteriori contatti ufficiali per la Pace». Il consiglio non fu abbastanza meditato al 26 luglio e disgraziatamente neppure subito dopo, tanto che solo a metà agosto - almeno a quanto si sappia - furono presi provvedimenti.

Il Gen. Castellano ne narra le dolorose vicende : (3) « intanto che si aspetta Guariglia, il Ministro degli Esteri, che arriva da Ankara solo il 29, nessuno si occupò della questione più scottante, il proseguimento o meno della guerra e intanto la Germania, che, percepita la crisi del nostro Paese, aveva seguito passo a passo l'aggravarsi della medesima, per cui il Governo di Berlino ne risultava perfettamente edotto, dal 26 luglio all'8 agosto ben otto divisioni, una brigata di elementi minori mandava nel nostro territorio».

Ambrosio allarmato provocò un convegno che, dapprima negato, ebbe poi luogo a Tarvisio il 6 agosto presenti Guariglia e Ribbentrop. Il convegno «lasciò alla parte italiana, ed anche ai diplomatici, l'impressione che il Tedesco non desiderasse il ritorno di una completa schiarita nei nostri reciproci rapporti per giustificare l'attuazione di quei progetti che avrebbero portalo la, Germania ad impadronirsi di tutte le leve di comando, compreso il governo, onde imporre al nostro Paese la sola funzione ritardatrice senza alcuna preoccupazione per le sorti d'Italia».

Prosegue il Gen. Castellano: «rientrata la missione a Roma il giorno 7, era d'attendersi qualche decisione. Ormai era chiaro che ogni ora perduta avrebbe portato a conseguenze disastrose. Il ministro degli Esteri tace; il Capo del Governo tace; cosa si aspetta? lo non so come sarà possibile giustificare di fronte alla storia questa dannosissima perdita di tempo ». Ed ha perfettamente ragione!

(1) P. Monelli :      cit. pag. 200 e pag. 126;

(2) P. Monelli, Op. cit. pag. 210

(3) Gen. Castellano, op. cit. pag. 71 e segg.

venerdì 18 marzo 2022

L’anniversario della morte del Re Umberto II

di Emilio Del Bel Belluz 


Il 18 marzo 2022 saranno passati 39 anni dalla morte del Re Umberto II, che trascorse 37 anni in esilio e molti non l’hanno dimenticato. Infatti, sono tanti quelli che ogni anno affrontano il viaggio della memoria e si recano all’abbazia di Hautecombe in Savoia per andarlo ad onorare. 
Gli anni non hanno affievolito la sua immagine,  e il suo carisma.
 Lo scrittore Indro Montanelli disse che sarebbe stato un buon Re se avesse potuto governare, e questo giudizio era condiviso da molti, anche da quelli che non erano monarchici. Il lago vicino alla bella Abbazia dove è stato sepolto, nel mese di marzo, ha dei colori stupendi, e l’acqua che scorre fa pensare al fluire del tempo. Ricordo quanta tristezza invadeva il mio cuore alla sua morte, anche perché trovavo ingiusto l’averlo fatto morire in esilio. 
Il Re, anche se lontano dalla sua patria, si comportò sempre da sovrano che amava il suo Paese. Aveva sacrificato la sua vita per il bene della patria, non avrebbe voluto in nessun modo regnare in un trono macchiato di sangue. Il suo cuore di cristiano non glielo concedeva. Gli insegnamenti morali che la mamma Regina Elena gli aveva  messo nel cuore gli hanno fatto condurre una vita che testimoniava la sua fede cristiana e la profonda onestà.  Era un Re cattolico, nel vero senso della parola. Alla Chiesa, che lo aveva completamente dimenticato in vita, donò la Sacra Sindone.  Ci si aspettava che almeno dopo la sua morte ogni tanto venisse ricordato, ma  su di lui persiste un silenzio che fa davvero molto male. Il Papa non ha mai parlato di lui, né  della  Regina Elena che attende da anni di essere beatificata. Sarebbe un bel gesto per i Savoia, come lo è stato la beatificazione dell’imperatore Carlo d’Asburgo. 
La Regina Elena si prodigò per tutta la  vita per i deboli, i poveri, e i bambini abbandonati, ma tutto ciò non è abbastanza per farla dichiarare beata, anche se per molti lo è già. Il buon Umberto II le era molto legato, nutriva  per lei un grande amore e rispetto di figlio. Spesso mi piace ricordarlo dal terrazzo della sua Villa Italia, a Cascais che osserva il mare, immalinconito dal ricordo della sua cara patria.  Ogni persona nella vita fa degli errori, e questi ritornano alla mente con gli anni, e ci fanno riflettere. 
Lo sbaglio che ha fatto il Re è stato quello di amare la sua patria con tutto se stesso, fino ad annullarsi per il suo bene. Anche in esilio ha aiutato economicamente le popolazioni colpite da calamità naturali. 
Il Re visse una vita degna di essere ricordata dalle generazioni future. La scuola italiana non aiuta molto a conoscere la millenaria  storia di Casa Savoia.  Spesso penso a quanto bene volle al Re Umberto II, lo scrittore italiano, uno dei più tradotti all’estero: Giovannino Guareschi. La vicinanza del Re allo scrittore era evidente, le sue opere  gli hanno tenuto compagnia nella silenziosa biblioteca dove si ritirava a leggere le sue più belle pagine. 
Guareschi assomigliava al Re, non aveva cattiveria, amava la giustizia che sentiva come una forma di legge interiore che non si poteva violare. Tante volte ho scritto che una testa nobile, lascia una scia nobile e questo lo si è sempre visto nel re. Alla sua morte lessi un articolo comparso sul quotidiano Il Tempo, in cui si raccontava che la nostalgia di Umberto per la sua amata Italia, era talmente grande che, una volta in un ristorante a Roma, ci fu un cantante che si esibì con molto impegno ed emozione in una romanza famosa, vicino ad un telefono in collegamento con il sovrano, a Cascais.  
La canzone era  “ Casetta de Trastevere “. (…) “Casetta de Trastevere, casa de mamma  mia
Pare che er monno stia cascanno appresso a te
Sogni e ricordi crolleno, tra er muro e quella porta
Mo' che mi' madre è morta, io nun te vedo più”(...)
Alla fine dell’esibizione, la gente aveva capito che dall’altro capo del telefono, vi stava ascoltando il Re d’Italia Umberto II, e tutti si misero a battere le  mani, ininterrottamente, in onore ed in saluto del sovrano esule. Il Re  è ancora sepolto in terra straniera, ma il suo posto assieme alla sua consorte dovrebbe essere il Pantheon,  a Roma, dove sono sepolti alcuni reali di Casa Savoia.

 

giovedì 17 marzo 2022

Il Re nella sua casa


di Emilo Del Bel Belluz


Il cuore di una persona che soffre la lontananza dalla sua casa, cerca in ogni momento un luogo dove mettersi a scrivere o a leggere. Il Re Umberto II, aveva un luogo che gli era caro dove trascorreva le sue giornate, ed era la sua biblioteca, un luogo silenzioso, dove lo accoglievano il mondo dei libri. Quando lasciò l’Italia non gli fu possibile portarsi i suoi libri, che negli anni aveva accumulato, essendo un grande lettore e avendo conosciuto molti scrittori personalmente, con i quali godette di una certa simpatia. 
Credo che una delle cose più belle per una persona sia quella di conoscere degli scrittori, parlare con loro discutere dei loro libri, di come sono nati. Il Re aveva avuto la possibilità di farlo, e nella oscura lontananza dell’esilio siano tornate alla mente questi scrittori. Nel rileggere certi loro libri, gli è venuta in mente la giovinezza, il tempo passato che non torna. Gli scaffali  che possedeva in Italia, furono  saccheggiati durante la guerra, molti di quei libri fecero il giorno del mondo. Il motivo di questa cosa è dato da quei soldati americani che si impossessarono di quei volumi. Una volta finita la guerra, nella loro Patria, pensando al male, che avevano fatto nel prenderli come un bottino di guerra glieli inviarono, con una lettera di scuse. 
Il Re dal suo esilio ebbe la possibilità di ritrovare tanti di quei testi a cui era legato. Il Re riceveva da tutte le parti del mondo delle riviste d’antiquariato, e se vedeva un suo libro lo acquistava, e ne era felice. Credo che la felicità più grande, nel mondo dei libri gliela abbia data un armatore italiano che una volta giunse con la sua barca e gli portò delle casse di libri e quadri che i fedelissimi del Re avevano nascosto durante i saccheggi di guerra. Questo armatore non volle essere in nessun modo pagato dal Re, si fece promettere che una volta ritornato in Italia, l’avrebbe fatto con la sua nave. Il buon Re gli disse che bne sarebbe stato felice, ma questo non avvenne mai. 
Quella biblioteca di Cascais, continuò a crescere, arrivando a contenere ben 24 mila volumi, una vera e propria biblioteca colma di volumi di pregio. In quella biblioteca spiccavano tanti libri con dedica che gli scrittori facevano omaggi al loro RE. Penso a Salvator Gotta, a bino Sanminatelli, Roberto Ridolfi, e tanti altri. La vita è fatta di tanti momenti, ma ce ne sono certi che vorremmo potessero durare per sempre. Quando il postino gli portava un libro, nel cuore del Re, si apriva per far entrare la gioia. Leggendo i vecchi articoli di giornali, il sovrano aveva l’abitudine di farsi portare il pranzo, proprio nella biblioteca, nel suo rifugio. Da quel posto, gli sembrava d’essere a casa. Se apriva la finestra sentiva il rumore rasserenante del mare, e spesso si affacciava per osservare le navi che passavano, e le immaginava che fossero italiane, che avessero la bandiera del Re. L’Italia non fu un paese generoso con il suo Sovrano, ma non tutti ne conoscevano il cuore e la sua grandezza.  
Il Re alla sua morte avvenuta il 18 marzo 1983, era solo nella sua stanza d’ospedale, i famigliari confortati perché le sue condizioni erano migliorate, non erano presenti, e il Re chiudeva la sua esistenza terrena. In quella stanza era presente una  infermiera, che vide gli ultimi istanti di vita. E che sentì che pronunciava come ultima parola “Italia”. Tante volte mi sono chiesto, se in quella stanza d’albergo ci fosse un crocifisso, sul quale il Re avesse posato l’ultimo saluto, come un cristiano fa. La vita del Re, era stata sempre in sintonia con quello che faceva  il cristiano. La fede è e sarà sempre una grande forza d’animo, un lasciapassare per il paradiso. Sulla morte del Re, ho scritto molte pagine, lo faccio ogni anno, nel giorno del suo anniversario, e con la stessa malinconia che da sempre trova in me la sua forza. Sono sempre stato dalla parte di quelli che subiscono una ingiustizia, mi sono sempre battuto per questo, tanti non lo hanno fatto, si dimenticano gli uomini che si sono amati, ma verrà il tempo in cui qualcosa cambierà, la storia è ancora scritta con la penna dell’odio, specialmente i compagni, non vogliono riconoscere gli errori commessi e le violenze contro gli italiani che non la pensavano come loro. Inutile dire che a distanza di quasi ottanta anni, la repubblica italiana teme ancora i Savoia. Lo fa con una storia raccontata in casa, modificata, per far apparire la repubblica come la massima espressione della democrazia. 
Gli uomini veri sono quelli che riconoscono le proprie colpe, ma nessuno lo fa. Al Re d’Italia dopo un esilio da vivo, gli spetta quello da morto, che dura ormai da quasi quaranta anni. Il mio paese mi ha fatto del male , scrisse un poeta francese prima che lo uccidessero. Il mio paese ha fatto del male a quelli che amano i Savoia, impedendo loro che riposino al Pantheon a Roma. Se questa opportunità ci fosse, allora si potrebbe parlare di pacificazione. Alla morte del Re Umberto II, uno scrittore e direttore della Rivista intervento scrisse nel n. 61 del mese di Marzo “ Morte del nostro Re” questo il titolo molto  intenso. 
“ Davanti alla salma del nostro Re, davanti all’immagine alfine serena del suo volto, da cui sembra tralucere il suo estremo richiamo all’Italia, tace in noi qualunque desiderio di veemente polemica verso la classe politica  plebaica che ci circonda. La provvidenza l’ha punita, il Re è rimasto Re: esiliato fino alla morte, ma RE. Da quasi un millennio il piccolo Casato, sorto a cavallo fra la Francia ed un po’ d’Italia, e poi via via cresciuto, è parte inscindibile della nostra storia italiana e del suo lento procedere dal momento in cui di una Italia italiana si cominciato a parlare. Da  mille anni Casa Savoia guarda all’Itali, e l’Italia guarda a Casa Savoia, come quel Vescovo principe dell’Alta Valle d’Aosta che ad Umberto  Bianchemani disse: Dio sia benedetto che ci ha dato la tua spada ed il tuo coraggio. Faticosa, bella la storia di questa Casa, del suo continuo crescere e costruire, pietra su pietra ; bella e schiavitù, bella la sua difesa ad oltranza del confine alpino. 
Non fu certamente un caso che nessuna  Dinastia europea abbia raggiunto, con essa, il millennio. Quando, nel pomeriggio del 18 marzo 1983, Re Umberto ha ancora una volta invocato l’Italia, Egli ci ha detto che, per trentasette anni di esilio, aveva preferito la via dell’esilio a quella del disonore, aveva preferito da Re difendere il R, fedele custode di quella millenaria catena. Anche il Re è un uomo, ma soggetto ad alti, sofferti dolori:così l’umano desiderio di rivedere la sua terra, di toccarla, si è piegato alla condizione di un Re che non rinuncia che non rinuncia ad essere Re, la parola che egli avrebbe potuto dire per tornare in Patria, altri la disse, non il Re: morto in esilio, ma Re. 
Per trentasette anni non lo abbiamo mai dimenticato, dal giorno in cui il RE riassunse in sé la Patria italiana: qualunque relitto di vecchi risentimenti, le pene ed i dolori sofferti, tutto fu cancellato: ci schierammo al Suo fianco, naturalmente, quello era il nostro posto. E con Lui siamo rimasti, esiliati in certo senso anche noi. Il mondo a noi avverso ha dannato lui, ha dannato il padre, ha dannato mille anni di Casa Savoia, fine le pagine più belle ed audaci del nostro Risorgimento: tutto fui avvolto dalla nube della abbietta epurazione di un lungo processo storico che aveva visto procedere di pari passo Italia e dinastia Sabauda. Il Re soffrì, ma tacque, seppe ancor tenere, da Re, un’aristocratica riservatezza. Il Re lascia agli altri il gusto della polemica. Molti di noi andarono a trovarlo nella casa di Cascais, e nessuno potrà mai dimenticare la Sua estrema cortesia ed il suo stile sovrano, offerti a tutti come una testimonianza di quello che un Re nel parlare e nel tacere è segno di difesa di un altro Re. 
Che cosa avrebbe potuto fare il Re se non avesse lasciato l’Italia nel 1946, nessuno lo sa; ma sappiamo, senza più remora alcuna, che l’Italia non può essere pagadi quello che trentasette anni di questa repubblica hanno fatto o piuttosto disfatto; che l’idea di un RE più volte è ricorsa quando si è cercato l’uomo non eletto, se non da una lunga tradizione storica. Esiliati anche noi in un paese che ci è estraneo, abbiamo visto fedelmente in Lui il Re, il nostro Re: il Re che porta la corona come un cilicio, il Re che morirà in esilio ma non pronuncerà mai la parola della resa. Ed è questo il grande  insegnamento che Egli lascia a noi ed agli italiani che verranno”. 

domenica 13 marzo 2022

CAPITOLO L: IL MITO DI CARNERA CONTINUA



di Emilio Del Bel Belluz  

La morte non cancella quello che è stato un uomo in vita; una   tomba ne racchiude il corpo, ma le persone che lo conobbero non lo potranno dimenticare.  La vita di Primo fu una grande corsa per raggiungere gli obbiettivi che si era prefissato e la testimonianza di un uomo generoso, onesto e dal cuore sensibile.. La tomba nei giorni seguenti alla sua morte divenne sempre più visitata dalle persone che non avevano potuto partecipare al funerale, sfilavano mute e malinconiche per depositarvi un fiore e recitare una preghiera. 

In quei giorni difficili l’Italia si riscoprì molto più povera. La sopportazione con grande dignità della malattia fu d’esempio per molti. Ma non si arrese mai, e questa strategia la sperimentò anche sul ring, dove anche quando finiva al tappeto si rialzava sempre e continuava a lottare, perché la vita è sempre una sfida fino all’ultimo giorno. Gli uomini duri aiutano a sentirsi più forti e ci inducono alla loro emulazione. 

Nel frattempo la famiglia Carnera aveva  deciso di far ritorno in America.  La villa del campione che si era costruito grazie alla boxe, venne messa in vendita. La moglie e la figlia presero questa decisione molto difficile, ma inevitabile.  Uno degli obbiettivi era quello di far ultimare gli studi dei figli. Maria Giovanna doveva concludere il percorso universitario  che aveva interrotto per rimanere in compagnia del  padre e assisterlo nelle ultime fasi della malattia. La Villa  Carnera,  che era architettonicamente ben riuscita, fu acquistata da un signore che era un grande  tifoso del campione. Questi non volle modificare la Villa, mantenne inalterato l’arredamento e tutto ciò per ricordare e dimostrare il suo affetto e fedeltà verso il campione. Il figlio Umberto diventò un valente medico: aveva realizzato il sogno del padre che diede e prese tanti pugni con lo scopo di far studiare i figli, cosa a lui negata dall’indigenza.  

Alla laurea di Umberto si aggiunse quella di Giovanna Maria che si laureava alla facoltà di psicologia. Una lettera di felicitazioni per il traguardo raggiunto dai figli, fu inviata dal Re d’Italia Umberto II, che ricordava quanto Carnera fosse orgoglioso per il percorso intrapreso dai figli. Il Re non aveva mai dimenticato il suo amico Primo ed aveva sempre mantenuto i legami con la sua famiglia. Non mancavano mai i suoi auguri a Natale. Il Re era molto felice che il figlio di Carnera portasse il suo nome. 

Gli anni passano rapidamente, ma il mito di Carnera non può cessare. La gente continua ad onorare la sua tomba e a visitare la sua Villa e la casa natia. 

Un poeta disse che le storie scritte con il cuore non muoiono mai, le persone che lasciano una scia di bontà non vengono mai sconfitte dal tempo. La storia di Carnera non passa di certo inosservata per quelli che amano il pugilato e non solo. Tanti  pugili continuano ad ispirarsi a lui, e a voler compiere il suo cammino. I giornali hanno scritto molte pagine su di lui e tuttora sono pubblicati dei libri sulla sua figura.  La gente di Sequals, come un tempo, non dimentica l’uomo che continua a farla sognare.

La vita di Carnera è come un fiume che scorre, portando le sue storie. Dopo alcuni anni  ritornò in Italia la moglie di Primo, una donna coraggiosa che aveva deciso di tornare nella  terra del marito per venirci a morire nel 1980, dopo 13 anni dalla morte del suo consorte. La donna venne sepolta nella stessa tomba del marito, e spesso diceva che quelli che sarebbero venuti a trovare il campione avrebbero salutato anche lei, e questo la rendeva felice. Continuava ad essere accanto  all’uomo  che l’aveva resa felice.  

sabato 12 marzo 2022

La Monarchia dal 22 a domani - VI parte

 


Ma se il gesto d'audacia non fa osato, il perdurare dell'ostinato contrasto fra il Re e Mussolini fece sì che il Fascismo non abbia mai potuto soverchiare la Monarchia, malgrado Mussolini ne sentisse il più, vivo desiderio e non lo nascondesse.

Registra il Memoriale di Ciarla 10-V-39 «Per liquidarlo (il Re) basta un Manifesto e un giorno lo farò» - 14-V-40 «Il Duce ha detto chiaramente che a guerra vinta intende sbarazzarsi di una Monarchia che non ama e della quale non riesce più a sopportare il peso » - 25-V-40 « Il Duce attacca la Monarchia e dice: Invidio Hitler che non si deve trascinare a rimorchio dei vagoni vuoti»; e il 6-VI « Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi anacronismi che sono le monarchie »;

E non è neppure il caso di gettare del tutto fra le favole quanto si narra, che Mussolini chiacchierando con un Ufficiale di marina sulla nave che lo conduceva prigioniero alla Maddalena; gli avesse detto che l'auspicata pace dell'Europa egli l'aveva intravveduta nel trinomio Stalin, Hitler e lui, con un'organizzazione sociale su basi differenti dalle presenti.

E questo ventennale dissidio, se pure non riuscì ad evitare la guerra, ottenne però di ritardarne l'inizio di un anno e di anticiparne poi di due la fine. Disse Hitler nel suo discorso del 10 settembre '43 “le stesse forze che hanno provocato la capitolazione, riuscirono nell’agosto 39 ad impedire che l'Italia partecipasse alla guerra»: e nell'altro suo discorso del 9-X I-43 - precisa che «per l’atteggiamento del suo re era costretta a mantenere uno stato di non belligeranza»

E non fu forse lo Monarchia, la che salvò nel 1943 l’Italia dal fare la fine        che fece la Germania nel 1945? Solo l’avere avuto il Capo dello Stato indipendente dal Governo fece sì che quando si manifestò sicura la sconfitta poté sganciarsi darla Germania e unendosi agli Alleati salvare il salvabile; con un «Presidente della Repubblica legato, per forza di cose ai partiti al governo, la rovina sarebbe stata completa, come lo fu per la Germania. Questa è la più efficace delle prove perché sorge dai fatti: questa la forza della Monarchia.

Il Sovrano è estraneo; anzi superiore ai partiti, mentre il Presidente della Repubblica, scelto nei ranghi di uno di essi, per quanto portato all'alto posto o da un accordo fra di loro o quanto meno dalla supremazia di alcuni di essi, accettato o sopportato dagli altri, non può a meno di sentire l'influenza, pur involontaria, del partito cui appartiene. E allora sarà pur sempre un partito a prevalere. Che se Presidente abdicasse completamente alla sua personale concezione politica, finirebbe per essere nulla più che un intermediario delle varie tendenze, decadrebbe perciò al rango di un, simbolo formale, senza efficienza, senza forza, giacché la sua autorità personale gli viene esclusivamente dai poteri politici contingenti, che l'hanno nominato. Mentre l'autorità di un Sovrano è innata in Lui; è una forza che ha in sé, che non si poggia a poteri transeunti e che dà perciò garanzie sicure per l'avvenire.

È una forza che conserva ancora, malgrado i tempi mutati, una reminiscenza della «Grazia, di Dio», anche se ormai la sovranità dinastica debba poggiare indiscutibilmente sulla sovranità popolare.

Ed è appunto in virtù di questa «Grazia di Dio», da cui le Monarchie sono illuminate, che esse sono strettamente, indissolubilmente legate alla Religione; quella religione cattolica che, senza intaccare minimamente la libertà religiosa di altri culti, lo Statuto Albertino pose a capo della Carta Costituzionale, quasi fondamento dello Stato stesso.

Gli indistruttibili principi cristiani, che nei riguardi civili si imperniano sulla famiglia, sull'educazione ed istruzione dei figli, sulla proprietà privata, sorta dal lavoro proprio o degli avi, garantita ai possessori, sono le basi su cui lo Stato deve fare presa per poter a sua volta garantire alla popolazione quella «dignità della persona umana, (1) che solo può dare vita operosa e tranquilla, aspirazione delle popolazioni. L'attuazione, anzi la valorizzazione di questi principi cristiani, la Monarchia nostra ha sempre garantito e sempre garantirà — ne dobbiamo aver sicura fede — qualunque siano gli eventi e le direttive contingenti di Governo, che un regime democratico abbia a portare alla direzione della cosa pubblica, mentre la Repubblica, in balia dei partiti è sempre esposta ad eccessi, per cui questi valori abbiano, se non ad essere soppressi, certo ad allentarsi e correre imminenti pericoli, con evidente danno del Paese.

Nella realtà delle cose, nella pratica di governo quale differenza tra Monarchia e Repubblica, in una Monarchia ossequiente alle direttive parlamentari, in cui si concreta il regime democratico? Nessuna, assolutamente nessuna; col grande vantaggio però per la Monarchia che queste direttive saranno imparzialmente seguite e fatte valere essendo il Sovrano al di sopra dei partiti.

Scrive Malacoda (2): «La Monarchia ereditario più che la Repubblica, è in misura di moderare gli estremismi delle forze politiche e, a differenza della Repubblica, rimanendo di fatto, malgrado ogni vincolo imposto e ogni accettazione apparente, distinta da quelle, funziona da valvola di sicurezza e conserva in sé un supremo potere di intervento in situazioni estreme che sarebbero altrimenti senza uscita».

E ancora Camillo Lanciani (3): «E allora la Monarchia, che con la successione ereditaria al trono è strettamente legata alla continuità del benessere del popolo, vivendo fuori delle lotte di classe e di partito costituisce, secondo me, una garanzia di obiettività e di normalizzazione della vita politico-sociale, direi quasi un correttivo delle passioni degli uomini preposti alla direzione di un popolo».

E a conclusione di quanto sopra mi sia concesso di riportare ancora quanto scrisse a questo riguardo quell'altissimo ingegno che fu Ruggero Bonghi (4) : «Ciò che a parer mio è soprattutto a' giorni nostri la forza delle dinastie, nei paesi in cui non sono distrutte, è questa: che in esse il Paese che reggono sente una continuità di vita. Non sono nate oggi, non muoiono domani. La Nazione vi si eterna in una persona sempre viva, vi ricorda il panato e vi presenta il suo avvenire. S'aggiunge che niente dimostra che lo scomparire d'una monarchia di dove era da secoli, renda più felice lo Stato e più; sicuro; che si contemperi meglio gli elementi di cui si compone. E niente neanche prova o dimostra che la   Monarchia, dove è rimasta, ostacoli nessun progresso o nessuna libertà utile»

(1)    Messaggio per il Natale 1.942 del Pontefice Pio XII.

(2) S. Malacoda, op. cit. pag. 98.

(3) Camino Lanciani: Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? Avvenire d'Italia - Roma 1945.

(4) Ruggero Bonghi: l'Ufficio del Principe in uno Stato Libero; pubblicato nella Nuova Antologia del 15 gennaio 1893.